Contenzioso

Il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte

di Vittorio De Luca e Antonella Iacobellis

Con la sentenza 8 del 2 gennaio 2020, la Cassazione ha statuito che, in considerazione del carattere di specialità della disciplina della invalidità del licenziamento rispetto a quella generale della invalidità negoziale, il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte.

La vicenda trae origine da un licenziamento disciplinare intimato dal ministero degli Affari Esteri a un funzionario amministrativo del Consolato generale d'Italia a San Paolo del Brasile per presunte irregolarità commesse nel rilascio di visti per l'ingresso in Italia.
Il licenziamento era stato irrogato richiamando l'articolo 25, comma 5, lettera a e d del Ccnl 1994-1997 e dunque le fattispecie inerenti la «omissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale» e la commissione di «fatti o atti dolosi, non ricompresi nella lettera "a", anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro».

Nel dettaglio, le condotte da cui derivava la sanzione espulsiva, attuate tra novembre 2000 e aprile 2001, avevano costituito oggetto di contestazione nel mese di maggio 2001, con procedimento disciplinare poi sospeso in attesa dell'esito di un procedimento penale sulla vicenda a cui è poi seguito il licenziamento a novembre 2015.

La Corte d'appello di Roma aveva respinto il reclamo proposto dal funzionario amministrativo avverso la sentenza del tribunale che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento disciplinare, ribadendone la legittimità. La Corte aveva infatti ritenuto che, nonostante il proscioglimento per prescrizione pronunciato in sede penale, gli atti provenienti dal tribunale penale e valutati in sede disciplinare avevano confermato le condotte perseguite e legittimavano la scelta del ministero degli Affari Esteri di adottare la sanzione non conservativa del licenziamento.

Avverso la decisione della Corte d'appello, il funzionario amministrativo depositava ricorso per Cassazione sulla base di un unico e articolato motivo con cui affermava, richiamando gli articoli 360 numeri 3 e 5 del codice di procedura civile, la violazione e falsa applicazione dell'articolo 55-bis, comma 4 e dell'articolo 55 ter, commi 2, 3 e 4 del Dlgs 165/2001, nonché dell'articolo 653, comma 1-bis, del codice di procedura civile.

Da un primo profilo, il ricorrente sosteneva che il ministero degli Affari Esteri si fosse limitato a richiamare senza valutarne la sussistenza «i fatti così come valutati dal giudice penale nel corso del giudizio di primo grado svolto in quella sede, senza alcun autonomo apprezzamento» contrariamente a quanto emergeva dalla decisione della Corte territoriale di secondo grado che aveva ritenuto che il datore di lavoro avesse valutato la sussistenza di ogni profilo di responsabilità del funzionario amministrativo. La Suprema corte ha ritenuto priva di ogni pregio tale eccezione evidenziando come il ministero degli Affari Esteri avesse non solo riportato nella contestazione disciplinare stralci delle risultanze degli atti penali ma ne avesse anche apportato «un'ampia motivazione in proposito».

Secondo un ulteriore profilo di biasimo, il funzionario amministrativo adduceva che «vi sarebbe stata violazione delle norme sull'efficacia extrapenale di giudicato della pronuncia di estinzione del reato per prescrizione». La censura è risultata del tutto inammissibile, posto che il datore di lavoro aveva fondato la propria decisione di procedere con il licenziamento non tanto sull'esito del giudizio in sede penale, quanto piuttosto sulle risultanze delle indagini e dell'istruttoria penale, mere fonti di prova dell'illecito perseguito.

Poi, per la prima volta (tale controdeduzione non era stata opposta prima alle ragioni del datore di lavoro, né in primo né in secondo grado), il ricorrente sosteneva che il procedimento disciplinare sarebbe stato viziato in quanto riattivato «dopo la sentenza penale definitiva, oltre il termine di sessanta giorni, in violazione del combinato disposto degli articoli 55 bis, numero 4 e 55 ter, numero 4, del Dlgs 165/2001 ed esso sarebbe stato altresì concluso oltre il termine di 180 giorni in violazione ancora del disposto dell'articolo 55 ter numero 4» adducendo che tale eccezione potesse essere avanzata in prima battuta dinnanzi alla Suprema corte in quanto eccezione relativa a nullità cosiddetta di protezione, quindi rilevabile d'ufficio.

La Cassazione ha ritenuto tale assunto non condivisibile, avendo la stessa Corte già passato ribadito come «la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa (…), non essendo equiparabile all'azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare d’ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte» (in ordine di tempo, Cassazione 7687/2017; 23869/2018; 9675/2019; 18705/ 2019).

Il ricorrente infine affermava che la sanzione disciplinare avrebbe dovuto considerarsi illegittima, perché irrogata sulla base di una previsione di contratto collettivo non più esistente al momento del licenziamento.
Si precisa sul punto che:
- al momento della commissione dei fatti e della loro contestazione, vigeva il Ccnl 1994-1997;
- al momento del licenziamento il Ccnl 2002-2005;
- il ministero degli Affari Esteri aveva citato nel provvedimento disciplinare espulsivo il testo della disposizione contenuta nel Ccnl 1994-1997;
- le disposizioni di entrambe le versioni del Ccnl erano nel contenuto assolutamente equivalenti.

In altre parole, di nessun pregio è la censura relativa all'efficacia nel tempo delle diverse discipline del Ccnl non essendocene una che sia più favorevole o più sfavorevole per il ricorrente.

Peraltro, la Suprema corte sul punto ha sottolineato che «anche a voler considerare come prevalente la disciplina sostanziale esistente al momento del licenziamento, il richiamo nell'atto di recesso alla contrattazione esistente al momento della commissione del fatto si traduce in un irrilevante erronea indicazione della norma sanzionatoria, ma non in un effettivo vizio di diritto sostanziale».

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