Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per motivo illecito
Sul licenziamento ritorsivo
Patto di dequalificazione per evitare il licenziamento
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage
Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Licenziamento per motivo illecito

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31526

Pres. Nobile; Rel. Consigliere Blasutto; Ric. U.S.P.A.; Controric. P.R.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per motivo illecito – Natura determinante ed esclusiva del motivo – Necessità – Previo accertamento circa la sussistenza del motivo di licenziamento addotto dal datore di lavoro – Necessità ¬– Onere della prova

Per accordare la tutela prevista per il licenziamento nullo di cui al primo comma dell'art. 18 l. 300/70, come novellato dalla legge n. 92/2012, perché adottato per motivo illecito determinante ex art. 1345 cod. civ., occorre che il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, per cui la nullità deve essere esclusa se con lo stesso concorra un motivo lecito. Il motivo illecito può ritenersi esclusivo e determinante quando il licenziamento non sarebbe stato intimato se esso non ci fosse stato, e quindi deve costituire l'unica effettiva ragione del recesso, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. L'onere della prova del carattere ritorsivo nel provvedimento adottato dal datore di lavoro grava sul lavoratore e può essere assolto con la dimostrazione di elementi specifici tali da far ritenere con sufficiente certezza l'intento di rappresaglia, dovendo tale intento aver avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà del datore di lavoro. Dunque, in ipotesi di domanda proposta dal lavoratore che deduca la nullità del licenziamento per il suo carattere ritorsivo, la verifica di fatti allegati dal lavoratore richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del recesso, che risulti solo allegata dal datore, ma non provata in giudizio, poiché la nullità per motivo illecito ex art. 1345 cod. civ. richiede che questo abbia carattere determinante e che il motivo addotto a sostegno del licenziamento sia solo formale e apparente
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Milano aveva rigettato il reclamo della società datrice di lavoro avverso la sentenza del Giudice di prime cure che aveva ritenuto ritorsivo il licenziamento intimato dalla società ad un dirigente e ne aveva disposto la reintegra.
Nel caso di specie la società aveva stipulato un accordo sindacale, al di fuori di una procedura di licenziamento collettivo ma comunque volto, secondo la società stessa, a prevenire licenziamenti individuali e collettivi. In base a tale accordo, per quanto qui interessa, al dirigente veniva prospettata la soppressione della sua posizione ed offerta, quale alternativa, la riassunzione con inquadramento inferiore (quadro). L'offerta della società veniva rifiutata dal dirigente e, successivamente, la società intimava il recesso per le ragioni di cui sopra.
La Corte d'Appello respingeva la tesi della società secondo cui fosse erroneo desumere l'intento ritorsivo dal rifiuto del dipendente di novare il rapporto secondo quanto previsto dall'accordo sindacale di cui sopra. In particolare, la Corte d'Appello riteneva che l'offerta della società di svolgere le medesime mansioni ma con inquadramento inferiore fosse in contrasto con la causale di licenziamento addotta dalla stessa e che la successione temporale degli eventi (con il licenziamento intimato a cinque giorni di distanza dal rifiuto del lavoratore alla novazione del rapporto secondo la proposta aziendale) permettesse di desumere che il recesso fosse stato intimato per rappresaglia e, quindi, per un motivo illecito determinate ai sensi dell'art 1345 c.c.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società sostenendo, per quanto di interesse, la erroneità della decisione della Corte d'Appello per non avere la stessa ritenuto legittimo il licenziamento a fronte della pacifica soppressione della posizione occupata dal dirigente.
La Suprema Corte ha accolto le argomentazioni della società datrice di lavoro e cassato la sentenza con rinvio alla Corte d'Appello di Milano in diversa composizione, ribadendo le osservazioni di cui alla massima.
La Cassazione ha avuto modo di precisare che nel caso in esame la Corte territoriale non si è correttamente attenuta a tali principi, ma anzi ha operato in maniera metodologicamente errata, omettendo del tutto l'esame sulla sussistenza del motivo di licenziamento addotto dalla società e accordando priorità logica alla valutazione circa il rifiuto della proposta fatta al dirigente in alternativa al licenziamento.

Sul licenziamento ritorsivo

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31527

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; P.M. Celentano; Ric. I.B. S.r.l.; Controric. G.C.B.M.;

Licenziamento ritorsivo - Motivo unico e determinante - Prova per presunzioni - Ammissibilità - Fattispecie: licenziamento irrogato dopo il rifiuto del lavoratore di sottoscrivere il verbale di conciliazione

Il licenziamento per ritorsione costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni: ne consegue che è legittima la sentenza che dispone la reintegra del dipendente laddove, dalla sequenza dei fatti accertati (mancata sottoscrizione di un accordo che prevede la riduzione del complessivo trattamento economico) si pervenga all'accertamento del fatto ignoto, costituito dal motivo ritorsivo come l'unico determinante del recesso.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la ritorsività del recesso intimato ad una lavoratrice stante l'insussistenza del motivo oggettivo posto a base del licenziamento e la contiguità temporale tra il rifiuto di sottoscrivere un accordo che prevedeva la riduzione del complessivo trattamento economico e l'intimazione del licenziamento.
Nello specifico, la società aveva licenziato una propria dipendente per soppressione della posizione lavorativa, motivando il recesso con la necessità di contenere i costi nel contesto di una gravissima crisi economica e finanziaria dell'azienda. La lavoratrice, impugnando il licenziamento, aveva invece sostenuto che la vera ragione del licenziamento consistesse nel rifiuto di sottoscrivere, il giorno precedente, un verbale di conciliazione con cui l'azienda aveva proposto a tutti i dipendenti una riduzione del compenso per i successivi due anni.
La Corte territoriale aveva anzitutto ritenuto insussistente il giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento: da un lato, in quanto difettava la prova della sussistenza del nesso causale tra la motivazione della modifica organizzativa disposta dal datore di lavoro (contrazione del fatturato in ambito di crisi) e la soppressione della posizione lavorativa occupata dalla ricorrente; dall'altro, poiché dalla prova testimoniale era emerso che alcune delle mansioni prima svolte dalla lavoratrice licenziata erano state assegnate non già ad altri lavoratori già in forza nell'azienda, bensì ad un consulente esterno.
Inoltre, poiché dall'istruttoria espletata era emerso che il licenziamento era intervenuto a distanza di un giorno dalla mancata sottoscrizione di un verbale di conciliazione nel quale era prevista la riduzione del complessivo trattamento economico per i successivi due anni, aveva ritenuto la natura ritorsiva del recesso. Conseguentemente, accertata l'illegittimità del recesso, aveva condannato la società alla reintegrazione della lavoratrice.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per cassazione la società, censurandola sotto vari profili.
In particolare, con il secondo motivo di ricorso, la società denunciava la violazione degli artt. 1418 c.c. e 2729 c.c., per avere la Corte di appello desunto la natura ritorsiva del licenziamento dal rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere un verbale di accordo per una riduzione temporanea del suo trattamento economico, proposta che l'azienda aveva sottoposto a tutti i propri dipendenti.
Pertanto, secondo la tesi della società, la Corte territoriale avrebbe errato nell'applicare l'art. 1418 c.c., in quanto il motivo illecito, per giurisprudenza costante, deve essere il motivo unico e determinante del recesso e la prova dell'illiceità non poteva dipendere dal «solo indizio costituito dalla prossimità temporale del rifiuto della lavoratrice di sottoscrivere l'accordo, il quale peraltro si inseriva pacificamente nel contesto di una gravissima crisi economica e finanziaria dell'azienda», con ciò dovendosi escludere la natura ritorsiva del recesso.
La Corte di Cassazione ha respinto tale motivo di impugnazione e, confermando la sentenza impugnata, ha ricordato che il licenziamento per ritorsione è tale se «costituisce l'ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore», a condizione che il motivo ritorsivo sia stato il solo a determinare la volontà datoriale di recedere dal rapporto di lavoro e che il lavoratore abbia fornito prova di ciò, anche mediante presunzioni (cfr. Cass. 9468 del 2019, Cass. 17087 del 2011 e Cass. 6282 del 2011).
Ebbene, ad avviso dei Giudici di legittimità, la Corte territoriale aveva correttamente fatto ricorso alla prova per presunzioni al fine di risalire, dalla sequenza dei fatti accertati, all'accertamento del fatto ignoto, costituito dal motivo ritorsivo come l'unico determinante il recesso.
La Suprema Corte ha quindi concluso per il rigetto del ricorso, confermando la natura ritorsiva del licenziamento poiché, se da un lato la lavoratrice aveva fornito ampia prova del motivo illecito posto alla base del recesso datoriale (mancata sottoscrizione del verbale di conciliazione e intimazione del licenziamento il giorno successivo a tale rifiuto), dall'altro, la società non aveva dimostrato il nesso che intercorreva tra la ristrutturazione imposta dalla crisi economica e la soppressione della posizione lavorativa della dipendente.

Patto di dequalificazione per evitare il licenziamento

Cass. Sez. Lav. 19 dicembre 2019, n. 34133

Pres. Di Cerbo; Rel. Blasutto; Ric. M.G.L.; Controric. A.O.S.

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repêchage - Violazione - Patto di dequalificazione - Prospettazione di impiego in mansioni inferiori - Consenso del lavoratore - Compatibilità` con l'assetto organizzativo aziendale - Necessita`

L'adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, non configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore. Il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro abbia prospettato, ove compatibile con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'appello confermava la sentenza del Tribunale che, in accoglimento dell'opposizione proposta dalla Società – una scuola di lingue -, aveva revocato l'ordinanza di accoglimento della domanda proposta dal lavoratore, avente ad oggetto l'annullamento del licenziamento intimato dalla datrice di lavoro.
Il giudice dell'opposizione aveva accertato che il posto ricoperto dal lavoratore era stato soppresso a seguito della riorganizzazione dell'area tecnologica ed informatica della convenuta e che il ricorrente non aveva contestato la soppressione del posto da lui ricoperto, per essere le relative funzioni state ripartite dalla convenuta mediante affidamento parziale a consulenti esterni e per la restante parte ad altre figure già incardinate nella Società. Oltre a ciò, la Corte d'appello aveva rilevato che il lavoratore «mai ebbe "… a manifestare in prossimità del licenziamento la sua disponibilità ad accettare un patto di demansionamento».
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione per «violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 5 legge n. 604/66 e degli artt. 1175, 1375, 2697 e 2729 c.c. in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., per violazione dell'obbligo di repêchage». Secondo il lavoratore «la Corte d'appello si era limitata a prendere atto delle deduzioni della Scuola e della lettera di licenziamento, in cui la convenuta aveva affermato la mancanza di posti equivalenti, senza valutare l'assenza di proposte circa la possibilità di una ricollocazione in mansioni inferiori rientranti nel bagaglio professionale del ricorrente, alla luce del principio secondo cui il recesso può giustificarsi solo come extrema ratio e che un'offerta occupazionale rientrante nel bagaglio professionale, se finalizzata ad evitare il licenziamento, non costituisce dequalificazione, ma proposta di adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto».
La Corte di legittimità, ha accolto il ricorso del lavoratore premettendo che «l'ambito del sindacato giurisdizionale con riferimento all'obbligo del repêchage non può estendersi alla valutazione delle scelte gestionali ed organizzative dell'impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 Cost. e che pertanto detto obbligo non può ritenersi violato quando l'ipotetica possibilità di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non sia compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale» La Corte ha però precisato che grava in ogni caso sul datore di lavoro l'obbligo di provare – in base a circostanze oggettivamente riscontrabili – che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare una diversa posizione libera in azienda, anche se ciò implicherebbe l'adibizione a mansioni inferiori, altrimenti il rispetto dell'obbligo di repêchage risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell'imprenditore.
I giudici di legittimità hanno quindi accolto il ricorso affermando che «l'adibizione del lavoratore, con il suo necessario consenso, a mansioni inferiori, non configurerebbe una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, dovendo ritenersi le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore. Il consenso del lavoratore potrà essere espresso in quanto il datore di lavoro abbia prospettato, ove compatibile con il nuovo assetto aziendale, la possibilità di un'utilizzazione in mansioni inferiori al fine di evitare il licenziamento».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repêchage

Cass., Sez. Lav., 3 dicembre 2019, n. 31520

Pres. Nobile; Rel. Cinque; Ric. M.M.; Controric. A.I. spa

Obbligo di repêchage in mansioni inferiori - Disciplina ante D.Lgs. 81/2015 - Limiti di ragionevolezza e compatibilità con il bagaglio professionale del lavoratore – Sussistenza - Onere della prova in capo al datore di lavoro - Sussistenza - Lettera di recesso - Indicazione di inesistenza di posizioni lavorative alternative - Sufficienza

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può ritenersi che non vengono in rilievo, ai fini dell'obbligo di repêchage, tutte le mansioni inferiori dell'organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con il bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza.
NOTA
La Corte d'Appello territoriale, investita di reclamo principale del lavoratore e incidentale del datore di lavoro, rigettava il ricorso originariamente proposto ex art 1 comma 48 della legge 92/2012, con cui il prestatore aveva impugnato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli dalla società (per asserita soppressione del posto di lavoro e terziarizzazione dell'attività cui lo stesso era preposto), deducendone la inefficacia e/o nullità e/o illegittimità in ragione della successiva assunzione di due lavoratori in momento successivo al licenziamento, nonché della violazione dell'obbligo di repêchage, stante la mancata verifica della possibilità di adibirlo a mansioni inferiori.
La Corte di merito, rilevata la formazione di giudicato interno sulla effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto alla base del provvedimento espulsivo, concludeva ritenendo assolto l'onere probatorio gravante sulla società in ordine all'assolvimento dell'obbligo di repêchage sia in riferimento alle mansioni propriamente equivalenti che in riferimento a quelle compatibili con la professionalità acquisita dal lavoratore.
L'ex dipendente proponeva ricorso per Cassazione lamentando la mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, del fatto che nella lettera di recesso fosse assente ogni riferimento alla impossibilità di adibire il ricorrente a mansioni inferiori e che dovesse intendersi non assolto l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro in ordine alla proposta di un reinserimento, nel rispetto del criterio di equivalenza delle mansioni ovvero, quale unica alternativa al recesso, anche in mansioni inferiori, cui fosse seguito un espresso rifiuto del prestatore.
La Corte di legittimità, riconosciuta la rilevanza dell'obbligo di repêchage nelle ipotesi di giustificato motivo oggettivo per soppressione della posizione lavorativa e ribadito l'unanime orientamento che ne richiede la prova a carico del datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 della legge anzidetta (Cass 2.5.2018 n. 10435), ha ritenuto infondate le deduzioni proposte sul punto dal ricorrente, argomentando sia in ordine agli adempimenti da ritenersi effettivamente sussistenti in capo al datore di lavoro all'atto del licenziamento, che in ordine al contenuto dell'obbligo di reimpiego del lavoratore in mansioni differenti, anche inferiori, svolgendo la propria disamina in considerazione dell'applicabilità alla fattispecie della disciplina dell'art 2103 cc antecedente la novella dell'art. 3 D. Lgs. 81/2015.
Sul primo punto il Supremo Collegio richiama il principio secondo cui, in attuazione del principio di buona fede e correttezza, il datore di lavoro debba prospettare al dipendente la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori al fine di ottenerne l'eventuale consenso in momento anteriore o coevo al licenziamento (consenso anche tacito ove integrato da condotte univocamente attestanti la volontà del prestatore in tal senso), precisando però come la motivazione del successivo eventuale licenziamento debba essere sì tale da consentire al lavoratore di comprendere i termini essenziali del recesso, senza però che nell'onere di allegazione del datore di lavoro possa intendersi ricompresa una necessaria analitica esposizione di tutti gli elementi di fatto e diritto posti a suo fondamento (Cass. 7.3.2019 n. 6678). Ha ritenuto dunque, nel caso specie, sufficiente l'indicazione nella lettera di recesso del fatto che non vi fossero altre posizioni cui poter adibire il lavoratore.
Quanto al secondo punto, pacifica la riconducibilità dell'onere di repêchage alle mansioni equivalenti, la pronuncia dà atto dei diversi orientamenti giurisprudenziali susseguitisi sulla ravvisabilità di uno specifico onere del datore di lavoro di tentare il reimpiego anche su mansioni inferiori prima di procedere all'espulsione del lavoratore (incentratisi nel tempo sulla salvaguardia della professionalità del prestatore ovvero sulla prevalenza del diritto alla conservazione del posto) condotti a sintesi dalla giurisprudenza di legittimità, che ha affermato, nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori del lavoratore, purchè rientranti "nel bagaglio professionale dello stesso" (Cass. 8.3.2016 n. 4509; Cass. n. 21579 del 2008).
Ancora, ricorda la pronuncia come, quando il lavoratore svolga regolarmente e in modo promiscuo mansioni inferiori oltre a quelle soppresse, il datore di lavoro sia onerato dell'obbligo di repêchage anche in ordine a tali già svolte mansioni inferiori (Cass., n. 13379 del 2017), sempre facendo salvo, da un lato, il limite di ragionevolezza dell'operazione, che non potrà comportare eccessive modifiche organizzative all'assetto datoriale (Cass. n. 239 del 2005), dall'altro il rispetto della dignità del lavoratore (Cass. n. 16305 del 2004) oltre al suo consenso.
Conclusivamente La Corte ritiene che nel licenziamento per motivo oggettivo l'obbligo di repêchage sia riferibile alle sole mansioni inferiori "compatibili con il bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza". Ciò, precisa la sentenza, anche a garanzia del principio di non ingerenza nella libera determinazione dell'organizzazione datoriale, qualora, come nel caso di specie, l'analisi si svolga in riferimento alla disciplina dell'art. 2103 cc ante modifica ai sensi dall'art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, che non prevede in capo al datore di lavoro alcun obbligo di garantire una diversa e adeguata formazione al lavoratore, ai fini della salvaguardia del posto di lavoro (Cass. n. 5963 del 2013).

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2019, n. 31525

Pres. Nobile; Rel. Cinque; Ric. A.C.; Controric. F.L.

Licenziamento collettivo - Ambito di applicazione dei criteri di scelta - Alla sola unità produttiva soppressa - Ragioni - Indicazione nella comunicazione di avvio della procedura - Necessità.

La legittimità della riduzione della platea dei lavoratori da licenziare alla sola unità produttiva soppressa (con esclusione delle altre sedi aziendali) richiede che le ragioni fondanti tale scelta - di carattere organizzativo e non frutto di un'unilaterale decisone del datore - siano rappresentate nella lettera di avvio della procedura di mobilità e ciò anche al fine di garantire l'effettività del confronto con le organizzazioni sindacali destinatarie della comunicazione, salvo ulteriore verifica, comunque, della loro pertinenza ed inerenza alle ragioni poste a base della procedura stessa.
NOTA
La decisione in commento origina da un caso di licenziamento collettivo per riduzione del personale, in cui il datore di lavoro - senza averne esplicitato i motivi all'interno della comunicazione di avvio della procedura - limitava l'applicazione dei criteri di scelta solo ad una delle sedi aziendali (quella soppressa) e non all'intero complesso aziendale.
Impugnato il licenziamento da parte di uno dei lavoratori coinvolti nella procedura, il Tribunale di prime cure e la Corte d'appello adita ne accertavano l'illegittimità, per violazione dell'art. 4 della l. 223/1991 e condannavano il datore al pagamento di un'indennità risarcitoria ex art. 18, co. 7, l. 300. 1970. Secondo i Giudici di merito, infatti, ai fini della legittimità della procedura di licenziamento collettivo, nella comunicazione preventiva di avvio, devono essere indicate le ragioni sottese alla scelta datoriale di restringere la platea di lavoratori da comparare, non potendo attribuirsi un'efficacia sanante al successivo accordo sindacale in cui le oo.ss., pur riconoscendo quel più limitato perimetro ai fini dell'individuazione dei dipendenti eccedenti, non abbiano chiarito (in sede di verbale sindacale) di conoscere e di voler sanare il vizio della comunicazione preventiva.
Avverso tale decisione l'azienda ricorreva in Cassazione censurando la precedente decisione sotto molteplici motivi, e, in particolare, deducendo che il contenuto essenziale della comunicazione di avvio della procedura non consiste nella specificazione delle ragioni per cui si circoscrive l'ambito applicativo dei criteri di scelta ad una sola delle sedi aziendali, bensì solo nell'«indicazione dei motivi per cui non si possono evitare i licenziamenti»; che per verificare «l'efficacia sanante dell'accordo sindacale intervenuto con le oo.ss.» non occorre verificare se sia stato esplicitato e condiviso, in sede di verbale sindacale, il vizio della comunicazione iniziale, ma occorre solo valutare se il deficit originario sia stato in grado di incidere sul corretto svolgimento della consultazione sindacale; e che in ogni caso quando le ragioni organizzative della procedura consistono nella soppressione di una sede e non vi siano altre sedi geograficamente vicine a quest'ultima, è legittima la scelta datoriale di individuare i lavoratori da comparare solo all'interno della sede interessata perché il loro mantenimento in servizio esigerebbe un trasferimento altrove, con conseguente aggravio di costi.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Suprema Corte, conformandosi ai propri precedenti orientamenti, rigettava il ricorso proposto dall'azienda rilevando che la legittimità della riduzione della platea dei lavoratori da licenziare richiede in primo luogo che le ragioni fondanti tale scelta siano rappresentate nella lettera di avvio della procedura di mobilità «e ciò anche al fine di garantire l'effettività del confronto con le organizzazioni sindacali della comunicazione» che, infatti, solo in questo modo possono «verificare il nesso fra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità lavorative che l'azienda intenda concretamente espellere». Quanto, poi, all'efficacia sanante del successivo accordo aziendale, così come prevista dall'art. 4, l. 223/91, co. 12, ultimo periodo, secondo la S.C. «quest'ultimo non costituisce» ex se «una sanatoria dei vizi della procedura»; anzi «il deficit informativo della comunicazione iniziale» potrebbe riverberarsi anche sulla validità del successivo accordo in quanto le oo.ss. - in presenza di forti lacunosità della iniziale comunicazione - non sono poste in grado di partecipare alla trattativa con piena consapevolezza. Proprio per questa ragione, secondo la Corte, pur in presenza di un accordo sindacale, permane in capo al giudice l'obbligo «della verifica in sede di merito circa l'effettiva completezza della comunicazione», in ciò ponendosi nel solco di quei suoi precedenti che valorizzano il sindacato giudiziale anche quando le parti sociali hanno di fatto raggiunto un'intesa. Infine, seppur in difformità ad altri orientamenti precedentemente espressi che avvalorano le ragioni organizzative dell'azienda anche in termini di risparmio sui costi, secondo la Corte, tra le ragioni legittimanti una restrizione del perimetro di applicazione dei criteri di scelta ad un'unica sede, soprattutto in caso di lavoratori delle varie sedi dotati di equivalente professionalità, «non assume rilievo (…), la circostanza che il mantenimento in servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra sede, con aggravio di costi per l'azienda e interferenza sull'assetto organizzativo, atteso che, ove sia mancato l'accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali, operano i criteri legali sussidiari previsti dalla l. 223 del 1991, art. 5, comma 1 che non contempla tra i suoi parametri la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la dislocazione territoriale delle sedi».

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