Contenzioso

Quando scatta la responsabilità del datore per l’infortunio sul lavoro

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Trasferimento ramo d'azienda e decadenza
Cessione di ramo d'azienda
Licenziamento collettivo e violazione procedurale

Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2019, n. 27916

Pres. Di Cerbo; Rel. Patti; P.M. Cimmino; Ric. A.R.; Controric. A. A.G. S.N.C.

Infortunio sul lavoro – Art. 2087 c.c. – Responsabilità datoriale – Inosservanza delle norme antinfortunistiche – Incidenza causale nella verificazione del sinistro – Necessità

In base all’articolo 2087 del Codice civile, in caso di infortunio sul lavoro, il datore di lavoro è totalmente esonerato da ogni responsabilita solo quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormita, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" e alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento. Qualora invece non ricorrano detti caratteri nel comportamento del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio dipendente dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche, qualora la violazione dell'obbligo di sicurezza integri l'unico fattore causale dell'evento.
La Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado con la quale era stata rigettata la domanda risarcitoria avanzata dall'erede del de cuius, nei confronti della società alle cui dipendenze aveva prestato servizio il padre - deceduto in un sinistro stradale occorsogli allorquando si trovava alla guida di un autoarticolato di proprietà della sua datrice di lavoro -.
All'esito di un argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte territoriale, anche sulla base delle conclusioni cui era pervenuto il CTU, escludeva la responsabilità del datore in relazione all'infortunio mortale occorso al lavoratore.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso l'erede del de cuius sulla base di otto motivi.
In particolare, il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 41 Cost. in relazione all'art. 2087 c.c., sostenendo che erroneamente la Corte territoriale, aderendo acriticamente alle conclusioni cui era pervenuto il CTU, aveva escluso l'efficienza causale nella determinazione del sinistro di una serie di elementi quali, ad esempio, il sovraccarico di merce trasportata e l'usura degli pneumatici del lato destro, giungendo conclusivamente ad escludere la configurabilità nella specie di una responsabilità datoriale.
Il ricorrente sosteneva, inoltre, che nel giudizio civile alcuna influenza potesse avere nell'accertamento della responsabilità datoriale l'archiviazione del procedimento penale, tenuto conto che mentre la regola di giudizio del nesso di causalità nel giudizio civile si fonda sul principio del "più probabile che non", la regola di giudizio nel giudizio penale è invece ispirata al diverso principio del "oltre ogni ragionevole dubbio".
La Suprema Corte rigettava il ricorso.
La Suprema Corte ha innanzitutto chiarito che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro deve ritenersi responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, pure qualora sia ascrivibile non soltanto ad una sua disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494), con la conseguenza che il datore di lavoro è totalmente esonerato da ogni responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786).
Qualora invece non ricorrano detti caratteri nel comportamento del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio dipendente dall'inosservanza delle norme antinfortunistiche, qualora la violazione dell'obbligo di sicurezza integri l'unico fattore causale dell'evento: non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656).
La Suprema Corte ha, inoltre, chiarito che qualora il lavoratore lamenti di avere subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta, lo stesso è tenuto a provare, oltre che l'esistenza di tale danno, anche la nocività dell'ambiente di lavoro (ovvero la mancata adozione delle suddette misure protettive) e il nesso di causalità tra l'una e l'altra. Soltanto se il lavoratore abbia fornito una tale prova, sussiste per il datore di lavoro l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. 27 febbraio 2019, n. 5749; Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 4 febbraio 2016, n. 2209).
La Suprema Corte ha, altresì, precisato che, in materia di responsabilità aquiliana, vige il principio posto dagli artt. 40 e 41 c.p., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché il criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili. Ferma restando, peraltro, la diversità del regime probatorio applicabile nell'accertamento del nesso causale, vigendo nel processo penale la regola della prova "oltre il ragionevole dubbio", mentre in materia civile la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non" (Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 576).
Sulla base di tali premesse la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale, all'esito di un attento esame delle risultanze istruttorie, avesse correttamente escluso una responsabilità datoriale sia ai sensi dell'art.2087 cc., che ai sensi dell'art.2043 c.c., avendo accertato l'inesistenza di alcuna incidenza causale, nella determinazione del sinistro, del comportamento della società̀ di mancato rispetto di norme protettive. Avendo reputato ininfluenti, in particolare, tanto l'eccessiva usura degli pneumatici dal lato destro del mezzo condotto dal dipendente, quanto il sovraccarico dello stesso automezzo, ed avendo individuato la responsabilità̀ esclusiva del sinistro nella condotta imprudente di guida del lavoratore, a velocità non moderata, calcolata sui 70 km/h prossima a quella di ribaltamento, su strada curvilinea.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2019, n. 29101

Pres. Nobile; Rel. Amendola; P.M. Mastrobernardino; Ric. C.E. S.p.a.; Controric. A.C.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo - Ragioni inerenti all'attività produttiva - Legittimità - Fondamento - Effettiva esigenza di ristrutturazione organizzativa - Prova – Nesso causale - Inesistenza delle ragioni addotte - Illegittimità

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le ragioni inerenti all'attività produttiva ed all'organizzazione del lavoro, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di un'individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità; ove, però, il giudice accerti in concreto l'inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta.
NOTA
Nel caso di specie un dipendente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo essendo venuta meno la sua mansione prevalente a seguito della chiusura del dipartimento cui era addetto.
La Corte di Appello, nell'ambito di un procedimento Fornero, confermava l'illegittimità del licenziamento e condannava la società alla reintegrazione del dipendente.
Per la Corte, nel corso dell'istruttoria dinanzi al Tribunale, era emerso che le rimanenti attività svolte dal dipendente successivamente alla chiusura del dipartimento non erano residuali, bensì prevalenti; conseguentemente, la giustificazione addotta nella lettera di licenziamento doveva considerarsi manifestamente insussistente.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la Società, ma la Suprema Corte lo ha rigettato.
Per la Cassazione, ai fini della legittimità del recesso, è necessario verificare la sussistenza del nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato; se si accerta che la ragione addotta a giustificazione del licenziamento non sussiste, il recesso può essere dichiarato illegittimo per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità.
Con riferimento al caso in esame, la giustificazione addotta dalla società nella lettera di licenziamento è risultata smentita dall'istruttoria, essendo stato provato che, alla data del recesso, l'attività prevalente svolta dal dipendente non era quella corrispondente alla posizione soppressa; era quindi insussistente il nesso causale tra la chiusura del dipartimento e il licenziamento.

Trasferimento ramo d'azienda e decadenza

Cass. Sez. Lav. 7 novembre 2019, n. 28750

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; P.M. Celentano; Ric. O.R.; Controric. S.C. S.p.A. e S.I.C. S.p.A;

Trasferimento ramo d'azienda – Dipendente escluso dal ramo d'azienda trasferito – Imputazione del rapporto di lavoro nei confronti del cessionario – Decadenza – Inapplicabilità.

Le disposizioni di cui alla legge 183/2010, art. 32, comma 4, lett. c) e d) – rispettivamente relative al regime di decadenza nel caso di cessione del contratto di lavoro ai sensi dell'art. 2112 c.c. e in ogni altro caso in cui si chieda l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto – non si applicano alle ipotesi di trasferimento di ramo d'azienda, nelle quali il lavoratore escluso chieda l'accertamento del suo diritto al trasferimento alle dipendenze dell'azienda cessionaria.
NOTA
Un dipendente escluso dal ramo d'azienda oggetto di un'operazione di trasferimento ai sensi dell'art. 2112 c.c., agiva in giudizio nei confronti del cedente e del cessionario,
per sentire accertare il suo diritto al trasferimento alle dipendenze dell'azienda cessionaria, con contestuale condanna alla costituzione del rapporto di lavoro nonché al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate.
Il Tribunale di Napoli, con sentenza confermata anche in grado di appello, rigettava il ricorso, ritenendo fondata l'eccezione di decadenza ai sensi dell'art. 32, comma 4, lett. c) e d) legge 183/2010 svolta dalle società resistenti, in quanto il lavoratore aveva omesso di impugnare il trasferimento nei sessanta giorni successivi. In particolare, sia il giudice di prime cure, sia quelli di appello, rilevavano che anche a voler escludere l'applicabilità del regime decadenziale di cui citata alla lett. c) – relativo «alla cessione del contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell'art. 2112 del codice civile con termine di decadenza decorrente dalla data del trasferimento – il ricorrente sarebbe comunque decaduto ai sensi della lett. d) applicabile «in ogni altro caso in cui, compresa l'ipotesi prevista dall'articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l'accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto».
Avverso a tale sentenza, il dipendente ricorreva in cassazione; le aziende resistevano con controricorsi.
Il lavoratore, sostanzialmente, denunciava violazione e falsa applicazione sia della lett. c), sia della lett. d) del richiamato art. 32.
La Suprema Corte ha anzitutto confermato che i regimi decadenziali previsti dall'art. 32 della legge 183/2010 perseguono la finalità di contrastare pratiche di allentamento dei tempi del contenzioso giudiziario che finirebbero per provocare una moltiplicazione degli effetti economici in caso di eventuale sentenza favorevole al ricorrente e di stabilizzare le posizioni giuridiche delle parti in situazioni in cui si ha l'esigenza di conoscere, con precisione ed entro termini ragionevoli, se e quanti lavoratori possono far parte dell'organico aziendale.
Ciò posto, con riguardo al regime decadenziale di cui alla lett. c) è stato ribadito il principio di diritto (già affermato, da ultimo, in Cass. 13648/2019) secondo cui tale norma deve intendersi come relativa alle ipotesi in cui il lavoratore contesti l'avvenuta «cessione del contratto», cioè l'intervenuto trasferimento del relativo rapporto di lavoro, con la conseguenza che la stessa è inapplicabile alle ipotesi – come il caso di specie – in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento di azienda, al fine di ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario.
Con riguardo invece al regime decadenziale di cui alla lett. d), la Suprema Corte ha svolto un'interpretazione letterale della disposizione normativa, evidenziando come, con l'espressione «in ogni altro caso», il legislatore abbia voluto escludere le fattispecie riconducibili a quelle già espressamente disciplinate. Di conseguenza, se l'ipotesi della cessione ex art. 2112 c.c. è già disciplinata alla lett. c), da interpretarsi restrittivamente come ribadito anche dalla sentenza annotata, non può una fattispecie relativa allo stesso fenomeno ed esclusa dalla fattispecie tipizzata, essere ricondotta alla norma di chiusura di cui alla lett. d).
La non applicabilità al caso di specie del regime decadenziale di cui alla lett. d) è stata infine conferma all'esito di un esame complessivo della norma che, per come formulata, presuppone la sussistenza di almeno un pregresso «contatto» lavorativo tra il dipendente e l'impresa nei cui confronti viene rivendicata la costituzione o l'accertamento del rapporto di lavoro. Questo «contatto» lavorativo, comune a tutte le ipotesi interpositorie o comunque di contitolarità del rapporto di lavoro, è evidentemente assente nel caso di specie, in cui il lavoratore escluso dalla cessione del ramo, rivendichi la cessione del proprio rapporto nei confronti del cessionario.
Sulla base di queste ragioni, la Corte ha accolto il ricorso del dipendente, cassando con rinvio la sentenza.

Cessione di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav. 25 novembre 2019, n. 30667

Pres. Bronzini; Rel. Cinque; Ric G.F.; Controric. S.E.D.E. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Trasferimento di ramo d'azienda - Art. 2112 c.c. - Mutamento titolarità di attività economica - Necessità - Preesistenza dell'attività ceduta - Autonomia funzionale - Necessità - Fattispecie.

Costituisce trasferimento di ramo d'azienda ai sensi dell'art. 2112 c.c., qualsiasi operazione che comporti il mutamento della titolarità di un'attività economica, qualora l'entità oggetto del trasferimento conservi, successivamente allo stesso, la propria identità; affinché si configuri un ramo d'azienda è inoltre indispensabile sia il requisito della "preesistenza" che quello dell'autonomia funzionale.
NOTA
Il caso di specie riguarda una cessione di ramo d'azienda che aveva coinvolto diversi lavoratori che, ai sensi dell'art. 2112 c.c., erano passati alle dipendenze della società cessionaria.
Uno dei lavoratori adiva il Tribunale di Genova, chiedendo il ripristino del rapporto di lavoro con la società cedente, stante l'illegittimità della cessione per insussistenza dei presupposti richiesti dall'art. 2112 c.c., difettando altresì il requisito della preesistenza dell'attività ceduta.
Tale domanda veniva rigettata sia in primo che secondo grado dai giudici di merito.
La Corte di Cassazione, adita dal lavoratore, ha richiamato innanzitutto il noto principio secondo cui il trasferimento d'azienda deve riguardare un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere una attività economica, sia essa essenziale o accessoria; affinché si configuri un ramo d'azienda è inoltre indispensabile sia il requisito della "preesistenza" che quello dell'autonomia funzionale (cfr. inter alia Cass. n. 1769/2018 e Cass. n. 15438/2016).
Ciò premesso, prosegue la Corte, tali principi sono stati correttamente applicati dalla Corte d'Appello, che aveva rilevato sia che il complesso dei beni ceduti integrava un'entità economica organizzata in maniera stabile, sia che si trattava di una parte del settore aziendale costituito da un insieme organicamente finalizzato, ex ante, all'esercizio dell'attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture già esistenti al momento del trasferimento.
In conclusione, la ritenuta regolarità dell'operazione di trasferimento del ramo di azienda ex art. 2112 c.c., esclude, logicamente e giuridicamente, che nel caso in esame sia stata attuata «una forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate tra loro, di semplici reparti ed uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell'imprenditore» (Cass. n. 11832/2014), caso in cui, invece, il mutamento di parte datoriale si colloca in una prospettiva di elusione della norma.
Per tali motivi la Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

Licenziamento collettivo e violazione procedurale

Cass. Sez. Lav. 26 novembre 2019, n. 30865

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Cimmino; Ric. L.C.; Controric. F.R. s.r.l.;

Licenziamento collettivo – Violazione procedurale – Comunicazione ex art. 4, co. 9, L. 223/91 tardiva – Conseguenze - Reintegrazione – Esclusione - Tutela indennitaria - Infungibilità del profilo professionale - Violazione dei criteri di scelta – Insussistenza

In forza della previsione dettata dall'art. 5, comma 3, della legge n. 223 del 1991 si applica la tutela indennitaria ai vizi formali della procedura di mobilità e la tutela reintegratoria ai vizi procedurali che abbiano, in concreto, determinato la violazione dei criteri di scelta, dovendosi verificare se l'errata determinazione dell'ambito della platea dei lavoratori si sia risolta in una (conseguente) errata comparazione dei lavoratori alla stregua dei criteri di scelta (sindacali o legali).
NOTA
La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza emessa in fase di opposizione, ha ritenuto che il licenziamento ex L. 223/91 intimato ad un lavoratore titolare di professionalità infungibile – avvenuto senza comparazione con altri lavoratori – risultava affetto esclusivamente da violazione procedurale (inoltro della comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, L. 223/91 oltre il termine di sette giorni), ma non anche - come invece ritenuto dal giudice dell'opposizione - dalla violazione dei criteri di scelta. Richiamando, quindi, precedenti di legittimità in termini (Cass. 13 giugno 2016 n. 12095; Cass. 29 settembre 2016, n. 19320), la Corte territoriale ha escluso la tutela reintegratoria condannando la società alla sola tutela indennitaria nella misura di dodici mensilità.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, cui la società ha resistito con controricorso.
La Suprema Corte, nel rigettare i primi due motivi di ricorso - inerenti l'applicazione della sola tutela indennitaria e non già quella reintegratoria - afferma il principio di cui alla massima, già sancito in recenti precedenti (Cass. 2 febbraio 2018, n. 2587). Secondo la Cassazione, la regolarità delle comunicazioni di apertura e di chiusura della procedura di mobilità ha valore determinante non in quanto fine a sé stessa ma perché funzionale alla garanzia occupazionale nei confronti dei lavoratori, dovendosi, quindi, applicare la tutela reintegratoria solo quando il vizio formale ridondi in un vizio sostanziale sui criteri di scelta.
A parere della Cassazione, nel caso in esame, la sentenza impugnata correttamente ha ritenuto non condivisibile la valutazione di primo grado, secondo cui la mancata comparazione del ricorrente con altri lavoratori in organico costituiva di per sé solo violazione dei criteri di scelta. La Corte territoriale ha, infatti, attribuito valore determinante all'accertamento dell'infungibilità del profilo professionale del ricorrente, affermando che la mancata indicazione nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 9 L 223/91, delle ragioni che consentivano di limitare la scelta del personale in esubero al solo reparto di cui il lavoratore era responsabile, senza comparazione con tutti i dipendenti dell'azienda, si risolvesse in un mero vizio procedurale che non ridondava nella violazione dei criteri di scelta, con conseguente esclusione della tutela reintegratoria.
Secondo la Suprema Corte tale iter è conforme all'orientamento prevalente di legittimità enunciato nella massima, avendo i giudici territoriali verificato che la mansione del ricorrente era infungibile con l'attività dei dipendenti di tutti gli altri reparti, conseguentemente la sua comparazione con i lavoratori di tutto il complesso aziendale non avrebbe comunque modificato la graduatoria del personale in esubero e non avrebbe, quindi, consentito di evitare il licenziamento di questo lavoratore.
Il ricorso viene, pertanto, rigettato.

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