Contenzioso

Da provare la colpa di prassi scorrette

di Patrizia Maciocchi

La società non risponde di cooperazione nel reato di lesioni gravissime, per la violazione sistematica delle norme sulla sicurezza lavoro, se manca la prova di una prassi contro la legge instaurata nell’azienda. La Cassazione, con la sentenza 49775/2019, accoglie il ricorso di una Srl condannata, in entrambi i gradi di giudizio, per aver trasgredito le norme in materia di sicurezza, concorrendo così a determinare un grave incidente. Infortunio del quale era stato vittima un autrotrasportatore, dipendente di un’altra ditta, rimasto gravemente ustionato dopo essere stato investito dal bitume.

I giudici confermano la responsabilità nel reato, comunque prescritto, del delegato per la sicurezza all’interno della società ricorrente, ma negano quella della Srl. L’accusa era di non aver informato le ditte di autotrasporto sui rischi dell’ambiente di lavoro e, in particolare, sulle corrette modalità di carico.

Ad avviso della Corte d’appello la società era responsabile per l’illecito amministrativo previsto dalla 231 (articolo 25-septies, comma 3) perché aveva agito senza un modello organizzativo utile a prevenire delitti del tipo di quello commesso dal delegato alla sicurezza. E questo per ottenere il vantaggio di una più rapida immissione sul circuito produttivo del materiale ed evitare un procedimento più costoso.

Per la Suprema corte la motivazione non regge. Non c’era, infatti, una prova che presso la Srl ci fosse una prassi «contra legem, la cui sussistenza chiama in causa la vigilanza del datore di lavoro». E soprattutto presuppone la conoscenza o la conoscibilità da parte sua.

Nello specifico è chiamato in causa un soggetto qualificato come “delegato” del datore, anche se in realtà mancavano gli elementi dell’esistenza della delega. Non era dimostrata la presunta prassi né la conoscenza o la conoscibilità di questa da parte dei responsabili. Solo alcuni tra i testimoni avevano parlato di una modalità residuale adottata in passato.

La motivazione è lacunosa anche per quanto riguarda l’interesse e il vantaggio dell’ente, richiesto dall’articolo 5 della 231 per la responsabilità. E a questo fine non basta il sommario richiamo alla sentenza di primo grado in cui si faceva un breve riferimento a un non meglio precisato risparmio sui tempi di lavoro e sui costi di smaltimento del bitume in modo non conforme.

La Cassazione ricorda che per la responsabilità degli enti derivante da reati colposi in caso di violazione della normativa antinfortunistica i criteri di imputazione del vantaggio e dell’interesse - entrambi da riferire a chi agisce e non all’evento - sono più stringenti. Il primo c’è quando l’autore del reato viola consapevolmente le norme cautelari, con l’intenzione di far risparmiare l’ente, a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo. Il secondo scatta quando l’autore del reato viola sistematicamente le norme contro gli infortuni ricavandone oggettivamente un vantaggio per l’ente «sotto forma di risparmio di spesa o di massimizzazione della produzione, indipendentemente dalla volontà di ottenere il vantaggio stesso».

Criteri nello specifico non seguiti. Neppure è valido l’assunto della violazione sistematica delle norme a tutela della sicurezza senza prova di una prassi scorretta.

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