Contenzioso

Trasferimento illecito, il dipendente ha diritto alla retribuzione anche dall’impresa cedente

di Salvatore Servidio

Con l'ordinanza 21 aprile 2020, n. 7977, la Corte di cassazione afferma che il lavoratore ha diritto alla retribuzione anche dall'impresa cedente se il trasferimento del ramo d'azienda è dichiarato illecito. È irrilevante, infatti, che la prestazione sia stata eseguita solo nei confronti dell'impresa cessionaria. L'azienda cedente resta comunque obbligata a pagare la retribuzione che si cumula con gli emolumenti versati dal cessionario per l'attività effettivamente prestata.

Nel caso trattato una società di telecomunicazioni concludeva la cessione di un ramo d'azienda. In seguito, una dipendente impugnava detta cessione presentando al Tribunale domanda per l'ottenimento del pagamento di una mensilità all'originario datore di lavoro, sul presupposto della permanenza del rapporto di lavoro tra le parti anche dopo il trasferimento.

Il giudice adito accoglieva il ricorso, ingiungendo con decreto il pagamento del dovuto alla lavoratrice, decisione che veniva altresì confermata dalla Corte d’appello adita dalla datrice, sulla base dell'effettivo accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro tra le parti.

Nel conseguente ricorso per Cassazione, la società evidenziava tra le varie censure l'estinzione del rapporto lavorativo in seguito all'accettazione da parte della dipendente della collocazione in mobilità disposto dalla cessionaria del ramo di azienda e che non era configurabile la coesistenza di due distinti rapporti di lavoro subordinato, uno presso l'impresa cedente e uno con la cessionaria.

Nel decidere la questione la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso datoriale affermando che soltanto un legittimo trasferimento d'azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico e immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'articolo 2112 del Codice civile, il quale, in deroga all'articolo 1406 del Codice civile, consente la sostituzione del contraente senza il consenso del ceduto.

Il rapporto di lavoro genera diritti e obblighi a carico delle parti. In particolare, per il datore di lavoro l'obbligazione principale è la corresponsione di un'adeguata retribuzione ai lavoratori. La predetta cessa in caso di legittimo trasferimento del ramo di azienda, in virtù del quale è garantita l'unicità del rapporto di lavoro. Diversamente, chiarisce la Cassazione, l'irregolarità della cessione determina una duplicazione del rapporto di lavoro, con conseguente permanenza degli obblighi anche retributivi, a carico dell'originario datore di lavoro.

Ed è evidente che l'unicità del rapporto venga meno, qualora, come nel caso in esame, il trasferimento sia dichiarato invalido, stante l'instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il lavoratore "continui" di fatto a lavorare.

Quindi, pure a fronte di una duplicità di rapporti (uno ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore), prosegue il Collegio di legittimità, anche la prestazione lavorativa solo apparentemente resta unica.

Al riguardo è stato deciso che in caso di accertata nullità della cessione del ramo di azienda, le vicende risolutive del rapporto di lavoro con il cessionario (nella specie, licenziamento dichiarato illegittimo ed esercizio del diritto di opzione per l'indennità sostitutiva della reintegra ex articolo 18 della legge n. 300/1970), in quanto instaurato in via di mero fatto, non sono idonee a incidere sul rapporto con il cedente ancora in essere, sebbene quiescente fino alla declaratoria di nullità della cessione (Cass. 5998/2019).

Sicché, accanto a una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve ne è un'altra - ha specificato la Cassazione - «giuridicamente resa, non meno rilevante sul piano del diritto, in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato».

Pertanto, conclude la Sezione lavoro, ne segue che al dipendente spetta la retribuzione tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass. n. 20318/2008), perché, una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente all'utilizzazione effettiva, con la conseguenza che l'imprenditore ha l'obbligo di pagare la retribuzione.

Con l'ulteriore effetto che lo stipendio corrisposto da chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un'attività resa nell'interesse e nell'organizzazione di questi, non va detratta dall'importo della retribuzione cui il cedente è obbligato.
Quanto precede è frutto di consolidando orientamento della giurisprudenza di legittimità (v. da ultimo Cass. n. 17784 e n. 21115/2019), a cui l'ordinanza in esame dà ulteriore consistenza.

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