Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Illegittimità del patto di prova
Indennità sostitutiva delle ferie non godute e onero probatorio
Indennità di maternità anticipata e domanda Inps
Danno da demansionamento e onere della prova
Licenziamento per giusta causa


Illegittimità del patto di prova

Cass. Sez. Lav., ord., 9 marzo 2020, n. 6633

Pres. Bronzini, Rel. De Gregorio, Ric. P.I. S.p.A.; Controric. A.F.
Patto di prova - Art 2096 c.c. - Identità mansioni precedentemente svolte - Illegittimità- Sussistenza

La causa del patto di prova va individuata nella tutela dell'interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento attraverso il quale, sia il datore di lavoro, sia il lavoratore, possono saggiare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest'ultimo, a sua volta, verificando l'entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto.
NOTA
Con l'ordinanza in commento il Supremo Collegio è stato chiamato a decidere sulla richiesta di cassazione di una pronuncia di merito avente ad oggetto la legittimità di un patto di prova apposto a un contratto di assunzione.
La Corte d'Appello adita nel caso di specie, in riforma della sentenza del Giudice di prime cure, aveva dichiarato la nullità del patto di prova previsto dal contratto a tempo indeterminato stipulato tra una lavoratrice e il datore di lavoro, nonché la conseguente illegittimità del licenziamento intimato per asserito mancato superamento della prova stessa.
Ad avviso della Corte di merito la società datrice aveva già avuto la possibilità di verificare le qualità professionali e individuali della lavoratrice in occasione di tre pregressi contratti di lavoro a termine, che l'avevano impegnata sulle medesime mansioni di portalettere, nuovamente assegnatele. In ragione di ciò il patto di prova risultava privo di causa, riconosciuta, per nota giurisprudenza, nell'interesse di entrambe le parti a valutare la reciproca convenienza del contratto.
La società ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, in particolare, la mancata valutazione di alcuni fatti ritenuti determinanti ai fini decisori, quali l'arco temporale trascorso tra i contratti a termine (2007-2009) e quello a tempo indeterminato cui risultava apposto il patto di prova (2010), nonchè la differente realtà territoriale (la provincia di Lecce e quella di Belluno) nell'ambito della quale la lavoratrice avrebbe esercitato la propria attività di addetta alle consegne, utilizzando mezzi di trasporto differenti per l'espletamento delle medesime (auto e motociclo).
Parte datoriale sosteneva che i fattori sopra elencati, comportando un cambio di abitudini di vita e di alcuni aspetti legati alle modalità di svolgimento della prestazione, pur su analoghe mansioni, fossero idonei a giustificare la previsione di un periodo di prova.
La Suprema Corte ha ribadito nei passaggi argomentativi che il patto di prova, pur in presenza di due contratti di lavoro successivamente stipulati tra le stesse parti, è ammissibile quando risulti comunque ravvisabile, quel reciproco interesse delle parti alla valutazione della convenienza del rapporto, che ne è causa fondante, ben potendo nel tempo intervenire molteplici fattori, attinenti non soltanto alle capacità professionali ma anche alle abitudini di vita o, ad esempio, a sopraggiunti problemi di salute che determinino la opportunità di un nuovo "esperimento".
Tale interesse e le circostanze che lo determinano devono essere però oggetto di adeguata prova.
Nel caso di specie, la Corte di merito ha correttamente ritenuto, ad avviso della Suprema Corte, che le identiche mansioni di portalettere oggetto della prestazione dedotta nei contratti succedutisi nel tempo tra le medesime parti, non fossero da ritenersi qualitativamente o quantitativamente condizionate dalla differente realtà territoriale di esercizio delle stesse. Nè il lasso di un anno intercorso tra gli ultimi contratti risultava incidere nella fattispecie, occupandosi la lavoratrice di attività non soggetta a rapida obsolescenza.
Non risultava pertanto adeguatamente provata quella differenza quali-quantitativa nelle prestazioni tempo per tempo chieste alla lavoratrice e rese dalla medesima, tale da giustificare una nuova verifica aziendale delle sue qualità professionali e della sua personalità complessiva.
Ne derivava la declaratoria di nullità del patto di prova e del recesso intimato per mancato superamento del periodo medesimo, mancandone de jure il presupposto.
Per tali motivi il ricorso della società datrice è stato respinto.

Indennità sostitutiva delle ferie non godute e onero probatorio

Cass. Sez. Lav., ord. 6 aprile 2020, n. 7696

Pres. Negri Della Torre; Rel. De Gregorio; Ric. S.; Controric. D. R.
Ferie - Indennità sostitutiva - Natura retributiva - Onere probatorio - Ripartizione tra lavoratore e datore di lavoro - Svolgimento della prestazione lavorativa - Fatto costitutivo del diritto - Onere probatorio a carico del lavoratore - Sussiste

Il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione della indennità sostitutiva delle ferie non godute ha l'onere di provare l'avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l'espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell'indennità suddetta, risultando irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggior facilità nel provare l'avvenuta fruizione delle ferie da parte del lavoratore. Infatti l'indennità sostitutiva si configura come emolumento di natura retributiva, essendo posta in relazione a lavoro prestato con violazione di norme a tutela del lavoratore e per il quale il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione e, secondo i criteri generali, l'onere probatorio si ripartisce esclusivamente facendo riferimento alla posizione processuale, restando rispettivamente a carico di chi vuol far valere un diritto ovvero di chi ne contesti l'esistenza, la estinzione o la modifica.
NOTA
Con ricorso ex art. 414 c.p.c., il sig. S. si rivolgeva al Tribunale di Roma chiedendo la condanna del suo ex datore di lavoro al pagamento di somme a titolo di crediti di lavoro per retribuzioni non percepite, lavoro straordinario, festivo e notturno, TFR, indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non goduti e indennità di mancato preavviso. Il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso e condannava il datore al pagamento di 8.917,87 Euro. Proposto appello, la Corte territoriale riformava parzialmente la pronunzia del giudice di primo grado e condannava il datore (appellante) al pagamento soltanto dell'indennità di preavviso e del tfr ritenendo non sufficientemente provate le altre doglianze circa lo svolgimento di orario straordinario, il mancato godimento delle ferie, lo svolgimento del lavoro festivo o notturno e il mancato godimento dei permessi.
Avverso questa sentenza il sig. S. proponeva ricorso per Cassazione, affidandolo a due soli motivi, entrambi ritenuti dalla Corte infondati e tra i quali – nell'economia di questa nota – verrà dato rilievo principalmente al secondo. Il datore di lavoro resisteva con controricorso.
Ebbene, con il secondo motivo di ricorso, il lavoratore denunciava l'errata applicazione dell'art. 2697 c.c. in tema di onere probatorio nella parte in cui il Giudice territoriale aveva rigettato la domanda del lavoratore volta all'ottenimento di un'indennità sostitutiva delle ferie e dei permessi non fruiti per non esser stata raggiunta la prova circa il mancato godimento delle une e degli altri.
E, infatti, secondo il lavoratore il giudice del gravame aveva sostanzialmente invertito gli oneri processuali a carico delle parti gravando la parte attrice dell'obbligo di provare l'esistenza di circostanze (quali lo svolgimento di prestazione lavorativa in periodi che andavano invece imputati a ferie e permessi) fuori dalla sua piena disponibilità e che invece, nel rigore dei principi giurisprudenziali tracciati dalla S.C. in materia di riparto degli oneri probatori, avrebbero dovuto gravare sul datore di lavoro convenuto. Quest'ultimo infatti è l'unico, secondo il lavoratore, in possesso dei dati (i.e. scritture contabili) dai cui poter trarre con certezza la ripartizione delle energie lavorative dei propri dipendenti nella fase annuale di produttività dell'azienda e dunque è lui il soggetto processuale che – se non altro per l'accessibilità a queste informazioni - deve offrire la prova di quando (e se) il lavoratore ha fruito delle ferie e dei permessi a lui spettanti. Nel suo ricorso il lavoratore richiama – seppur a non chiare lettere – quell'orientamento giurisprudenziale – per vero rimasto minoritario e avallato da pochi supporti dottrinari - secondo cui, in caso di richiesta di indennità sostitutiva delle ferie, il lavoratore ha solo l'onere di provare l'esistenza del rapporto – e non lo svolgimento della prestazione - per il periodo necessario a far sorgere il diritto alle ferie e ai permessi mentre è sul datore che grava l'onere di provare che il lavoratore ha potuto fruire dei giorni di ferie, così come stabiliti dalla legge e dall'autonomia privata o che la relativa indennità è stata pagata.
Nell'ordinanza in epigrafe la S.C. rigetta il motivo di ricorso, confermando pertanto su questo punto la sentenza di appello. Conformandosi all'orientamento consolidatosi negli ultimi anni come maggioritario e richiamandone nel corpo della decisione alcuni precedenti, la Corte sostiene che nei casi di ricorso in giudizio per l'ottenimento dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute è il lavoratore ricorrente a dover provare l'avvenuta prestazione di attività lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l'espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell'indennità suddetta, rimanendo invece del tutto irrilevante la circostanza che il datore di lavoro abbia maggiore facilità nell'accedere a queste informazioni tramite le proprie scritture contabili. In altre parole, il lavoratore che chieda in giudizio il pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie deve provare di aver svolto effettivamente una prestazione lavorativa durante periodi destinati dalla legge alla fruizione, invece, delle ferie e solo se ciò avviene sul datore graverà l'onere di provare l'avvenuta fruizione del periodo di riposo o comunque l'avvenuto pagamento dell'indennità sostitutiva. Il riparto nei termini ora indicati degli oneri deriverebbe – secondo la Corte – dalla qualificazione dell''indennità sostitutiva come emolumento di natura retributiva, essendo posta in relazione a lavoro prestato con violazione di norme a tutela del lavoratore e per il quale il lavoratore ha in ogni caso diritto alla retribuzione. Nelle parole della Corte, infatti, una simile qualificazione conduce a stabilire, secondo i criteri generali, che l'onere probatorio si ripartisce esclusivamente facendo riferimento alla posizione processuale, restando rispettivamente a carico di chi vuol far valere un diritto ovvero di chi ne contesti l'esistenza, la estinzione o la modifica.

Indennità di maternità anticipata e domanda Inps

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2020, n. 6642

Pres. Manna; Rel. Consigliere Ghinoy; Ric. I.N.P.S.; Controric. A.A.;

Lavoro subordinato – Maternità anticipata – Art. 17 D.Lgs. 151/2001 - Concessione indennità – Requisiti – Provvedimento dell'ITL – Insufficienza – Domanda all'INPS – Necessità

Con specifico riferimento all'astensione anticipata dal lavoro ex art. 17 del d.lgs. n. 151 del 2001, alla carenza della domanda amministrativa non può supplire il provvedimento emesso dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, dalla Direzione territoriale del lavoro o dalla ASL, trattandosi di provvedimento che assume solo la funzione di un fatto di legittimazione e una condicio iuris della riconducibilità dell'assenza dal lavoro allo stato di gravidanza e della sua riconoscibilità come assenza determinata da uno degli eventi protetti e che non può, dunque, tenere luogo della domanda diretta ad ottenere la corresponsione dei benefici economici da parte dell'ente previdenziale.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Milano aveva escluso il diritto dell'I.N.P.S. alla ripetizione nei confronti del datore di lavoro della contribuzione trattenuta a titolo di indennità corrisposta per il periodo di astensione anticipata dal lavoro per maternità di una propria dipendente, ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 151 del 2001, che il datore di lavoro aveva poi portato a conguaglio.
Sul punto la Corte territoriale aveva rilevato che, differentemente da quanto avviene per l'indennità di maternità, in caso di astensione anticipata la domanda di astensione anticipata presentata alla ITL (ai tempi dei fatti di causa DPL) e il successivo provvedimento, sostituivano la domanda amministrativa all'INPS e che pertanto quest'ultima non fosse necessaria per l'erogazione dell'indennità in parola.
Contro tale decisione proponeva ricorso in Cassazione l'I.N.P.S. sostenendo che anche nel caso di astensione anticipata per maternità la domanda amministrativa a tale ente fosse necessaria per la percezione dell'indennità, pur essendo l'astensione anticipata disposta dal servizio ispettivo del Ministero del Lavoro.
La Suprema Corte ha accolto tale censura e cassato la sentenza.
In particolare la Suprema Corte, dopo aver ricordato che l'I.N.P.S. è l'unico soggetto tenuto all'erogazione di tale indennità, essendo il datore di lavoro obbligato alla sola anticipazione dei trattamenti salvo successivo conguaglio, ha confermato che anche per questo tipo di indennità, trattandosi di prestazione previdenziale, vale il principio generale della necessità della domanda amministrativa.
La Cassazione ha poi proseguito precisando che, con specifico riferimento all'indennità per astensione anticipata, la domanda all'ITL e il relativo provvedimento emesso dallo stesso ente rappresentano dei requisiti per la concessione dell'indennità ma non possono sostituire la domanda di erogazione della stessa, rappresentando gli stessi «un fatto di legittimazione e una condicio iuris della riconducibilità dell'assenza dal lavoro allo stato di gravidanza e della sua riconoscibilità come assenza determinata da uno degli eventi protetti».
La domanda diretta ad ottenere i benefici economici in questione da parte dell'ente previdenziale è dunque sempre necessaria e non può essere sostituita dal provvedimento dell'ITL.

Danno da demansionamento e onere della prova

Cass. Ord. Lav. 11 marzo 2020, n. 6941

Pres. Bronzini; Rel. Garri; Ric. G.P.; Controric. T.I.I.T. S.r.l.

Lavoro subordinato - Demansionamento - Risarcimento del danno - Onere della prova - Presunzioni gravi, precise e concordanti - Necessità

Il danno da demansionamento non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale. La prova di tale danno può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., anche attraverso l'allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione.
NOTA
Un lavoratore conveniva in giudizio la propria datrice di lavoro per essere reintegrato nelle mansioni di analista informatico ed ottenere il risarcimento dei danni professionale, esistenziale, biologico e morale subìti a causa del demansionamento.
Nello specifico, il lavoratore lamentava di essere stato lasciato inoperoso per circa 56 mesi (dall'agosto 2003 al 2008) e di aver svolto, per circa due mesi di questi, mansioni inferiori.
Il lavoratore ricorda inoltre di avere già in passato (per il periodo 1996 - 2003) proposto una causa di risarcimento danni da demansionamento, allorché si trovava alle dipendenze di un'altra società, che aveva poi ceduto il ramo di azienda cui apparteneva alla attuale datrice di lavoro. La causa si era conclusa con una sentenza di condanna della ex datrice di lavoro a reintegrarlo nelle mansioni originarie, con riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da demansionamento. La società, pur erogandogli le somme dovute, non lo aveva però di fatto assegnato alle mansioni superiori spettantegli.
Perdurando il demansionamento, il lavoratore aveva dunque adìto il Tribunale di Roma che accoglieva la domanda di condanna della società al risarcimento del danno alla professionalità e biologico da questi patito a causa del protratto demansionamento.
In appello la sentenza veniva invece riformata parzialmente. Nello specifico, veniva rigettata la domanda in merito al danno alla professionalità in quanto le allegazioni del lavoratore, in riferimento alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa maturata, venivano ritenute generiche.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore rilevando come, in primo grado, non vi era riferimento alla carenza espositiva e all'assenza di allegazioni specifiche. Lamentava inoltre la violazione, tra le altre, delle norme del codice civile in tema di responsabilità del debitore e di risarcimento del danno.
La Cassazione ha rigettato il ricorso e, in definitiva, ha ritenuto corretta l'applicazione dei principi, in materia probatoria, da parte della Corte territoriale.
Secondo la Suprema Corte, infatti, il danno da demansionamento non si produce in automatico in caso di inadempienza del datore di lavoro, ma va dimostrato: il dipendente può provarlo ai sensi dell'art. 2729 c.c., tramite l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, come la qualità e quantità del lavoro svolto, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa dopo la prospettata dequalificazione, «ma pur sempre sulla base di un quadro fattuale da cui il giudice possa desumere in via presuntiva la sua esistenza» (Cass. n. 19923 del 23/7/2019; Cass. n. 21 del 3/1/2019 e Cass. n. 4652 del 26/2/2009).

L icenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2020, n. 7703

Pres. Di Cerbo; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.A.; Controric. S.
Fattispecie: anomalie nei rimborsi spese - Tardività della contestazione - Insussistenza - Condotta fraudolenta del lavoratore - Sussistenza - Licenziamento - Giusta causa - Legittimità

È legittimo il licenziamento del lavoratore per giusta causa anche se le anomalie dei rimborsi spese sono riscontrate dall'azienda dopo un anno. La contestazione non può essere considerata tardiva o lesiva dell'affidamento del dipendente se alcuni elementi di fatto siano giunti a conoscenza della società solo successivamente (fattura emessa dall'hotel) e rispetto gli stessi il dipendente abbia tenuto una condotta fraudolenta (falsa autodichiarazione).
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Ancona confermava la decisione resa dal Tribunale di Pesaro e rigettava la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro avente ad oggetto la declaratoria dell'illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli per essere state riscontrate a suo carico notevoli anomalie concernenti i rimborsi spese richiesti in occasione delle numerose trasferte impostegli dal suo ruolo aziendale. La Corte, in particolare, riteneva sussistere «la lesione del vincolo fiduciario idonea a fondare la giusta causa di licenziamento non ravvisandosi, in relazione al meccanismo di controllo delle spese di trasferta adottato dalla Società in una logica di contemperamento tra le esigenze immediate di rimborso del personale e le esigenze aziendali di accurata verifica delle richieste di rimborso, né la tardività della contestazione, né la lesione dell'affidamento del dipendente circa l'irrilevanza disciplinare delle condotte e rilevando, viceversa, queste nel senso di avvalorare il carattere doloso dell'artificiosa predisposizione delle richieste».
Per la cassazione della sentenza ricorreva il lavoratore eccependo, tra il resto, «la violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, imputando alla Corte territoriale una lettura del predetto principio in un'ottica del tutto soggettivistica che, in quanto tesa a favorire l'esercizio dei poteri datoriali di controllo, finisce per rendere subalterne le garanzie di certezza delle regole disciplinari e di effettività del contraddittorio da ritenersi viceversa prioritariamente considerate nell'affermazione del principio medesimo».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che nella specie è stato «correttamente applicato il principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, anche riguardato sotto il peculiare profilo della tempestività della contestazione disciplinare». La Società, infatti, ha contestato il fatto disciplinarmente rilevante ad esito di un accertamento, non solo più vasto di quello che avrebbe richiesto l'esecuzione del normale controllo a campione, ma anche più accurato, fino ad implicare l'assunzione di informazioni presso gli stessi esercizi ove erano state effettuate quelle spese. Dai suddetti elementi la Corte territoriale ha fatto correttamente discendere «la legittimità, anche sotto il profilo della tutela dell'affidamento, del controllo involgente ben tredici mesi e l'irrilevanza, ai fini del giudizio di tempestività della contestazione, del tempo decorso per lo svolgimento del peculiare tipo di indagine». In particolare, è stato evidenziato che era certamente tempestiva la contestazione relativa ad un pernottamento del lavoratore presso un hotel anche se avvenuto diversi mesi prima, in quanto il fatto è stato conosciuto dalla Società solo pochi giorni prima della contestazione, e cioè al momento della ricezione della relativa fattura, che per di più contrastava con l'autodichiarazione resa dal dipendente a suo tempo. Da ciò, la Corte territoriale ha accertato correttamente la sussistenza della giusta causa, essendo emerso anche il carattere fraudolento della condotta del ricorrente.

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