Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Infortunio sul lavoro e obbligo di prevenzione del datore
Reiterazione abusiva di co.co.co. e indennità ex art. 50, legge n. 183/2010
Delimitazione ad una sola unità produttiva in caso di licenziamento collettivo
Sulla nullità del licenziamento intimato in costanza di fruizione del congedo

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2019, n. 29100

Pres. Nobile; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric T.P. S.r.l.; Controric. P.M.;

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Soppressione della posizione - Obbligo di repêchage - Mansioni inferiori - Necessità - Onere della prova a carico del datore di lavoro - Sussiste - Mancato rispetto - Illegittimità del licenziamento

In caso licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore licenziato ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, alla quale avrebbe potuto essere assegnato il lavoratore per l'espletamento di mansioni equivalenti a quelle svolte, ma anche di aver prospettato, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.
NOTA
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Ancona dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato a un lavoratore per soppressione della posizione lavorativa.
La Corte territoriale, se da un lato aveva ritenuto provata la crisi aziendale giustificante la soppressione del posto di lavoro del dipendente, dall'altro aveva ritenuto non assolto l'obbligo di repêchage, non avendo il datore di lavoro provato di avere prospettato al lavoratore la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la società con vari motivi di ricorso. In particolare, e per quanto di interesse, con il primo motivo di ricorso la società ha contestato la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 Legge n. 604/1966, artt. 2697 c.c., 115, 116 e 414, n. 3, c.p.c. «per erronea ripartizione dell'onere della prova» in ordine all'esistenza di un posto cui il lavoratore avrebbe potuto essere adibito.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di impugnazione ricordando che, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente, spetta al datore di lavoro l'onere di allegare la prova dell'impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, «in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale», senza che sul lavoratore incomba alcun onere di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (Cass. n. 5592 del 22/3/2016; Cass. n. 12101 del 13/6/2016; Cass. n. 160 del 5/1/2017; Cass. n. 24882 del 20/10/2017).
Sul punto, la Corte ha altresì ricordato che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il lavoratore, il datore di lavoro ha l'onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. n. 21579 del 13/8/2008; Cass. n. 4509 dell'8/3/2016; Cass. n. 31653 del 6/12/2018).
La Corte di Cassazione ha dunque confermato l'illegittimità del licenziamento e concluso per il rigetto del ricorso, ritenendo che fosse mancata la prova dell'offerta datoriale al lavoratore di mansioni inferiori cui lo stesso avrebbe potuto essere adibito.

Infortunio sul lavoro e obbligo di prevenzione del datore

Cass. Sez. Lav. 25 novembre 2019, n. 30679

Pres. Napoletano; Rel. Bellè; Ric. C.G.; Controric. P.M.

Infortunio sul lavoro - Violazione obbligo di prevenzione del datore - Concorso di colpa del lavoratore - Esclusione.

In materia di infortuni sul lavoro, la condotta incauta del lavoratore non comporta "concorso" di colpa idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni volta in cui la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare munita di «incidenza esclusiva» rispetto alla determinazione dell'evento dannoso. In tal senso, qualora risulti l'inosservanza da parte del datore di lavoro di specifici doveri informativi (o formativi) del lavoratore rispetto all'attività da svolgere, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, il comportamento del lavoratore da cui è scaturito l'infortunio non vi sarebbe stato, non è possibile addossare al lavoratore, sotto il medesimo profilo, l'ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa (o di formazione), al fine di fondare una colpa idonea a concorrere con l'inadempimento datoriale e che sia tale da ridurre, ai sensi dell'art. 1227 c.c., la misura del risarcimento dovuto.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'appello, in riforma della decisione del Tribunale, accoglieva la domanda di risarcimento di un lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro e del suo superiore gerarchico per l'infortunio sul lavoro patito a causa del crollo di un capannone metallico di proprietà dell'ente.
La Corte riteneva che sussistessero coefficienti colposi in capo al responsabile gerarchico, ma riteneva che a determinare l'evento avesse concorso in via preponderante l'imprudenza del lavoratore nell'avere deciso di svolgere il lavoro nonostante le indicazioni contrarie ricevute e senza essere sufficientemente informato sulle caratteristiche dell'opera da svolgere. Fissava quindi il risarcimento per i danni alla persona subiti, in misura del 35% del totale, sulla base di un contributo causale del 65% da parte del ricorrente.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione contestando il fatto che sia stato riconosciuto un suo concorso di colpa nella causazione dell'infortunio.
La Corte di legittimità, ha accolto il ricorso del lavoratore ricordando che «quella dell'art. 2087 c.c., non costituisce ipotesi di responsabilità oggettiva e che il lavoratore è onerato della sola prova della nocività del lavoro, spettando poi al datore dimostrare di avere adottato tutte le misure cautelari idonee ad impedire l'evento», e che «una volta addotta ed individuata una cautela (specificamente prevista ex ante da norme o genericamente deducibile dalle vigenti regole di prudenza, perizia e diligenza richiedibili nel caso concreto) che fosse idonea ad impedire l'evento e che non sia stata attuata, ne resta radicata la responsabilità datoriale».
Ciò premesso, la Corte ha affermato che «si deve ritenere – con spiccata aderenza rispetto al caso di specie – che di concorso di colpa nell'illecito non si possa mai parlare se la radice causale ultima dell'evento, pur in presenza di un comportamento del lavoratore astrattamente non rispettoso di regole cautelari, si radichi nella mancata adozione, da parte del datore di lavoro, di forme tipiche o atipiche di prevenzione, come detto individuabili e pretendibili ex ante, la cui ricorrenza avrebbe consentito, nonostante tutto, di impedire con significativa probabilità l'evento».
La Corte di cassazione ha rilevato che la Corte territoriale, nel decidere, si è discostata dai principi sopra delineati ed in particolare ha concluso che «in materia di infortuni sul lavoro, la condotta incauta del lavoratore non comporta "concorso" di colpa idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni volta in cui la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare munita di «incidenza esclusiva» rispetto alla determinazione dell'evento dannoso». In tal senso, «qualora risulti l'inosservanza da parte del datore di lavoro di specifici doveri informativi (o formativi) del lavoratore rispetto all'attività da svolgere, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, il comportamento del lavoratore da cui è scaturito l'infortunio non vi sarebbe stato, non è possibile addossare al lavoratore, sotto il medesimo profilo, l'ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa (o di formazione), al fine di fondare una colpa idonea a concorrere con l'inadempimento datoriale e che sia tale da ridurre, ai sensi dell'art. 1227 c.c., la misura del risarcimento dovuto».

Reiterazione abusiva di co.co.co. e indennità ex art. 50, legge n. 183/2010

Cass. Sez. Lav. 11 ottobre 2019, n. 25688

Pres. Nobile; Rel. Marotta; Ric. A.C. S.p.A.; Controric. E.O.

Lavoro - Lavoro subordinato (nozione, differenza dal rapporto di lavoro autonomo, distinzione) - In genere: reiterazione abusiva di co.co.co. - Indennità ex art. 50 della L. n. 183 del 2010 - Natura - Misura sanzionatoria unica - Esclusione - Misura del risarcimento - Configurabilità - Conseguenze.

L'indennità prevista dall'art. 50 della L. n. 183/2010, per il caso di accertamento giudiziale della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolando la misura del risarcimento in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata, non rappresenta l'unica misura sanzionatoria, sostitutiva di tutte le conseguenze normalmente ricollegabili a un tale accertamento, bensì un indennizzo che tiene luogo al solo risarcimento dei danni derivanti dalla ingiustificata estromissione, fermo restando il diritto del lavoratore al ripristino ovvero alla "conversione" del rapporto di lavoro, in esecuzione della sentenza.
NOTA
Con la sentenza in commento, la Suprema Corte affronta la questione dell'interpretazione dell'art. 50 della L. n. 183/2010.
Segnatamente, la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della decisione del Tribunale della medesima sede, aveva dichiarato la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con decorrenza dal luglio 2002 – anno in cui avevano avuto avvio i contratti di collaborazione continuativa tra il lavoratore e l'azienda – e, per l'effetto, aveva condannato la società al pagamento delle differenze retributive, al risarcimento del danno nella misura pari a tre mensilità, oltre alla "conversione".
Avverso tale pronuncia la società datrice di lavoro proponeva, quindi, ricorso per cassazione, denunciando la violazione dell'art. 50 cit. ed affermando che la Corte territoriale aveva del tutto disatteso il dettato della norma, la quale avrebbe previsto unicamente un indennizzo onnicomprensivo in favore del prestatore di lavoro e non anche la conversione del rapporto di lavoro.
La Suprema Corte decide la questione così argomentando: «la norma va interpretata nel senso che l'indennità economica si sostituisce esclusivamente alle normali conseguenze risarcitorie che derivano dall'accertamento della natura subordinata del rapporto, assicurando al lavoratore un indennizzo che copre, in via forfettaria, non diversamente dall'art. 32 della medesima legge, i danni derivanti dalla ingiustificata estromissione, fermo, tuttavia, il diritto del prestatore al ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro ovvero alla "conversione", in esecuzione della sentenza (oltre che naturalmente alle retribuzioni da tali momenti in poi ed a quelle eventualmente maturate in ragione del reale atteggiarsi del rapporto intercorso e non derivanti, ex se, dalla diversa qualificazione del rapporto)».
Sicché, alla luce di quanto statuito dalla Suprema Corte, si deve concludere che l'indennità ex art. 50 L. n. 183/2010 regola soltanto i rapporti tra lavoratore e datore di lavoro, stabilendo unicamente la misura del risarcimento in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione della collaborazione e la sentenza che ne accerta la natura subordinata, lasciando impregiudicato il diritto del prestatore alla riammissione in servizio.

Delimitazione ad una sola unità produttiva in caso di licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 2 dicembre 2019, n. 31393

Pres. Nobile; Rel. Raimondi; Ric. D. s.r.l.; Contr. M.G. e altri;

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Delimitazione ad una sola unità produttiva – Ammissibilità – Condizioni – Indicazione nella comunicazione di avvio delle oggettive esigenze aziendali – Necessità.

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, riferite al complesso aziendale, ben possono costituire criterio esclusivo per la determinazioni della platea dei lavoratori da licenziare, purchè il datore di lavoro indichi nella comunicazione di avvio, ex art. 4, comma 3, l. n. 223, sia le ragioni che giustifichino la limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell'unità in questione, sia le ragioni per le quali non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. In mancanza, il licenziamento è da ritenersi illegittimo.
NOTA
La Corte di appello di Messina, confermando la sentenza del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, dichiarava la nullità del licenziamento collettivo intimato a sette lavoratori. La Corte di merito, nel decidere la controversia, respingeva la tesi della società ricorrente secondo cui non sarebbe stato possibile verificare, in sede giudiziale, la legittimità del criterio identificativo degli esuberi - che in questo caso era stato individuato dalla società esclusivamente con riferimento ai lavoratori impiegati nell'unità produttiva da sopprimere - quando manchino obiezioni sollevate, in sede di esame congiunto, dalle organizzazioni sindacali.
Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, in quanto la Corte di appello non aveva considerato che la comunicazione di apertura della procedura conteneva un'argomentata motivazione delle ragioni organizzative che imponevano la limitazione della platea di scelta dei lavoratori da licenziare. Inoltre, sempre a parere della ricorrente, la sentenza impugnata erroneamente non aveva considerato la rilevanza giuridica della mancata opposizione, in sede di esame congiunto, da parte delle organizzazioni sindacali al criterio adottato dalla società.
La Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi, rileva come la Cassazione sia ferma nell'affermare che, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva, le esigenze di cui all'art. 5, comma 1, l. n. 223/1991, riferite al complesso aziendale, ben possono costituire criterio esclusivo per la determinazioni della platea dei lavoratori da licenziare, purché il datore di lavoro indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, sia le ragioni che giustifichino la limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell'unità in questione, sia le ragioni per le quali non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Con la conseguenza che, qualora nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale, senza alcun riferimento alle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (Cass. 9 marzo 2015, n. 4678). Quanto poi alla censura relativa alla mancata opposizione da parte delle organizzazioni sindacali, la Cassazione evidenzia che, per giurisprudenza costante, il vizio consistente nella mancata indicazione nella comunicazione di avvio della procedura di tutti gli elementi previsti dall'art. 4, comma 3, l. n. 223/1991 invalida la procedura e determina l'inefficacia dei licenziamenti, vizio che non è sanato dalla successiva stipulazione dell'accordo sindacale (Cass. 11 luglio 2007, n. 15479). Conclusivamente il ricorso viene integralmente respinto.

Sulla nullità del licenziamento intimato in costanza di fruizione del congedo

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31524

Pres. Nobile; Rel. Consigliere; Ric. S.F.; Controric. C.D.B.I.C.;

Lavoro subordinato – Congedo per l'assistenza al parente disabile – Nullità del licenziamento intimato in costanza di fruizione del congedo – Esclusione

In tema di congedo per l'assistenza al congiunto in condizione di disabilità l'art. 4, comma 2 della legge 8 marzo 2000, n. 53 pone un divieto di licenziamento solo se fondato sulla fruizione del congedo medesimo ma non anche per ogni causa, diversa e legittima, di risoluzione del rapporto di lavoro. II diritto alla conservazione del posto, infatti, non esprime limitazioni al legittimo potere di recesso ma è finalizzato, esclusivamente, a garantire al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale (analogamente a quanto avviene per la malattia) per il periodo di assistenza al congiunto inabile. La fruizione del congedo, in altre parole, non rende insensibile il rapporto di lavoro ai fatti estintivi previsti dalla legge ma, al più, pone questione di sospensione degli effetti di detti fatti (id est: del recesso) fino al termine del congedo medesimo.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Catanzaro aveva rigettato il reclamo avverso la sentenza del Giudice di prime cure che, confermando l'ordinanza emessa nella prima fase, aveva respinto la richiesta di dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore all'esito di una procedura di licenziamento collettivo.
Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento per vari motivi ma soprattutto, per quanto qui interessa, in relazione alla circostanza per cui lo stesso, all'epoca dell'intimazione del recesso, stava fruendo del periodo di congedo previsto dal D. Lgs. 151/2001 per l'assistenza di un congiunto disabile. Secondo il lavoratore, infatti, la disposizione di cui all'art. 4, comma 2, della Legge n. 53 del 2000 applicabile alla fattispecie in esame in virtù del richiamo operato dall'art 42 del D.Lgs. 151/2001 e che prevede il diritto del lavoratore, durante il periodo di congedo, alla conservazione del posto di lavoro, determinerebbe la nullità del licenziamento intimato durante la fruizione del congedo medesimo.
La Corte d'Appello respingeva la tesi del lavoratore sostenendo che la normativa in esame non stabiliva alcun divieto di licenziamento per il lavoratore che usufruisce di tale congedo, cosa che invece era espressamente prevista per altre ipotesi (congedo di maternità, paternità) dall'art. 54 del medesimo D.Lgs.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore sostenendo ancora una volta, tra l'altro, la nullità del licenziamento per i motivi sopra riportati legati alla fruizione del congedo.
La Suprema Corte ha respinto le censure del lavoratore e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha ribadito che, in relazione alla fruizione del congedo previsto per l'assistenza al congiunto disabile «l'art. 4, comma 2 (della legge 8 marzo 2000, n. 53, n.d.r.) pone un divieto di licenziamento solo se fondato sulla fruizione del congedo medesimo ma non anche per ogni causa, diversa e legittima, di risoluzione del rapporto di lavoro. II diritto alla conservazione del posto, infatti, non esprime limitazioni al legittimo potere di recesso ma è finalizzato, esclusivamente, a garantire al lavoratore un trattamento economico ed assistenziale (analogamente a quanto avviene per la malattia) per il periodo di assistenza al congiunto inabile. La fruizione del congedo, in altre parole, non rende insensibile il rapporto di lavoro ai fatti estintivi previsti dalla legge ma, al più, pone questione di sospensione degli effetti di detti fatti (id est: del recesso) fino al termine del congedo medesimo.».

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