Contenzioso

Rassegna della Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Transazione e efficacia novativa
Licenziamento disciplinare
Licenziamento per giusta causa e sentenza di patteggiamento
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Infortunio sul lavoro e concorso di condotte colpose

Transazione e efficacia novativa

Cass. Sez. Lav. 2 marzo 2020, n. 5674

Pres. Tria Rel. Spena; Ric. M.; Controric. P.G.

Transazione - Efficacia novativa - Definizione - Estinzione precedente rapporto obbligatorio - Costituzione obbligazioni autonome - Necessità

L'efficacia novativa della transazione presuppone una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello originato dall'accordo transattivo, in virtù della quale le obbligazioni reciprocamente assunte dalle parti devono ritenersi oggettivamente diverse da quelle preesistenti, con la conseguenza che - al di fuori dell'ipotesi in cui sussista un'espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso- il giudice di merito deve accertare se le parti, nel comporre l'originario rapporto litigioso, abbiano inteso o meno addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, costituivo di autonome obbligazioni, ovvero se esse si siano limitate ad apportare modifiche alle obbligazioni preesistenti senza elidere il collegamento con il precedente contratto, il quale si pone come causa dell'accordo transattivo, che, di regola, non è volto a trasformare il rapporto controverso.
NOTA
P.G., già titolare di incarico dirigenziale di livello generale presso M., datore di lavoro pubblico e istituzionale, cessava anticipatamente dal servizio in applicazione di quanto dettato dall'art.3, comma 7, L.145/2002 sul riordino della dirigenza statale, che prevedeva la decadenza dai predetti incarichi pubblici entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della norma (c.d. spoyl system). La medesima disposizione veniva dichiarata poi costituzionalmente illegittima con sentenza della Corte Costituzionale n. 103/2007. Il dirigente instaurava a seguito di ciò una controversia volta al risarcimento del danno subito per l'illegittima decadenza dal ruolo, cui seguiva un accordo transattivo nel quale l'ex datore riconosceva una somma a titolo di differenze retributive, ed una ulteriore somma a titolo di indennizzo compensativo per l'avvenuta cessazione anticipata dall'incarico.
Il lavoratore proponeva poi avanti al competente Tribunale domanda volta ad ottenere il pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria asseritamente dovuta sulle somme riconosciute nella transazione a "titolo" di differenze retributive.
La domanda del lavoratore veniva respinta dal Tribunale ed accolta invece dalla Corte d'Appello investita dell'impugnazione, la quale osservava come la rivalutazione monetaria in questione non accedesse, stante il tenore letterale dell'accordo, alle retribuzioni, ma alla somma stabilita "a titolo", dunque in luogo, delle retribuzioni non percepite dal P.G a causa della illegittima decadenza dall'incarico dirigenziale.
La Corte territoriale, in particolare, dando rilievo alla ricerca della volontà sottostante all'accordo transattivo sottoscritto, sotteso alla tacitazione di ogni pretesa risarcitoria avanzata in causa da parte del lavoratore, riteneva fosse intervenuta una vera e propria novazione, da cui derivava il nuovo rapporto obbligatorio tra le parti, e, dunque, dal quale originavano le pretese del medesimo in ordine alla rivalutazione e agli interessi legali sulle somme di cui era stato concordato il pagamento.
M. ricorreva per la cassazione della pronuncia, contestando proprio l'accertamento del carattere novativo della transazione da parte della Corte di merito e, dunque, la ritenuta assunzione da parte dell'ex datore di lavoro di obbligazione diversa da quella retributiva legata al rapporto di lavoro, da cui in appello si era fatta discendere la debenza della rivalutazione.
Invocando la interpretazione letterale ritenuta corretta, M. sosteneva infatti come dalle premesse dell'accordo transattivo fosse chiaramente evincibile che il medesimo avesse in realtà lo scopo di riconoscere al dirigente le differenze retributive dovute per l'erronea cessazione anticipata dell'incarico dirigenziale, ed avesse dunque un intento di "ripristino" del precedente rapporto di lavoro dirigenziale interrotto per effetto di previsione di legge poi dichiarata illegittima.
La somma dedotta nella conciliazione doveva dunque ritenersi di natura retributiva, senza che nessuna novazione del rapporto contrattuale tra le parti potesse ritenersi operante.
Richiamando gli arresti della Corte di legittimità sul punto (Cass. 22.02.2018 n. 4314, Cass. 27.06.2018 n. 16905), Il Supremo Collegio ha ricordato come possa definirsi transazione semplice l'accordo nel quale le parti si limitano a modificare alcuni aspetti del rapporto preesistente, il quale, per quanto non disciplinato, resta invariato; la transazione novativa invece si realizza nell'ipotesi in cui le parti conseguano, con l'accordo, l'integrale estinzione del rapporto precedente, sostituito dai nuovi assetti obbligatori reciproci di cui alla transazione.
Il giudice di merito investito dell'interpretazione dell'accordo tra le parti, deve dunque, salvo che sussista espressa manifestazione di volontà delle parti in tal senso, accertare se le medesime abbiano inteso, nel comporre l'originaria lite, costituire nuovo rapporto obbligatorio o solo modificare quello precedente regolandone, senza trasformarlo, gli obblighi che ne discendono.
Ciò premesso, la sentenza impugnata ha accertato come l'originale lite tra le parti, incardinata dal lavoratore poi composta con l'accordo oggetto di interpretazione, avesse ad oggetto "il risarcimento del danno da illegittima decadenza dall'incarico dirigenziale" e non il diritto alle relative retribuzioni; la transazione intercorsa a tacitazione delle originarie pretese del lavoratore aveva dunque, in effetti, estinto le obbligazioni contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro, mutandone in radice il titolo.
L'emolumento riconosciuto nell'accordo aveva perciò natura di debito di valore, sul quale riconoscere interessi e rivalutazione monetaria.
Non risultando violato, in conclusione, alcun canone ermeneutico come denunciato dal ricorrente, il ricorso è stato dichiarato inammissibile.

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 30 Gennaio 2020, n. 2238

Pres. Patti; Rel. Patti; P.M. Mastroberardino; Ric. C.; Controric. e Ric. Inc. S.

Licenziamento disciplinare - Non proporzionalità - Illegittimità - Sussiste - Fatto contestato - Codici disciplinari - Fattispecie per le quali è prevista una sanzione conservativa - Coincidenza - Sanzione reintegratoria cd. debole (art. 18, co. 4) - Non coincidenza - Sanzione indennitaria cd. forte (art. 18, co. 5)

La non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel comma 4 dell'art. 18 l. 300/1970 solo quando dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari applicabili, risulti la previsione per esso di una sanzione conservativa; qualora, invece, ciò non si verifichi (i.e. qualora la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa), si realizzano le "altre ipotesi" di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l'art. 18, comma 5, l. 300/1970 prevede la tutela indennitaria cd. forte.
NOTA
Con la sentenza in epigrafe la S.C. torna a delineare gli incerti confini tra i campi applicativi rispettivamente del comma 4 e 5 dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, in materia di sanzioni applicabili in caso di licenziamento illegittimo.
Questi i fatti di causa: una lavoratrice, finito il turno cassa nel supermercato presso cui lavorava, utilizzava per la propria spesa la carta fedeltà dimenticata da una cliente, in aperta violazione delle regole aziendali da Lei indubbiamente conosciute (avendo lavorato in quel supermercato per oltre dieci anni). La Società, venuta a conoscenza di tale comportamento, licenziava la lavoratrice per giusta causa.
Il Giudice di primo grado dichiarava l'illegittimità del licenziamento irrogato e condannava la Società alla reintegrazione della lavoratrice e al pagamento, in suo favore, delle retribuzioni maturate dal licenziamento fino all'effettiva reintegrazione, applicando quindi la sanzione prevista dall'art. 18, co. 4, l. 300/1970. Proposto gravame da parte della Società, la Corte di Appello dell'Aquila, invece, pur ribadendo l'illegittimità del licenziamento per assenza di giusta causa, riteneva «il fatto addebitato…sussistente nel suo elemento oggettivo e soggettivo» e pertanto, in riforma della decisione di primo grado, condannava la Società ad una sanzione meramente indennitaria nella misura stabilita dal quinto comma dell'art. 18 l. 300/1970. In particolare, secondo la Corte territoriale, pur essendo "sussistente" la condotta contestata, alla stessa non poteva attribuirsi un grado di gravità tale da giustificare l'adozione di una misura espulsiva, soprattutto stante l'assenza di altre sanzioni disciplinari nell'intera carriera lavorativa della dipendente, della non diretta incidenza del comportamento sulla specifica attività di cassiera e del modesto danno per la società (avendo cumulato la cliente sulla carta fedeltà indebitamente utilizzata 750 punti per un importo di cinque euro). La mancata proporzionalità della sanzione applicata rispetto al fatto contestato, in altre parole, deponeva secondo la Corte (si) per l'illegittimità del licenziamento ma da sanzionare con una condanna meramente indennitaria trattandosi palesemente di una delle altre ipotesi di insussistenza della giusta causa cui si riferisce il quinto comma dell'art. 18 l. 300/1970.
Avverso tale decisione della Corte di appello, la lavoratrice ricorreva per Cassazione con tre distinti motivi, tutti – lo si anticipa – ritenuti dalla S.C. infondati.
In particolare, secondo la lavoratrice, la "non proporzionalità" del licenziamento accertata dal giudice di merito - stante la lettera dell'art. 18, co. 4, l. 300/1970 che fa riferimento specifico ad un'ipotesi di "non proporzionalità" del licenziamento - avrebbe dovuto condurre all'applicazione della sanzione reintegratoria ivi prevista e non di quella meramente indennitaria di cui al comma successivo, in conformità – d'altronde – a quanto già deciso dal Giudice di prime cure. Per la S.C., invece, la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel comma 4 solo quando dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari applicabili, risulti la previsione per esso di una sanzione conservativa. Di contro, nei casi in cui ciò non si verifichi (i.e. qualora la condotta addebitata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa), si realizzano le "altre ipotesi" di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, per le quali l'art. 18, comma 5 prevede la tutela indennitaria cd. forte (i.e. risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto).

Licenziamento per giusta causa e sentenza di patteggiamento

Cass. Sez. Lav. 3 marzo 2020, n. 5897

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. A.S.P.A.; Controric. R.D.;

Lavoro subordinato – Nozione giusta causa – Sentenza penale di patteggiamento Utilizzabilità come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile – Sussistenza

Lavoro subordinato – Nozione giusta causa – Detenzione stupefacenti da parte di conducente di autobus – Violazione del "minimo etico" – Sussistenza

La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità. Tale sentenza costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione; dettò riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile.
Viola certamente il "minimo etico" la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite "a rischio", a prescindere dal mancato riferimento, nell'ambito del r.d. n.148 del 1931, alla descritta condotta.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Roma aveva annullato, in riforma della pronuncia di prime cure, il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore, conducente di autobus, a seguito dell'arresto dello stesso per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, condannando la società a reintegrare lo stesso lavoratore nel posto di lavoro nonché alla corresponsione della relativa indennità risarcitoria ex art. 18 Stat. Lav.
Sul punto la Corte territoriale aveva rilevato che il lavoratore era stato licenziato sulla base di un articolo del codice disciplinare che prevedeva il licenziamento nel caso in cui lo stesso abbia subito condanne penali in conseguenza di delitti che non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro in ragione della loro specifica gravità. Secondo la Corte d'Appello, però, nel caso di specie non si poteva ritenere che i fatti per i quali il lavoratore era stato sottoposto a procedimento penale potessero integrare gli estremi della specifica gravità. Le motivazioni della Corte partivano dal presupposto per cui al caso di specie non fosse applicabile il disposto di cui all'art. 653 c.1 bis c.p.p., secondo cui la sentenza penale irrevocabile, e quindi, quella di patteggiamento ad essa equiparata, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità; ciò in quanto non si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o di rapporto ad esso equiparato.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro articolando vari motivi e sostenendo, in sintesi, che la Corte d'Appello avesse errato tanto nel ritenere non configurata la giusta causa di licenziamento nella fattispecie in discussione quanto nel considerare non provati i fatti di cui alla sentenza di patteggiamento in sede penale.
La Suprema Corte ha accolto tale censura e cassato la sentenza con rinvio.
In particolare la Suprema Corte ha affermato che la sentenza di patteggiamento ben può essere utilizzata nel giudizio di responsabilità in sede civile, pur non avendo in tale ambito efficacia di giudicato, costituendo la stessa un elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegarne le ragioni.
Secondo la Suprema Corte, dunque, la valutazione della Corte territoriale è partita da un presupposto errato ed è quindi da cassare.
La Corte ha poi avuto modo di precisare, con riferimento alla giusta causa di licenziamento, che i fatti addebitati al lavoratore non fossero consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa a contatto con gli utenti e inserita in un ufficio di rilevanza pubblica, ribadendo il suo orientamento a mente del quale «viola certamente il "minimo etico" la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite "a rischio", a prescindere dal mancato riferimento, nell'ambito del r.d. n.148 del 1931, alla descritta condotta».

Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Ord. Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2020, n. 3282

Pres. Negri Della Torre; Rel. Lorito; Ric. C.D.; Controric. T.R.;

Infortunio sul lavoro – Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Obbligo assoluto del datore di lavoro di adottare ogni precauzione anche innominata astrattamente possibile - Non sussiste - Fattispecie: lavoratore che, pur indossando la cintura anticaduta, non la aggancia.

L'obbligo di prevenzione posto dall'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all'esperienza e alla tecnica. Tuttavia, dalla norma in esame non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati.
NOTA
La Corte d'Appello di Venezia, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento danni formulata da un lavoratore nei confronti della società datrice di lavoro per l'infortunio occorsogli all'esito di una caduta da un ponte mobile mentre era impegnato in lavorazioni in quota.
Dall'istruttoria espletata in corso di causa era emerso che il lavoratore aveva ricevuto i necessari dispositivi di protezione, era stato istruito sull'utilizzo della cintura anticaduta e che vi era stata una vigilanza attiva del datore di lavoro sul rispetto delle istruzioni impartite, attuata mediante il responsabile della sicurezza. Era inoltre emerso che il lavoratore, il giorno dell'incidente, aveva omesso di agganciare alla cesta la cintura anticaduta, pur regolarmente indossata.
Sulla base di tali elementi la Corte territoriale aveva concluso per il rigetto della domanda del lavoratore, statuendo che «l'obbligo di controllo della parte datoriale non poteva essere inteso in senso così pregnante da far configurare una sorveglianza continua del lavoratore, non potendo essere richiesto al titolare della posizione di garanzia, una persistente attività di verifica dell'utilizzazione dei mezzi di protezione».
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, che censurava la sentenza impugnata da un lato, per non avere considerato che l'eventuale concorso colposo del lavoratore non fa venire meno la responsabilità datoriale conseguente alla violazione dell'obbligo di sicurezza; dall'altro, per avere omesso di verificare se il datore di lavoro aveva effettivamente svolto un'attività di assiduo controllo sul corretto funzionamento dei macchinari, attuato anche mediante predisposizione di strumenti automatici di blocco della salita in caso di mancato allaccio della cintura. La mancata prova di detto adempimento da parte del datore di lavoro avrebbe comportato, ad avviso del lavoratore, l'accoglimento della domanda di risarcimento proposta ex art. 2087 c.c.
La Suprema Corte ha ritenuto infondati i predetti motivi di ricorso ricordando, anzitutto, che poiché la responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell'art. 2087 c.c. è di tipo contrattuale, l'obbligo di garantire la sicurezza dei lavoratori rientra all'interno della struttura del rapporto di lavoro. Per tale motivo il datore di lavoro è certamente «tenuto a predisporre un ambiente ed una organizzazione di lavoro idonei alla protezione del bene fondamentale della salute, funzionale alla stessa esigibilità della prestazione lavorativa, con la conseguenza che è possibile per il prestatore eccepirne l'inadempimento e rifiutare la prestazione pericolosa (art. 1460 cod. civ.)».
L'art. 2087 c.c. trova dunque applicazione anche in assenza di specifiche regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate ed è volto a sanzionare il datore di lavoro che ometta di predisporre le misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, «tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico» (Cass. n. 644 del 14/1/2005; Cass. n. 2491 del 1/2/2008; Cass. n. 13956 del 3/8/2012; Cass. n. 24742 del 8/10/2018).
La Suprema Corte aggiunge però anche che la responsabilità datoriale non può essere ampliata sino a «comprendere, sotto il profilo meramente oggettivo, ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei dipendenti e di correlativo pericolo».
Il che significa che non può richiedersi al datore di lavoro il rispetto di ogni cautela possibile e diretta ad evitare qualsiasi danno così da garantire «un ambiente di lavoro a "rischio zero"», tenuto conto che il pericolo di una certa lavorazione o di una determinata attrezzatura non è sempre definitivamente eliminabile. Non può dunque ascriversi al datore di lavoro la responsabilità di «qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile».
Da quanto appena esposto emerge che, ai fini della sussistenza della responsabilità datoriale ai sensi dell'art. 2087 c.c., è necessario dimostrare che «la lesione del bene tutelato derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto», evitando dunque di "presupporre" la sussistenza di un danno risarcibile per inadeguatezza delle misure di protezione adottate per il sol fatto della sua verificazione.
Il datore di lavoro, prosegue la Suprema Corte, assolve il proprio onere di tutela della salute e integrità psicofisica del lavoratore anche laddove svolga una «vigilanza generica, seppure continua ed efficace, intesa ad assicurare nei limiti dell'umana efficienza che i lavoratori seguano le disposizioni di sicurezza impartite ed utilizzino gli strumenti di protezione prescritti» (Cass. n. 10066 del 26/11/1994).
Sulla scorta di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha escluso che, nel caso in esame, il datore di lavoro fosse responsabile per l'infortunio del dipendente che, nonostante l'adeguata formazione ricevuta attraverso i corsi di sicurezza, i ripetuti inviti a rispettare le norme in materia di sicurezza e la continua vigilanza sul rispetto delle istruzioni impartite per il tramite del responsabile della sicurezza, aveva omesso di allacciare la cintura anticaduta (che pure indossava) al cestello allorché si trovava ad effettuare delle lavorazioni in quota.
Nel contesto così descritto di puntuale assolvimento da parte datoriale di tutti gli obblighi previsti dalla legge, la condotta del lavoratore aveva pertanto «assunto il carattere dell'assoluta imprevedibilità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, sì da porsi quale causa esclusiva dell'evento».
La Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto del ricorso del lavoratore.

Infortunio sul lavoro e concorso di condotte colpose

Cass. Sez. Lav. 21 febbraio 2020, n. 4619

Pres. Di Cerbo; Rel. Cinque; Ric. S.P.; Controric. F; P.G.; D.; G.B.S.; P.M.: Cimmino

Infortunio sul lavoro - Concorso di condotte colpose indipendenti – Assenza di causalità efficiente di una sola condotta - Responsabilità solidale – Sussiste

Il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, di cui all'art. 41 cod. pen., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso é riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento nella causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 cod. pen., in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto.
Infortunio sul lavoro - Abnormità della condotta del lavoratore - Assenza - Presenza del diretto superiore - Sussistenza - Concorso di colpa del lavoratore - Esclusione
L`infortunio non è addebitabile (anche) al dipendente che agisce su ordine del datore. La colpa del lavoratore esclude la responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato le misure di sicurezza adeguate solo in caso di comportamento del tutto anomalo e imprevedibile, mentre la condotta imprudente resta irrilevante se attuativa di un ordine e svolta sotto il controllo del datore di lavoro.
NOTA
Nel caso di specie un lavoratore subiva un infortunio sul lavoro spostando una "pressetta" (costruita e venduta dalla società Alfa alla società Beta, datrice di lavoro, sulla base di un progetto di quest'ultima) a mano dalla sua sede abituale per portarla in manutenzione con l'aiuto del proprio superiore gerarchico. In particolare, «l'attrezzatura, posta su un supporto con ruote, arrivata in prossimità di un tunnel passacavi, si sbilanciava e cadeva addosso al lavoratore che nell'occorso riportava lesioni consistite nella frattura pluriframmentaria della tibia e del malleolo personale della gamba sinistra».
Il Tribunale di Rovereto, in parziale accoglimento delle domande proposte dal lavoratore, in ordine all'infortunio occorso, «accertava rispettivamente la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della Società Beta e della Società Alfa, condannando le società in solido al risarcimento, nei confronti del lavoratore dei danni patrimoniali e non patrimoniali nella misura di Euro 82.447,11 oltre interessi».
La Corte d'Appello di Trento riformava la sentenza di primo grado solo sul quantum, aumentando ad Euro 108.570,11, oltre interessi, l'importo in favore del lavoratore, confermando, invece, la condanna in solido delle società Alfa e Beta, «non potendosi ipotizzare una responsabilità prevalente della ditta fornitrice del macchinario».
Per la cassazione della sentenza ricorrevano tutte le parti in causa e in particolare la Società Alfa che eccepiva la mancata rilevazione del nesso eziologico tra l'atto illecito ascritto alla Società costruttrice del macchinario e l'evento lesivo occorso al lavoratore, nonché la sussistenza del concorso di colpa del danneggiato nella causazione del fatto illecito.
La Corte di legittimità ha respinto il ricorso affermando che «la Corte di merito ha correttamente applicato il principio secondo il quale tra "fatto" e "danno" deve intercorrere un nesso di causalità da valutarsi in virtù della regola dell'equivalenza delle concause, e in assenza della sussistenza delle c.d. "causa prossima di rilievo", ha poi condivisibilmente ritenuto, nella fattispecie in esame, che fosse ravvisabile un concorso di condotte colpose indipendenti, costituenti rispettivamente ipotesi di responsabilità contrattuale e di responsabilità extracontrattuale e che le stesse avessero concorso in misura pari a determinare l'evento dannoso, ripartendo tra le coobbligate la responsabilità».
Relativamente, invece, ad un prospettato concorso colposo del lavoratore nella causazione dell'evento dannoso, i giudici di legittimità hanno rilevato che la Corte d'Appello ha correttamente accertato, «da un lato, che la condotta del lavoratore non era stata connotata da elementi di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al processo lavorativo tale da configurare una causa esclusiva dell'evento; dall'altro che, anche a volere considerare imprudente il comportamento del lavoratore, il fatto di avere spostato la pressetta insieme ad un suo superiore era indice di aver agito su ordine del datore di lavoro». Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso confermando l'assenza di concorso colposo del lavoratore rilevando, da un lato, che non sussisteva «una condotta personalissima, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali», dall'altro, che «la condotta imprudente del lavoratore - allorchè attuativa di uno specifico ordine di servizio per datore di lavoro - si configura nell'eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, proprio perché importa in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, di talché tale condotta va comunque addebitata al datore di lavoro».

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