Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Interpretazione di clausole di classificazione del personale di un contratto collettivo aziendale
Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro
Nullità del trasferimento di ramo d'azienda

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2020, n. 6095

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celentano; Ric. I. S.; Controric. L. S.p.A.

Indicazione di orari di trasferta non effettivi - Reato di truffa - Sussiste - Licenziamento per giusta causa - Legittimità

La ripetuta indicazione di orari di inizio e fine trasferta diversi da quelli effettivi, così da fruire del corrispondente e più favorevole trattamento economico, costituisce un comportamento grave ed ampiamente sufficiente a giustificare il licenziamento per giusta causa per la portata offensivamente ingannevole sotto i profili oggettivo e soggettivo.
NOTA
Una lavoratrice veniva licenziata per giusta causa per avere ripetutamente indicato orari di inizio e fine trasferta diversi da quelli effettivi, così da fruire del corrispondente e più favorevole trattamento economico, nonché altre violazioni di disposizioni aziendali.
La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Roma che respingeva il ricorso. Appellava, quindi, la sentenza davanti alla Corte di Appello di Roma la quale, una volta esclusa la tardività della contestazione disciplinare, osservava che la condotta contestata alla ricorrente integrasse gli estremi del delitto di truffa (art. 640 c.p.), avendo la lavoratrice indicato falsi orari di inizio della trasferta sulla base dei quali aveva compilato i moduli destinati al pagamento delle relative indennità. La Corte d'Appello riteneva, quindi, che tale comportamento non consentisse, per la sua gravità e reiterazione, di ritenere applicabile una sanzione conservativa.
La lavoratrice impugnava, quindi, anche la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 640 cod. pen., poiché la sentenza della Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto che la ricorrente avesse commesso il delitto di truffa, nonostante non avesse compiuto gli artifici e i raggiri che sono richiesti, invece, dalla norma penale.
La Suprema Corte rigetta il ricorso rilevando che «le dichiarazioni menzognere ben possono costituire raggiro ed integrare l'elemento materiale del delitto di truffa quando sono presentate in modo tale da indurre in errore il soggetto passivo di cui viene carpita la buona fede (Cass. pen., Sez. II, 20 giugno 1985, n. 10628/1985)» e che «per l'esistenza del delitto di truffa non può avere rilievo la mancanza di diligenza, di controllo e di verifica da parte del soggetto passivo, non valendo ciò ad escludere l'idoneità del mezzo».

Interpretazione di clausole di classificazione del personale di un contratto collettivo aziendale

Cass. Sez. Lav. 19 febbraio 2020, n. 4183

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; Ric. R.F.I. S.p.A. Controric. B.G. + altri

Lavoro subordinato – Superiore inquadramento - Accertamento - Contrattazione collettiva aziendale - Considerazione di specifici profili professionali – Ammissibilità

In sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o categorie, ha rilievo preminente, soprattutto se il contratto ha carattere aziendale, la considerazione degli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poiché le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala gerarchica, elaborando successivamente le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l'inserimento di figure professionali atipiche o nuove.
NOTA
La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto il diritto degli originari ricorrenti – tutti assunti con mansione di capo stazione sovrintendente di categoria ottava - ad essere inquadrati nella superiore nona categoria del CCNL di settore con profilo professionale di capo settore stazioni, con condanna della società al pagamento delle differenze retributive.
La Corte territoriale aveva ritenuto che i lavoratori avessero svolto mansioni correlate alla direzione, alla vigilanza e al coordinamento e controllo della circolazione dei treni relativamente ad un complesso di impianti - mansioni ricomprese nel profilo professionale di capo settore stazioni di cui ad un accordo sindacale aziendale – e che pertanto avessero diritto al superiore inquadramento.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso la Società eccependo l'erroneità della sentenza di secondo grado per non aver fatto alcun riferimento alle declaratorie contrattuali contenute nel CCNL di settore e deducendo che i lavoratori non avessero svolto tutte le mansioni indicate nel profilo professionale di capo settore stazioni.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso della Società, ritenendo che la Corte di Appello avesse correttamente fondato la propria decisione sulla disamina dei profili professionali previsti dall'accordo sindacale aziendale e che le attività descritte in ciascun profilo professionale non fossero da intendersi come cumulative ma si riferissero ad ipotesi alternative di utilizzazione.
Il Giudice di legittimità, richiamando altri precedenti in materia, ha quindi ribadito il principio secondo cui «In sede di interpretazione delle clausole di un contratto collettivo relative alla classificazione del personale in livelli o categorie, ha rilievo preminente, soprattutto se il contratto ha carattere aziendale, la considerazione degli specifici profili professionali indicati come corrispondenti ai vari livelli, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità delle varie categorie, poiché le parti collettive classificano il personale non sulla base di astratti contenuti professionali, bensì in riferimento alle specifiche figure professionali dei singoli settori produttivi, che ordinano in una scala gerarchica, elaborando successivamente le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l'inserimento di figure professionali atipiche o nuove».
La Suprema Corte ha quindi ritenuto il procedimento logico-giuridico seguito dalla Corte di Appello immune da vizi.

Accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 21 febbraio 2020, n. 4620

Pres. Napoletano; Rel. Marchese; Ric. C.S.; Contr. C.A.;

Autonomia/subordinazione - Rapporto di lavoro subordinato - Accertamento - Indici della subordinazione - Mansioni elementari - Ricorso ad indici sussidiari attenuati - Legittimità - Fattispecie

In tema di accertamento circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in presenza di mansioni elementari e, per cosi dire, rigide svolte dal lavoratore, il potere direttivo del datore di lavoro può anche non assumere una concreta rilevanza esterna, per manifestarsi solo in determinate occasioni, come, per esempio, quando il prestatore incorra in una inosservanza dei propri doveri.
NOTA
La Corte di appello di Catanzaro accoglieva il ricorso di una dipendente avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Catanzaro aveva rigettato, tra le altre, la richiesta della lavoratrice di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze della convenuta per un periodo di due anni, con conseguente condanna di quest'ultima al pagamento di differenze retributive.
In particolare, la Corte territoriale riteneva accertato, sulla base della prova orale espletata, il rapporto di lavoro subordinato tra le parti nel periodo indicato dalla lavoratrice.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, ritiene condivisibile il ragionamento della Corte di appello, affermando, anzitutto che «la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio sull'attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un'esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti».
La Corte di Cassazione ribadisce, peraltro, la regula iuris secondo cui «nel caso in cui la prestazione sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione (ovvero all'opposto, dotata di notevole elevatezza e contenuto intellettuale e creativo) al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, legittimando il ricorso a criteri distintivi sussidiari (tra questi, la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale)», concludendo – come riportato in massima – che «in presenza di mansioni elementari il potere direttivo del datore di lavoro può anche manifestarsi solo in determinate occasioni, come, per esempio, quando il prestatore incorra in una inosservanza dei propri doveri».
Con riferimento al caso di specie la Corte ha osservato che i principi sopra richiamati sono stati puntualmente osservati dal giudice del merito e correttamente applicati alla realtà di fatto accertata, essendo stati considerati, a fronte di una mansione (quella di commessa) semplice e ripetitiva, elementi diversi ed ulteriori rispetto all'estrinsecazione del potere direttivo del datore di lavoro, in particolare, valorizzando l'osservanza di un orario di lavoro e la continuità della prestazione lavorativa.
Conclusivamente, il ricorso del datore di lavoro viene rigettato.

Nullità del trasferimento di ramo d'azienda

Cass. Sez. Lav. 6 marzo 2020, n. 6436

Pres. Berrino; Rel. Cinque; Ric. T.I. S.p.A.; Controric. P.L. + 2

Trasferimento ramo d'azienda – Nullità – Ripristino rapporto di lavoro con il cedente – Intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza

Una volta accertata la nullità del trasferimento ramo d'azienda – e della conseguente cessione del rapporto di lavoro –, il rapporto con il cessionario è instaurato in via di mero fatto e le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico in essere con il cedente. Ne consegue che la cessazione del rapporto di lavoro con il cessionario non può spiegare alcun effetto con riguardo all'originario rapporto di lavoro ripristinato con il cedente a seguito della declaratoria di nullità del trasferimento.

Trasferimento ramo d'azienda – Nullità – Mancato ripristino del rapporto di lavoro – Crediti del dipendente – Natura retributiva – Compensatio lucri cum damno – Inapplicabilità

I crediti vantati dai lavoratori per effetto del mancato ripristino del rapporto di lavoro nonostante l'accertamento dell'illegittimità della cessione del ramo d'azienda hanno natura retributiva e non risarcitoria. Pertanto, non trova applicazione il principio della compensatio lucri cum damno e, di conseguenza, l'aliunde perceptum non è detraibile.
NOTA
La Corte d'Appello di Firenze confermava la sentenza di primo grado che, preso atto dell'intervenuta declaratoria di nullità del contratto di cessione di ramo d'azienda, accertava che l'originario rapporto tra i lavoratori e la società cedente non era mai venuto meno, con conseguente obbligo del cedente di ripristinare la continuità retributiva e contributiva di ciascun rapporto di lavoro.
La società cedente proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo in primo luogo l'infondatezza delle pretese dei ricorrenti volte alla ricostituzione del rapporto di lavoro con la cedente in ragione della declaratoria di nullità del trasferimento di ramo d'azienda. Ciò in quanto, successivamente al trasferimento medesimo, il rapporto di lavoro tra i ricorrenti e la società cessionaria era cessato. In secondo luogo, la società cedente censurava la decisione di merito per non aver detratto quanto percepito dai ricorrenti a titolo di indennità di mobilità dalle somme dovute dalla società medesima ai lavoratori a seguito della ricostituzione del rapporto.
La Suprema Corte ritiene infondati entrambi i motivi di censura.
Quanto al primo profilo, in ossequio al proprio consolidato orientamento, la Corte ribadisce che, una volta accertata la nullità della cessione del rapporto di lavoro, il rapporto con il cessionario viene instaurato in via di mero fatto e le successive vicende risolutive dello stesso non incidono sull'unico rapporto giuridico in essere, quello con il cedente (in senso conforme, Cass. n. 5998 del 2019; Cass n. 21160 del 2019). Questo principio è stato correttamente applicato dai giudici di merito, che hanno accertato come la cessazione del rapporto con la società cessionaria non potesse spiegare alcun effetto sull'originario rapporto di lavoro tra i ricorrenti e la cedente.
Quanto al secondo motivo di censura, la Corte di Cassazione conferma il proprio indirizzo secondo cui le somme dovute dal cedente ai ricorrenti a seguito della ricostituzione del loro rapporto di lavoro hanno natura retributiva e non risarcitoria, con la conseguenza che non potrà essere applicato il principio della compensatio lucri cum damno e non potrà essere detratto da tale somme quanto percepito dai lavoratori a titolo di indennità di mobilità (in senso conforme, Cass. n. 21160 del 2019). Come precisato dalla Corte, la questione è stata altresì esaminata e risolta in senso analogo dalle proprie Sezioni Unite con la sentenza del 7 febbraio 2018, n. 2990, ed a tale indirizzo è stato altresì riconosciuto valore di diritto vivente dalla Corte Costituzionale con la sentenza del 28 febbraio 2019, n. 29.

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