Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Contestazione disciplinare e rinvio agli atti del processo penale
Licenziamento collettivo e distacco con assegnazione di mansioni inferiori
Periodi di aspettativa sindacale e calcolo della pensione
Licenziamento, ferie e periodo di comporto

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 27 marzo 2020, n. 7567

Pres. Di Cerbo; Rel. Raimondi; P.M. Sanlorenzo; Ric. O. S.p.A.; Contr. B.C.V.;

Licenziamento disciplinare – Alterco litigioso con passaggio alle vie di fatto – Giusta causa – Nozione – Prescinde dalle previsioni del CCNL – Valutazione di merito del giudice - Necessità

Quella di giusta causa di licenziamento è nozione legale che prescinde dalla previsione del contratto collettivo. L'elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario rispetto alle sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un'autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all'idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
NOTA
Il Tribunale di Pavia aveva respinto il ricorso in opposizione della società datore di lavoro avverso l'ordinanza con cui, a conclusione della fase sommaria del procedimento azionato ex legge n. 92/2012 dal lavoratore, era stato dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto, con condanna della società alla reintegrazione, il licenziamento per giusta causa intimatogli per essere trasceso a via di fatto nel corso di un diverbio con il capoturno all'interno del perimetro aziendale.
La Corte di appello di Milano rigettava il reclamo proposto dalla società confermando la sentenza resa dal giudice di prime cure, osservando che nella contestazione degli addebiti l'azienda si era riferita all'ipotesi indicata dal CCNL applicato evocando l' "alterco litigioso" e le "vie di fatto" verificatesi all'interno del perimetro dello stabilimento, ma non aveva enunciato l'essenziale parametro costituito dall'evento del "grave perturbamento della vita aziendale".
Secondo la Corte territoriale era completamente mancata la configurazione concreta dell'evento e della sua portata in termini di grave turbamento della vita aziendale, da cui conseguiva l'insussistenza del fatto quale presupposto per l'applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, legge n. 300/1970.
La società proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene non condivisibile il ragionamento della Corte di appello richiamando il consolidato principio di cui alla massima e aggiungendo che «il giudice chiamato a verificare l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento incontra solo il limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione, vale a dire alla condotta contestata al lavoratore».
La Suprema Corte precisa, quindi, che al giudice del merito è consentito di escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, avuto riguardo sia alle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato sia alla compatibilità con il principio di proporzionalità.
«Stante, però, l'inderogabilità della disciplina dei licenziamenti – aggiunge la Corte – il giudice è sempre tenuto a verificare se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo. La scala di valori recepita dai contratti collettivi esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti e costituisce solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Queste ultime possono anche non coincidere completamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva.
Ne discende che il giudice deve verificare la condotta, in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di la della fattispecie contrattuale prevista».
Con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ha osservato che la Corte d'Appello di Milano non si è attenuta ai principi sopra richiamati avendo del tutto omesso, da un lato, la valutazione della gravità della condotta contestata dal datore, che la sentenza impugnata riconosceva essersi realmente verificata, dall'altro lato, la proporzionalità della sanzione espulsiva, mentre l'art. 2119 c.c, interpretato alla luce dei principi sopra enunciati, richiede entrambi tali accertamenti.
Conclusivamente la Suprema Corte ha accolto il ricorso dell'azienda cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d'Appello di Milano in diversa composizione.

Contestazione disciplinare e rinvio agli atti del processo penale

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2020, n. 6644

Pres. Napoletano; Rel. Torrice; P.M. Cimmino; Ric. S.M.; Controric. C.N.

Licenziamento per giusta causa – Contestazione disciplinare per relationem –Rinvio agli atti del processo penale – Ammissibilità – Specificità – Necessità

La contestazione disciplinare può essere fatta "per relationem" agli atti del processo penale purché sia specifica. La specificità può desumersi dalla circostanza che il lavoratore sia stato in grado di difendersi in maniera compiuta sia nell'ambito del procedimento disciplinare che, successivamente, in sede giudiziale.
NOTA
La Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda del lavoratore volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa.
In particolare, i giudici di merito ritenevano che il licenziamento fosse stato adeguatamente motivato, sia in relazione agli elementi fattuali posti alla base del procedimento disciplinare sia in relazione alle ragioni giuridiche poste alla base del licenziamento. Da una parte, infatti, il datore di lavoro aveva valutato gli atti del processo penale a carico del proprio dipendente ed i fatti cristallizzati nella relativa sentenza, ai quali aveva fatto riferimento nella lettera di contestazione disciplinare. Dall'altra, il datore di lavoro aveva ritenuto che il coinvolgimento del proprio dipendente in un ampio sistema corruttivo costituisse elemento idoneo a giustificare un recesso per giusta causa, avuto riguardo al grado di responsabilità correlato al ruolo di Agente di Polizia Municipale rivestito dal lavoratore, preposto alla tutela della legalità.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo la genericità della contestazione disciplinare che aveva portato al suo licenziamento.
La Suprema Corte ritiene il motivo di censura infondato, rilevando come i giudici di merito avessero correttamente ritenuto legittima la contestazione disciplinare, che era sufficientemente specifica seppur fatta per relationem agli atti del processo penale. La specificità della contestazione era altresì confermata dalla circostanza che il lavoratore fosse stato in grado di difendersi in maniera compiuta sia in occasione del procedimento disciplinare sia, successivamente, in giudizio.

Licenziamento collettivo e distacco con assegnazione di mansioni inferiori

Cass. Sez. Lav. 5 marzo 2020, n. 6289

Pres. Berrino; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. B.T. + altri; Controric. A. S.p.A., A.A. S.p.A.

Licenziamento collettivo – Accordo sindacale – Mansioni inferiori – Distacco – Ammissibilità

In presenza di accordi sindacali raggiunti nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo è legittima – quale misura alternativa alla riduzione del personale – l'assegnazione dei lavoratori eccedentari ad altra azienda del gruppo con mansioni inferiori, pur nella irriducibilità della retribuzione.
NOTA
La Corte di Appello di Genova confermava la sentenza di primo grado, che aveva respinto la domanda degli originari ricorrenti di accertamento dell'illegittimità del distacco e di risarcimento del danno da demansionamento.
La Corte territoriale aveva ritenuto legittima la procedura di licenziamento collettivo aperta dalla società datrice di lavoro che si era conclusa con la sottoscrizione di un accordo sindacale volto ad individuare misure alternative al licenziamento e conservative dei posti di lavoro, quali l'assegnazione dei lavoratori a mansioni inferiori con distacco presso soggetti terzi.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso in Cassazione gli originari ricorrenti, eccependo l'erroneità della sentenza di secondo grado per non aver considerato la specialità ed autonomia della normativa in materia di distacco (art. 30 D.lgs. n. 276/2003) - che prevede il consenso del lavoratore interessato, qualora il distacco comporti il mutamento di mansioni.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto dai lavoratori, evidenziando che la predetta normativa, pur prevedendo il consenso del lavoratore al distacco qualora lo stesso comporti un mutamento di mansioni, fa salvo il disposto dell'art. 8, comma 3, D. L. 148/1993, che consente agli accordi sindacali di regolare il distacco dei lavoratori ad altre imprese, al fine di evitare le riduzioni di personale.
La Suprema Corte ha altresì rilevato il carattere speciale della normativa in materia di licenziamento collettivo che consente agli accordi sindacali conclusi nell'ambito delle procedure di mobilità, di prevedere l'adibizione dei lavoratori in esubero a mansioni inferiori, trattandosi di rimedio volto ad evitare il licenziamento.
Il Giudice di legittimità, richiamando altri precedenti in materia sia di adibizione a mansioni inferiori che di distacco, ha quindi sottolineato «la specialità dell'ipotesi del demansionamento dei lavoratori sia in tema i licenziamento collettivo che di distacco, in presenza di accordi collettivi, essendo principio generalmente valido quello del relativo divieto, ritenuto derogabile, quanto all'ipotesi del distacco, ove ricorra l'ipotesi specifica disciplinata dall'art. 8, comma 3, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148».
Il Giudice di legittimità ha quindi ritenuto che in presenza di accordi collettivi raggiunti nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo è legittimo – quale misura alternativa alla riduzione del personale – il distacco dei lavoratori eccedentari ad altra azienda del gruppo con mansioni inferiori, pur nella irriducibilità della retribuzione.
La Suprema Corte ha quindi ritenuto il procedimento logico-giuridico seguito dalla Corte di Appello immune da vizi.

Periodi di aspettativa sindacale e calcolo della pensione

Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2020, n. 7698

Pres. Manna; Rel. Ghinoy; P.M. Cimmino; Ric. T.G.; Controric. I.N.P.S.

Lavoratore che svolge funzioni sindacali - Aspettativa non retribuita - Calcolo del trattamento pensionistico - Premio di produzione - Esclusione

Ai fini del calcolo della pensione da riconoscere ai lavoratori che abbiano goduto di un periodo di aspettativa sindacale è escluso dalla retribuzione figurativa il premio di produzione. Infatti, gli emolumenti e gli incrementi retributivi da considerare sono unicamente quelli collegati dalla contrattazione collettiva alla qualifica e alla maturazione dell'anzianità di servizio mentre restano esclusi eventuali istituti retributivi non previsti dal ccnl, così come anche gli istituti retributivi collegati all'effettiva prestazione dell'attività lavorativa.
NOTA
La Corte d'appello confermava la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta dal lavoratore volta ad ottenere l'inclusione nella retribuzione figurativa - da accreditare in relazione al periodo di aspettativa per svolgimento di funzioni sindacali - del premio di produzione, del compenso sostitutivo del cottimo ed altri incentivi ed indennità previste dal CCNL applicato.
Per la Corte territoriale il contratto collettivo presupponeva, per l'erogazione di tali voci, l'effettiva prestazione lavorativa e ciò ne escludeva il diritto all'inclusione nella retribuzione figurativa. Inoltre, insisteva la Corte, non poteva avere rilievo in senso contrario, il fatto che la prassi aziendale avesse attribuito tali emolumenti alla generalità dei dipendenti a prescindere dalla loro presenza in servizio.
Avverso la sentenza della Corte proponeva ricorso il lavoratore ma la Cassazione lo rigettava.
Per la Suprema Corte, è vero che la L. n. 300 del 1970, art. 31 prevede che i lavoratori chiamati a funzioni pubbliche elettive o a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali possono, a richiesta, essere collocati in aspettativa non retribuita, per tutta la durata del loro mandato e che tali periodi di aspettativa sono considerati utili a fini pensionistici, con onere posto a carico delle gestioni previdenziali. D'altro canto però occorre individuare quali siano le retribuzioni figurative da prendere in esame in relazione a tali periodi di sospensione.
In questo senso il D.Lgs. 16 settembre 1996, n. 564, art. 3, ha stabilito che «Le retribuzioni figurative accreditabili sono quelle previste dai contratti collettivi di lavoro della categoria e non comprendono emolumenti collegati alla effettiva prestazione dell'attività lavorativa o condizionati ad una determinata produttività o risultato di lavoro né incrementi o avanzamenti che non siano legati alla sola maturazione dell'anzianità di servizio». Restano pertanto esclusi eventuali istituti retributivi non previsti dal contratto collettivo di lavoro, così come anche gli istituti retributivi collegati all'effettiva prestazione dell'attività lavorativa.
Con particolare riferimento al caso di specie, per la Cassazione la Corte territoriale aveva correttamene accertato che le voci retributive di cui è causa presupponevano l'effettivo svolgimento dell'attività lavorativa, per cui, nel rispetto delle previsioni di legge, sono state correttamente escluse dal calcolo della retribuzione figurativa relativa al periodo di aspettativa per svolgimento di funzioni sindacali.

Licenziamento, ferie e periodo di comporto

Cass. Sez. Lav. 27 marzo 2020, n. 7566

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celeste; Ric. N. C.; Controric. T. S.r.l.

Malattia - Comporto - Mutamento del titolo dell'assenza da malattia a ferie - Diritto incondizionato del lavoratore in tal senso - Insussistenza - Obbligo del datore di lavoro di tenerne conto nella determinazione delle ferie - Limiti - Possibilità del lavoratore di prevenire il superamento del comporto chiedendo l'aspettativa - Rilevanza - Fattispecie.

Il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell'assenza per malattie in ferie, e nell'esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109, secondo comma, cod. civ.), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell'ambito annuale armonizzando le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguate alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita (nella specie, la S.C., enunciando tale principio e dando altresì conto dell'evoluzione giurisprudenziale in materia, ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la correttezza del comportamento datoriale sul presupposto che il lavoratore, pur a fronte di avvisi inviatigli dal datore di lavoro, non aveva inteso richiedere la conversione in ferie del proprio periodo di malattia e neppure avvalersi del periodo di aspettativa previsto contrattualmente).
NOTA
Una lavoratrice, licenziata per giusta causa per avere effettuato, per più giorni consecutivi, assenze ingiustificate dal lavoro, impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che respingeva il ricorso. Appellata, quindi, la sentenza davanti alla Corte di Appello di Napoli, quest'ultima confermava la sentenza di primo grado, sostenendo che la lavoratrice si era collocata autonomamente in ferie alla scadenza del periodo di comporto, senza formulare alcuna richiesta di autorizzazione al loro godimento e che la società datrice di lavoro non era inadempiente all'obbligo di sorveglianza sanitaria previsto dall'art. 41 del D. Lgs. 81/2008. La Corte d'Appello affermava, infatti, che «il lavoratore, dopo un periodo di malattia protratto per oltre sessanta giorni, può, in assenza di visita medica, legittimamente rifiutarsi, ex art. 1460 cod. civ., di eseguire le mansioni incompatibili con il suo stato di salute, posto che l'omissione della visita medica costituisce grave e colpevole inadempimento del datore di lavoro, ma non può rifiutarsi di ritornare al lavoro e continuare ad assentarsi, come invece era accaduto nella specie».
La lavoratrice impugnava, quindi, anche la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi del ricorso, che la condotta che aveva posto in essere «integrasse chiaramente l'ipotesi del rifiuto legittimo alla prestazione ex art. 1460 cod. civ., stante l'omessa sottoposizione della stessa, da parte del datore di lavoro, a visita medica preventiva, con conseguente insussistenza del fatto contestato sotto il profilo della sua antigiuridicità».
La Suprema Corte rigetta il ricorso della lavoratrice, rilevando che, come già affermato dalla Corte di Appello, è vero che l'art. 42 del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro stabilisce che il datore di lavoro debba effettuare «una vista medica precedente alla ripresa del lavoro, a seguito di assenza per motivi di salute superiore ai sessanta giorni continuativi, al fine di verificare la idoneità alla mansione», e che è anche vero che il dipendente può astenersi ex art. 1460 cod. civ. dall'eseguire la prestazione dovuta se nuovamente destinato alle stesse mansioni assegnategli prima dell'inizio del periodo di assenza. Tuttavia, evidenzia la Corte di Cassazione, non è consentito al lavoratore «di astenersi anche dalla presentazione sul posto di lavoro, una volta venuto meno il titolo giustificativo della sua assenza (come nella specie, la ricorrente avendo superato il periodo di comporto): presentazione che (…) è momento distinto dall'assegnazione alle mansioni, in quanto diretto a ridare concreta operatività al rapporto e ben potendo comunque il datore di lavoro, nell'esercizio dei suoi poteri, disporre, quanto meno in via provvisoria e in attesa dell'espletamento della visita medica e della connessa verifica di idoneità, una diversa collocazione del proprio dipendente all'interno dell'organizzazione dell'impresa».

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