Contenzioso

Il licenziamento per superamento del comporto non deve essere discriminatorio

di Pasquale Dui

La fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di comporto in caso di malattia è un'ipotesi tipizzata di giustificato motivo di licenziamento, cosicché le regole dettate dall'articolo 2110 del Codioce civile, prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella degli articoli 1256 e 1463 e 1464 c.c., e si sostanziano nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso; le stesse regole hanno quindi la funzione di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione), riversando sull'imprenditore, in parte ed entro un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente.
Secondo un orientamento della giurisprudenza di merito, il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore la cui malattia sia derivata da una situazione di disabilità comunque nota al datore di lavoro, costituisce una fattispecie di discriminazione indiretta, in base al Dlgs 213/2003, risolvendosi l'esercizio del potere di recesso nella applicazione di una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto) che però mette il lavoratore (portatore di handicap, nel caso specifico) in una posizione di particolare svantaggio. Dal caso specifico della disabilità, non è mancato chi ha prospettato la discriminazione anche in relazione a casi di patologie gravi, oncologiche, nonché a casi di necessità di terapie salvavita, mettendo così a dura prova il sistema italiano, non pienamente conforme alle direttive europee sul punto e alla giurisprudenza comunitaria.
D'altro canto, la stessa differenza di disciplina in relazione al pubblico impiego è stata criticata spesso, anche se solo argomentativamente, dalla giurisprudenza.
Per arginare la vistosa differenza di trattamento tra pubblico e privato, la contrattazione collettiva ha introdotto la possibilità di chiedere un periodo di aspettativa al termine del comporto. In tal caso, secondo la giurisprudenza, il lavoratore ha un diritto – o quantomeno un interesse qualificato – ad un ulteriore periodo di sospensione del rapporto (Cass. 25863/2010). Il datore di lavoro non ha il dovere di sollecitare il ricorso all'aspettativa (Cass. 19134/2011; Cass. 13396/2002).
In simili ipotesi, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento devono essere ulteriormente dilatati, in modo da comprendere anche la durata dell'aspettativa (Cass. 6697/2016). Resta comunque sempre aperto il nodo cruciale della differenza sul piano della tutela economica, in quanto le clausole dei contratti collettivi del settore privato prevedono quasi esclusivamente la conservazione del posto ma senza alcuna copertura economica, offrendo ipotesi di aspettativa non retribuita.

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