Contenzioso

Diverbio litigioso, licenziamento valido anche senza contestazione di grave perturbamento

di Giuseppe Bulgarini d'Elci

Il licenziamento irrogato a un lavoratore per avere colpito con un calcio al ginocchio il capoturno, nel corso di un diverbio litigioso dentro lo stabilimento aziendale, è misura che può rivelarsi proporzionata e legittima rispetto alla scala di valori che connotano una comunità sociale. Né può essere dirimente, in senso contrario, la circostanza che il datore di lavoro non abbia fatto riferimento nella contestazione all'esistenza di un grave perturbamento ingenerato da tale comportamento nella vita aziendale.

La Cassazione ha spiegato (sentenza n. 7567 del 27 marzo 2020) che, quand'anche il ccnl applicato al rapporto di lavoro riconnetta al diverbio in azienda trasceso verso vie di fatto la previsione di un “grave perturbamento” per la vita aziendale, non per questo si può escludere la validità della misura massima espulsiva. Né per questo si può pervenire a una decisione per cui, se in sede disciplinare il datore non deduce un “grave perturbamento”, il fatto contestato si rivela insussistente e legittima l'ordine giudiziale di reintegrare sul posto di lavoro il dipendente.

Il caso scrutinato dalla Corte di legittimità è paradossale e offre un quadro sconcertante degli approdi a cui perviene una giurisprudenza di merito che insiste nell'applicare la misura della reintegrazione in servizio anche in presenza di comportamenti che hanno un evidente disvalore sul piano disciplinare.

Ad avviso della Corte d'appello di Milano, la mancata enunciazione del grave perturbamento alla vita aziendale, che era (invece) richiamato nella fattispecie del diverbio litigioso disciplinata dal ccnl, privava la contestazione di un elemento costitutivo e impediva al lavoratore di poter articolare una possibile difesa. Da qui la decisione di ritenere la contestazione insussistente, facendo conseguente applicazione della tutela reale prevista dall'articolo 18, comma 4, dello Statuto dei lavoratori: ovvero, reintegro in servizio e risarcimento fino a un massimo di 12 mensilità.

La Cassazione travolge questa impostazione e afferma che le condotte incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro enunciate dai contratti collettivi hanno portata esemplificativa e non esauriscono lo spettro possibile delle contestazioni da cui derivare la sanzione massima espulsiva. Si osserva, in proposito, che la giusta causa di licenziamento è una nozione legale, che non può essere compressa nel perimetro delle sole previsioni contrattuali collettive.

La Cassazione osserva che il solo limite alla autonomia del giudice è dato da previsioni del ccnl che sanzionino una determinata infrazione con un provvedimento conservativo. Solo in tal caso, se oggetto di contestazione è un comportamento che, nella sua esatta connotazione, viene rapportato dal ccnl a una misura conservativa, risulta preclusa l'applicazione della più severa sanzione del licenziamento. In ogni altro caso, il giudice è sempre tenuto a verificare se le previsioni disciplinari del ccnl sono conformi alla nozione legale della giusta causa, perché la scala di valori recepita dalle parti sociali è solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento.

Sulla scorta di questa interpretazione, la Cassazione ha cassato la pronuncia della corte territoriale.

La sentenza n. 7567/2020 della Corte di cassazione

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