Contenzioso

Contratto a termine convertito senza tutele crescenti

di Angelo Zambelli


Un contratto a tempo determinato sottoscritto prima del 7 marzo 2015, e convertito dal giudice dopo tale data per nullità del termine, non ricade nell'applicazione delle tutele crescenti.

Con la sentenza 823/2020 la Corte di cassazione si è pronunciata per la prima volta in merito all'applicabilità del Jobs act ai casi di conversione successivi all'entrata in vigore del Dlgs 23/2015, così superando il contrasto giurisprudenziale creatosi sull'interpretazione dell'articolo 1, comma 2, del Dlgs (si veda tribunale di Roma 75870/2018 e tribunale di Parma 383/ 2019).

La controversia trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente originariamente assunto con contratto a termine, convertito per ordine giudiziale a tempo indeterminato con sentenza emessa dopo il 7 marzo 2015. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, chiedendo – nell'ambito del rito Fornero - l'accertamento dell'illegittimità del recesso per insussistenza del fatto contestato, con conseguente reintegrazione in servizio secondo l'articolo 18, comma 4 dello statuto dei lavoratori.

Il giudice di primo grado – sia nella fase sommaria che in quella di opposizione – e, successivamente, la Corte d'appello di Roma hanno accolto le domande del dipendente, rigettando la tesi sostenuta dal datore di lavoro relativa all'applicabilità del Jobs act alle ipotesi di conversione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo determinato intervenute dopo il 7 marzo 2015.

Nel confermare la sentenza resa dalla Corte territoriale, la Cassazione ha fornito un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 1, secondo comma, del Dlgs 23/2015, prendendo le mosse dalla legge 183/2014 che ha delegato il Governo a prevedere, per le nuove assunzioni, l'istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Occorre, hanno precisato i giudici, «operare un'interpretazione della norma in esame che sia rigorosamente circoscritta alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine di assicurare il rispetto dei limiti della delega».

Ebbene, la Cassazione ha statuito che «i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo, con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente a tale decreto in alcun modo possono essere considerati “nuovi assunti”». Ciò in quanto – prosegue la Corte – «la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine…ha natura dichiarativa e non costitutiva», con il conseguente «effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine».

Sotto diverso ma connesso profilo, la Cassazione ha altresì statuito come una diversa interpretazione comporterebbe un'«evidente quanto irragionevole disparità di trattamento» tra lavoratori ugualmente assunti a tempo determinato prima del 7 marzo 2015, con conversione del rapporto, per nullità del termine, «in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data».

Alla luce di tali chiarimenti ermeneutici, la Corte suprema, al fine di fugare ogni dubbio interpretativo, ha poi anche voluto individuare le ipotesi di conversione di contratti a termine successive al 7 marzo 2015 che comportano, di contro, l'applicabilità del Jobs act, annoverando, oltre alla conversione volontaria, anche le ipotesi di continuazione del rapporto oltre i limiti di legge, di mancato rispetto delle clausole di stop&go nonché di superamento del limite dei trentasei mesi (ora 24 mesi dopo le modifiche apportate dal decreto dignità), qualora tali violazioni siano intervenute dopo il 7 marzo 2015.

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