Contenzioso

Il lavoratore non può decidere le ferie per evitare il comporto

di Valeria Zeppilli

In prossimità della scadenza del periodo di comporto, i lavoratori non possono decidere, autonomamente, di collocarsi in ferie per evitare di superare il limite di giorni di assenza per malattia entro il quale hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro.
Del resto, come ricordato di recente dalla Corte di cassazione (sezione lavoro, 27 marzo 2020, n. 7566), il secondo comma dell'articolo 2109 del Codice civile affida al datore di lavoro la scelta del periodo di ferie dei propri dipendenti, pur specificando che essa andrà esercitata tenendo conto non solo delle esigenze dell'impresa ma anche degli interessi del lavoratore.
Il prestatore di lavoro, quindi, non può incondizionatamente sostituire la propria malattia con la fruizione delle ferie maturate e non ancora godute per legittimare la sua assenza dal lavoro, ma deve farne apposita richiesta al datore di lavoro. Questi, nel darvi seguito, deve considerare e valutare adeguatamente la posizione del lavoratore, tenendo ovviamente conto del fatto che lo stesso, con la scadenza del comporto, è esposto alla perdita del posto di lavoro.
Conformandosi a un orientamento ormai consolidato, i giudici hanno anche precisato che un simile obbligo del datore di lavoro viene meno quando, in forza della contrattazione collettiva o di specifiche disposizioni di legge, il lavoratore ha la possibilità di evitare la risoluzione del rapporto di lavoro per superamento del periodo di comporto ricorrendo al collocamento in aspettativa, anche non retribuita.
Se, quindi, non vi sia stato accordo sul godimento delle ferie e il lavoratore non abbia un titolo formale per restare in malattia o non voglia superare il periodo di comporto, è indispensabile che egli torni sul luogo di lavoro.
A tale ultimo proposito, la Corte di cassazione ha avuto modo di chiarire i confini di operatività dell'articolo 41 del decreto legislativo n. 81/2008, che inserisce tra gli strumenti di sorveglianza sanitaria l'effettuazione di una visita medica prima che il lavoratore, il quale è stato assente per motivi di salute per oltre sessanta giorni continuativi, riprenda il proprio lavoro. Il fine è quello di verificare la sua idoneità alla mansione e accertare, quindi, che questa possa essere svolta senza alcun pregiudizio o rischio.
Per i giudici, la disposizione deve essere interpretata tenendo conto sia della sua formulazione letterale, sia della sua finalità, quindi considerando la ripresa al lavoro come l'assegnazione del lavoratore alle mansioni svolte prima dell'assenza per malattia.
Solo se il lavoratore è subito assegnato a tali mansioni, egli ha diritto di astenersi dall'eseguire la prestazione dovuta ai sensi dell'articolo 1460 del Codice civile se non è stato sottoposto a visita. In tal caso, infatti, vi è un inadempimento grave del datore di lavoro che rompe l'equilibrio sinallagmatico tra le parti e giustifica la reazione del dipendente. Non bisogna invece confondere l'assegnazione alle mansioni con la semplice presentazione sul posto di lavoro, che è solo diretta a dare operatività concreta al rapporto e che non esclude una diversa collocazione del dipendente all'interno dell'organizzazione di impresa, provvisoria in attesa della visita: dalla presentazione il lavoratore non può legittimamente astenersi.

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