Contenzioso

Dichiarare il falso porta al sequestro della carta Rdc

di Mauro Pizzin

Dichiarare il falso sui propri redditi può comportare il sequestro preventivo della carta del reddito di cittadinanza (Rdc), il quale può essere predisposto indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio.

Lo ha chiarito la Cassazione con le sentenze “fotocopia” 5289/2020 e 5290/2020, depositate ieri e relative ai ricorsi di una coppia di coniugi siciliani, dichiaratisi disoccupati mentre alcuni appostamenti delle forze dell’ordine avevano fatto emergere che il marito lavorava in nero come cuoco, percependo 180 euro a settimana (solo in un secondo momento era stata documentata l’esistenza tra le parti di un contratto semestrale).

Contro l’ordinanza di sequestro del Tribunale di Palermo la difesa dei due coniugi si era basata sulla premessa che la variazione di reddito ritenuta penalmente rilevante, legata alla nuova occupazione dell’uomo, si sarebbe prodotta dopo il rilascio della documentazione Isee necessaria per chiedere il reddito di cittadinanza. Inoltre, sarebbe dubbia l’esistenza di un obbligo di comunicare una tale variazione di reddito, non essendo stata comunque superata la soglia massima di 9.360 euro annui, richiesta dall’articolo 3, comma 4, del Dl 4/2019 per la concessione del beneficio in questione.

Nel confermare il sequestro del Postamat, i giudici di legittimità hanno sottolineato che, con l’introduzione del Rdc, il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale il cui funzionamento presuppone una leale cooperazione tra cittadino e amministrazione, ispirata alla massima trasparenza. Su queste basi è stata prevista un’ampia casistica di fattispecie di revoca, decadenza e sanzioni amministrative all’articolo 7 del Dl 4/2019, fra cui la reclusione da due a sei anni per chi effettua false dichiarazioni od omette informazioni dovute per ottenere indebitamente il beneficio (comma 1), e da uno a tre anni per chi non comunica variazioni del reddito o de patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio (comma 2).

Per la Cassazione si tratta di reati di condotta, che trovano applicazione indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio, in quanto, «ben oltre il pericolo di profitto ingiusto», si rapportano «al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico». Nel caso di norme di questo tipo - aggiungono i giudici - non è lasciata al cittadino la scelta su cosa comunicare e cosa omettere.

Secondo la Corte, questi principi sono applicabili anche nel caso della coppia ricorrente, rispetto al quale l’indagine dei Carabinieri aveva peraltro evidenziato che l’attività lavorativa dell’uomo era cominciata l’8 febbraio 2019, ossia lo stesso giorno in cui gli interessati avevano chiesto il rilascio dell’attestazione Isee, mentre la domanda di Rdc era stata presentata con la relativa autodichiarazione il 18 marzo 2019, senza che l’attività lavorativa, già in corso di svolgimento fosse stata posta a conoscenza dell’amministrazione. In questo contesto - concludono i giudici - l’attestazione successiva di un regolare rapporto di lavoro appare giustificata dall’intento di limitare il reddito percepito a soli sei mesi per collocarlo sotto la soglia di legge: fatto, quest’ultimo, che fa ritenere sussistente anche il dolo specifico del reato previsto dall’articolo 7, comma 1, del Dl 4/2019.

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