Contenzioso

Tfr inattaccabile se il rapporto di lavoro non si interrompe

di M.Pri.

Il trattamento di fine rapporto maturato presso un'azienda che accede alla procedura fallimentare non può essere ammesso al passivo se il lavoratore non ha ancora cessato il rapporto di lavoro.

Una società di credito al consumo si è vista negare dal tribunale l'ammissione al passivo per la parte relativa al Tfr che i dipendenti di una società fallita avevano ceduto alla società finanziatrice. Questo perché i lavoratori hanno continuato l'attività, senza soluzione di continuità, con un affittuario d'azienda della società fallita.

A fronte del ricorso della società di credito al consumo, la Cassazione, nell'ordinanza 5376/2020, ricorda che «il diritto al trattamento di fine rapporto (Tfr) sorge con la cessazione del rapporto di lavoro ed è credito non esigibile al momento della cessione dell'azienda in sé e per sé se il rapporto stesso continua, quello avente ad oggetto il Tfr fino a quel momento maturato non può essere ammesso al passivo del fallimento del datore di lavoro cedente, in continuità del rapporto di lavoro».

Una volta cessato il rapporto, il datore di lavoro cessionario «risponde per l'intero Tfr (in via diretta quanto alla quota di Tfr maturata dopo la cessione; in via solidale quanto alla quota maturata precedentemente); invece il datore di lavoro…risponderà solo per la quota…maturata prima della cessione».

Impossibile, inoltre, secondo la Corte, sostenere che si possa ammettere al passivo una parte del Tfr percorrendo la tesi della scomponibilità del Tfr alla luce del fatto che è possibile, per il lavoratore, fruire in parte in modo anticipato prima della cessazione del rapporto di lavoro. Il Tfr ha struttura civilistica e «a marcata connotazione pubblicistica e protezione eurounitaria per le situazioni di vecchiaia e diritti di pensione senza reazione nei rapporti privatistici» come quello della vicenda oggetto di causa.

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