Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Modifica quantitativa delle mansioni e dequalificazione
Licenziamento collettivo e unità produttiva
Riconoscimento di qualifica dirigenziale
Gruppo societario, codatorialità e licenziamento
Licenziamento per giusta causa


Modifica quantitativa delle mansioni e dequalificazione

Cass. Sez. Lav. 14 novembre 2019, n. 29626

Pres. Nobile; Rel. Raimondi; Ric. B.M.; Contr. U.B. S.p.a.;

Ius variandi – Art. 2103 c.c. – Sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali – Conseguente modifica mansioni – Riduzione quantitativa – Dequalificazione professionale e demansionamento – Insussistenza – Bilanciamento tra ragioni della produzione e mantenimento del posto – Necessità

In tema di ius variandi ai sensi dell'art. 2103 c.c., non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale – per natura, portata e incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo
stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità.
NOTA
La Corte di appello di Bologna accoglieva il ricorso del datore di lavoro avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Bologna aveva accertato, da un lato, il diritto del lavoratore al superiore inquadramento nella categoria dirigenziale, dall'altro lato il demansionamento subìto in taluni periodi nel corso del rapporto di lavoro, condannando il datore alle differenze retributive, oltre al risarcimento del danno biologico e del danno all'immagine e alla professionalità subìto dal dipendente.
In particolare, la Corte territoriale, attraverso il procedimento logico-giuridico c.d. "trifasico" – ovvero fondato sui tre passaggi successivi a) dell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, b) dell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal CCNL di categoria e, infine, c) dal raffronto tra il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda indagine – aveva esaminato le mansioni via via assegnate al lavoratore, ne aveva accertato la mancata corrispondenza alla declaratoria contrattuale relativa alla figura del dirigente, essenzialmente per difetto della "piena autonomia e ampia discrezionalità" che il CCNL collega a questa posizione e aveva concluso, quindi, nel senso dell'infondatezza della domanda del lavoratore relativa al superiore inquadramento nella categoria dirigenziale.
La Corte aveva, altresì, escluso che l'accertato ridimensionamento dei compiti assegnati al lavoratore configurasse, nel caso di specie, un'ipotesi di demansionamento.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte, anzitutto, ritiene immune da vizi e coerente con il predetto procedimento trifasico l'accertamento di fatto operato dalla Corte di Bologna che ha escluso il diritto del lavoratore al superiore inquadramento.
In secondo luogo, la Cassazione precisa che un ridimensionamento dei compiti assegnati ad un lavoratore non si traduce di per sé nell'espletamento di mansioni inferiori rispetto a quelle proprie del livello di appartenenza. In altre parole, non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale – per natura, portata e incidenza sui poteri del lavoratore e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale – da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità.
La Suprema Corte, con riferimento al caso di specie, ritiene, pertanto, che la Corte territoriale avesse correttamente valutato il demansionamento lamentato dal lavoratore alla stregua di un mero ridimensionamento dei compiti operativi assegnati, con esclusione di un'ipotesi di demansionamento essendo il cambio mansioni giustificato dalla crescita della rete commerciale del datore.
La Cassazione ritiene, inoltre, condivisibile l'affermazione della Corte di Bologna secondo cui «La tutela offerta dall'art. 2103 non può essere spinta al punto da comportare la paralisi di un servizio essenziale per l'impresa. In effetti, la disposizione dell'art. 2103 c.c. sulla disciplina delle mansioni e sul divieto di declassamento va interpretata alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un'organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto; ne consegue che, in caso di sopravvenute e legittime scelte imprenditoriali, comportanti adibizione del lavoratore a mansioni diverse, anche inferiori, a quelle precedentemente svolte, restando immutato il livello retributivo, non si pone in contrasto con il dettato del codice civile (v. anche Cass. Civ., sez. Lav., sent. 22 maggio 2014, n. 11395)».
Conclusivamente il ricorso del lavoratore viene respinto.

Licenziamento collettivo e unità produttiva

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31523

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; P.M. Cimmino; Ric. FILCTEM-CGIL e F.P.; Controric. G.C.R. S.p.A.

Licenziamento collettivo – Ristrutturazione di una unità produttiva o di un settore – Individuazione dei lavoratori da licenziare – Delimitazione ad un'unità produttiva o settore – Infungibilità – Legittimità

Nel licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una singola unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione, al fine di individuare i lavoratori da avviare alla mobilità, può essere limitata – ove sia giustificata dalle ragioni tecnico-produttive che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale – agli addetti alle singole unità produttive interessate dalla ristrutturazione, dovendosi intendere come tali ogni articolazione dell'azienda che si caratterizzi per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali. Tuttavia, tale limitazione è legittima soltanto qualora i lavoratori addetti all'unità produttiva o al reparto interessati dalla riduzione non siano idonei ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti.

Licenziamento collettivo – Riduzione o trasformazione di attività – Scelta imprenditoriale – Insindacabilità – Accertamento del giudice - Nesso causale tra ridimensionamento e singolo recesso - Necessità

La fattispecie del licenziamento collettivo presuppone, come requisito fattuale di legittimità, la realizzazione di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, attuata sulla base di una scelta di opportunità che rientra nella insindacabile valutazione del datore di lavoro. L'accertamento del giudice, investito della valutazione della legittimità del licenziamento collettivo, riguarda esclusivamente la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna, confermando la sentenza del Tribunale di Modena, accertava la legittimità del licenziamento intimato ad un dipendente all'esito di una procedura di licenziamento collettivo che aveva interessato tutti gli addetti ad un reparto della società datrice di lavoro.
Avverso tale pronuncia, il lavoratore propone ricorso per cassazione, denunciando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 4, comma 9, e 5 L. 223/1991, laddove la Corte d'Appello aveva ritenuto corretta la determinazione aziendale di limitare il novero dei lavoratori da licenziare ai soli addetti al reparto soppresso (anziché estendere la comparazione a tutti i dipendenti della società), nonché la violazione dell'art. 4, commi 2, 3 e 9 e dell'art. 24 L. 223/1991, non avendo i giudici di merito verificato l'effettività della scelta imprenditoriale.
Quanto al primo profilo, la Suprema Corte rileva che nei licenziamenti collettivi per riduzione del personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale sia limitato esclusivamente ad una singola unità produttiva o ad un singolo settore, la comparazione dei lavoratori, al fine di individuare quelli da licenziare, può essere limitata agli addetti alle singole unità produttive o settori interessati dalla ristrutturazione, dovendosi intendere come tali ogni articolazione dell'azienda che si caratterizzi, per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa, sicché si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un momento essenziale dell'attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliarie o strumentali (in senso conforme, Cass. 31 luglio 2012, n. 13705). Tuttavia, prosegue la Corte, il datore di lavoro non può limitare la scelta ai soli dipendenti addetti al reparto interessato qualora essi siano idonei, per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell'azienda, ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti (Cass. 12 gennaio 2015, n. 2013; Cass. 1 agosto 2017, n. 19105).
Nel caso in esame, la corte territoriale aveva fatto corretta applicazione di tali principi, avendo positivamente accertato che il progetto di ristrutturazione aziendale si riferiva esclusivamente al reparto al quale era addetto il ricorrente, che tale reparto si caratterizzava per autonomia operativa ed esauriva un particolare ciclo di attività, nonché che i lavoratori licenziati non avevano una professionalità equivalente e/o fungibile rispetto a quella dei colleghi addetti agli altri reparti.
Quanto al secondo profilo, la Suprema Corte ha confermato il proprio orientamento secondo cui, in materia di licenziamenti collettivi, il giudice investito della valutazione di legittimità dei recessi non può sindacare la scelta imprenditoriale di ridimensionare il livello occupazionale in ragione di una programmata ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale. Al contrario, la fattispecie del licenziamento collettivo presuppone, come requisito fattuale di legittimità, la cui ricorrenza può essere verificata dal giudice, la realizzazione di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, determinata da una scelta di opportunità che rientra nell'insindacabile valutazione del datore di lavoro, ovvero da una diminuzione della richiesta di beni o servizi, da una situazione di crisi o da una modificazione dell'organizzazione produttiva, che comportino la soppressione di uffici, reparti, lavorazioni, ovvero anche soltanto la contrazione della forza lavoro. A tal riguardo, l'accertamento del giudice riguarda esclusivamente la sussistenza dell'imprescindibile nesso causale tra il progettato ridimensionamento e i singoli provvedimenti di recesso (Cass. 18 settembre 2007, n. 19347; Cass. 19 aprile 2003, n. 6385).
Nel caso in esame, la Corte d'appello aveva correttamente riscontrato che la scelta imprenditoriale – di cui si era espressamente dato atto nella comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo – atteneva alla soppressione di un reparto, poi effettivamente avvenuta, e che il ricorrente era addetto al reparto soppresso.

Riconoscimento di qualifica dirigenziale

Cass. Sez. Lav. 29 novembre 2019, n. 31279

Pres. Bronzini; Rel. Raimondi; P.M. Sanlorenzo; Ric. D.M. S.p.A. Controric. A.P.;
Riconoscimento qualifica dirigente - Caratteristiche – Requisiti – Autonomia decisionale – Vincolo gerarchico

Nelle organizzazioni aziendali complesse, il tratto caratteristico ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale va individuato nell'autonomia decisionale che consenta al dirigente di attuare e promuovere gli obiettivi dell'impresa, anche nel caso in cui sia esistente un vincolo gerarchico nei confronti di un dirigente di livello superiore.
NOTA
La Corte di appello di Genova ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva riconosciuto al lavoratore la qualifica dirigenziale, con condanna al pagamento delle relative differenze retributive.
La Corte territoriale ha ritenuto fondata la domanda di inquadramento nella categoria dirigenziale, in ragione del fatto che le mansioni affidate al lavoratore rivelavano un livello di autonomia e potere decisionale di grado elevato e che gli fosse stato, quindi, affidato, il compito di attuare e di promuovere gli obiettivi dell'impresa, nonostante l'esistenza di un vincolo di dipendenza gerarchica nei confronti di altri dirigenti.
Avverso tale pronuncia il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione, denunciando, in particolare, l'erronea interpretazione da parte della Corte di Appello, delle norme, sia di legge (artt. 2095 e 2103 c.c. e art. 2 della L. n. 190/1985), che di fonte collettiva (art. 4, sez. III, del CCNL per dipendenti delle industrie metalmeccaniche e art. 1 del CCNL Dirigenti Industria del 23.05.2000), che definiscono la categoria dirigenziale e quindi il mancato accertamento dei tratti caratteristici della figura dirigenziale, quali l'autonomia nelle decisioni e l'assenza di un vincolo gerarchico.
La Suprema Corte ha confermato la sentenza di secondo grado, evidenziando che nelle organizzazioni aziendali complesse, soprattutto se di grandi dimensioni, ben possono coesistere più dirigenti, articolati in diversi livelli e con graduazione di compiti.
Il Giudice di legittimità ha quindi ribadito il principio secondo cui «la previsione di una pluralità di dirigenti (a diversi livello, con graduazione di compiti), tra loro coordinati, è ammissibile in organizzazioni aziendali complesse, in riferimento a prassi aziendali ed alla concreta organizzazione degli uffici, purchè sia fatta salva anche nel dirigente di grado inferiore un'ampia autonomia decisionale circoscritta dal potere direttivo generale di massima del dirigente di livello superiore (cfr. Cass. n. 8650 del 2005)».
La Corte ha precisato, inoltre, che, pur essendo possibile che vi sia, all'interno della medesima organizzazione aziendale, un'articolazione del personale dirigenziale su più livelli e che i dirigenti siano tra loro legati da un vincolo gerarchico, è tuttavia necessario che si tratti di una dipendenza «molto attenuata». La dipendenza gerarchica deve, infatti, essere caratterizzata da ampia autonomia nelle scelte decisionali del dirigente subordinato per la realizzazione degli obiettivi dell'impresa, tale per cui il vincolo gerarchico si traduca in un'attività di controllo e di coordinamento di direttive relative ad una sfera generalmente più limitata, facente capo al dirigente sovraordinato, in qualità di tramite diretto della volontà dell'imprenditore.
Applicando tali principi, la Suprema Corte ha, dunque, ritenuto che, nel caso di specie, la Corte territoriale avesse correttamente sussunto la fattispecie concreta in quella astratta, riconoscendo al lavoratore la qualifica di dirigente.

Gruppo societario, codatorialità e licenziamento

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31519

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; P.M. Mastroberardino; Ric. E.M. S.p.A.; Controric. M.M.;

Gruppo societario - Codatorialità - Condizioni - Unicità degli assetti proprietari - Esercizio del potere direttivo da parte di un unico soggetto - Unicità della struttura direttiva - Utilizzazione promiscua dei dipendenti – Conseguenze - Responsabilità solidale di tutte le società del gruppo

Il collegamento economico-funzionale tra imprese gestite da società del medesimo gruppo non è di per sé sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti ad un rapporto di lavoro subordinato, formalmente intercorso fra un lavoratore ed una di esse, si debbano estendere anche ad altre, a meno che non sussista una situazione che consenta di ravvisare un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro. Tale situazione è stata ravvisata allorquando l'esame delle attività di ciascuna delle imprese, gestite formalmente da soggetti distinti, rilevi l'esistenza di alcuni requisiti essenziali quali: a) l'unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico e amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo differenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.
NOTA
Una lavoratrice impugnava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla propria datrice di lavoro, società facente parte di un gruppo di imprese, chiedendo che il Tribunale di primo grado ne dichiarasse l'illegittimità per violazione dell'obbligo di repêchage.
La Corte di appello di Catanzaro, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato dalla formale datrice di lavoro ed imputava il rapporto di lavoro in capo alla società capogruppo. Condannava, quindi, la capogruppo a reintegrare la dipendente nel posto di lavoro ed a corrispondere alla stessa, in solido con la società formale datrice di lavoro, un importo a titolo di risarcimento del danno commisurato alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento alla data della reintegrazione nonché a titolo di contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla effettiva reintegrazione.
Contro tale pronuncia, faceva ricorso la capogruppo, deducendo che la Corte d'appello, nel verificare la sussistenza di un unico centro di imputazione aveva considerato degli elementi fattuali quali: la sostanziale unicità degli assetti proprietari, l'integrazione fra le attività economiche, l'unicità della struttura, la compresenza delle società in un'unica sede operativa, che dovevano ritenersi irrilevanti ai fini della configurazione della subordinazione della dipendente in capo alla stessa, in quanto espressione del solo collegamento economico e funzionale tra le società facenti parte del medesimo gruppo ed aveva invece omesso di valutare che le aziende collegate fossero espressione di un unico centro decisionale nonchè l'uso promiscuo della lavoratrice licenziata.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso, chiarisce che, pacifico il collegamento funzionale tra le società gestite dal medesimo gruppo, in presenza di determinate circostanze la titolarità di un medesimo rapporto di lavoro può essere riferita contemporaneamente a più soggetti che, sebbene formalmente distinti, si pongano, proprio per il collegamento funzionale tra essi esistente, come espressione di un unico centro di interessi e quindi, di impresa sostanzialmente unitaria. Nel caso di specie, la codatorialità è stata ritenuta sussistere in presenza dei seguenti presupposti: a) sostanziale unicità degli assetti proprietari, integrazione tra le attività economiche delle diverse imprese e correlativo interesse comune; b) esercizio del potere direttivo da parte di un unico soggetto, amministratore unico della società, anche nei confronti di dipendenti formalmente inquadrati presso altre società; c) unicità della struttura direttiva e della catena di comando dell'attività di impresa nonché unicità della struttura contabile ed amministrativa; d) utilizzazione indifferenziata e promiscua del personale dipendente.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 2 dicembre 2019, n. 31396

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Celentano; Ric. C.G.; Controric. F.T. S.p.A.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giusta causa - Valutazione del giudice di merito - Lesione rapporto fiduciario

Il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
NOTA
La Corte d'appello, in riforma della decisione del Tribunale, dichiarava la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato dalla società al dipendente addetto al confezionamento di cartoni di pasta.
La Corte territoriale aveva, infatti, ritenuto grave adempimento del lavoratore sia l'errato controllo del confezionamento di cartoni di pasta sia l'ingiustificato rifiuto di prestare lavoro straordinario, comportamenti che, in presenza dell'accertata recidiva in due sospensioni disciplinari nei 12 mesi antecedenti, avevano consentito al datore di lavoro - in applicazione delle disposizioni previste dal CCNL applicato - di intimare il licenziamento per giusta causa.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso il lavoratore contestando, tra le altre cose, la violazione del principio di proporzionalità ma la Suprema Corte lo ha rigettato.
Per la Cassazione, in tema di licenziamento per giusta causa, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.
Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo.
Con riferimento al caso di specie, per la Cassazione la Corte di Appello aveva correttamente rilevato che le due mancanze del dipendente - non trascurabili da un punto di vista disciplinare - in aggiunta all'accertata recidiva nei 12 mesi precedenti, denotavano insofferenza del lavoratore verso gli obblighi contrattuali legittimando quindi il potere/dovere del datore di lavoro di provvedere all'organizzazione del lavoro contestando e sanzionando condotte pregiudizievoli agli scopi aziendali.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©