Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giusta causa
Malattia professionale tabellata: nesso causale e onere della prova
Impugnazione di contratto a termine
Nozione di contratto aziendale
Valutazione del grado di autonomia e assegnazione del corretto inquadramento contrattuale

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 7 maggio 2020, n. 8621

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. M. E.; Controric. U. I. M. S.r.l.

Giusta causa - Tipizzazione nel CCNL delle sanzioni conservative - Riconducibilità "precisa" della condotta - Necessità - Interpretazione estensiva - Esclusione

Solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà illegittimo (ed anche meritevole della tutela reintegratoria prevista novellato dalla L. n. 92 del 2012, articolo 18, comma 4).
NOTA
Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa, per aver omesso di informare i propri superiori della sistematica manomissione di alcuni dispositivi di sicurezza nella catena di produzione, da parte di altri dipendenti dallo stesso coordinati, nel suo ruolo di "Responsabile del coordinamento degli addetti al reparto (quindi, anche dei carrellisti)".
La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, respingeva la domanda di annullamento del licenziamento intimato al lavoratore, accertando che quest'ultimo era consapevole delle manomissioni effettuate da parte dei carrellisti sui dispositivi di rallentamento di velocità dei carrelli, ed aveva omesso di informare di tali fatti il superiore gerarchico ed il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.
Secondo la Corte d'Appello, avendo rilevanza sia il ruolo di responsabilità assegnato al lavoratore, sia le conseguenze derivanti dalla disattivazione del sistema di sicurezza dell'impianto, doveva escludersi "la riconducibilità della condotta nell'ambito delle infrazioni punite, dall'articolo 69 del c.c.n.l. Industria Alimentare, con sanzione conservativa, non ricorrendo una mera colpa lieve ossia una mancata "tempestiva" informazione del superiore della esistenza di guasti o irregolarità di funzionamento (da ritenersi isolati, fortuiti ed occasionali nell'intenzione delle parti sociali) bensì una mancata comunicazione di plurime e sistematiche manomissioni di un sistema di sicurezza introdotto per salvaguardare l'incolumità dei lavoratori".
Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione degli artt. 69 e 70 del C.c.n.l. settore Industria Alimentare, e degli artt. 1362, 1363, 1364, 1366, 1367, 1369 e 2119 cod. civ., poiché la sentenza della Corte di Appello aveva erroneamente ricondotto la fattispecie nell'art. 70 del citato C.c.n.l., nonostante potesse essere punita con sanzione espulsiva solamente la condotta attiva di manomissione di dispositivi infortunistici, ben distinta dalla mera omissione di informativa di un evidente malfunzionamento di un macchinario.
La Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore ricordando che nell'effettuare la verifica di "particolare gravità" della condotta i giudici d'appello hanno correttamente rilevato che il comportamento posto a base del licenziamento era di una gravità tale, sia per il ruolo rivestito dal lavoratore che per le sue mansioni di Responsabile del coordinamento degli addetti al reparto (quindi, anche dei carrellisti) e del loro operato, sia per le conseguenze che potevano derivare (ed in effetti sono derivate) dalla disattivazione del sistema di rallentamento del carrello a forche alzate sulla sicurezza dei lavoratori, da configurare un grave inadempimento ai propri obblighi contrattuali e idoneo a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario che deve legare necessariamente il datore di lavoro ed, in particolare, la fiducia del primo sulla correttezza dei futuri adempimenti del secondo.
Pertanto, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito che ha escluso l'applicazione al caso in esame della sanzione conservativa prevista dall'art. 69 C.c.n.l. settore Industria Alimentare, che disciplina la mancata tempestiva informazione del superiore dell'esistenza di guasti e irregolarità di funzionamento (eventi del tutto fortuiti ed occasionali), e, dunque, ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa del capo reparto che non ha informato i superiori della sistematica manomissione del sistema di sicurezza dell'impianto da parte dei carrellasti dallo stesso coordinati.
Si tratta, infatti, di una condotta di "particolare gravità", che mette a rischio l'incolumità di tutti i dipendenti e dell'intera linea produttiva, e come tale è da configurarsi quale grave inadempimento agli obblighi contrattuali, e da ritenersi idonea a ledere il vincolo fiduciario, anche in considerazione del ruolo di responsabile rivestito del lavoratore.

Malattia professionale tabellata: nesso causale e onere della prova

Cass. Sez. Lav. ord. 14 maggio 2020, n. 8947

Pres. D'Antonio; Rel. Boghetich; Ric. M.E.; Controric. I.N.A.I.L.

Malattia tabellata – Onere della prova – Adibizione lavorazione nociva tabellata - Nesso eziologico - Presunzione origine professionale – Sussistenza - Lavorazione non tabellata – Onere della prova – Nesso causale - Ragionevole probabilità scientifica.

Nel caso in cui la specifica malattia sia inclusa nella tabella di cui al D.lgs. n. 38 del 2000, al lavoratore basterà provare la malattia e l'adibizione alla lavorazione nociva affinché il nesso eziologico tra i due termini sia presunto per legge, presunzione in ogni caso non assoluta, rimanendo la possibilità per l'INAIL di provare una diagnosi differenziale, ossia di fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione legale dimostrando l'intervento causale di fattori patogeni extralavorativi. Diversamente, in tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e il nesso causale tra l'attività lavorativa e il danno alla salute deve essere valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Genova confermava la decisione resa dal Tribunale di La Spezia e rigettava la domanda proposta dal lavoratore nei confronti dell'INAIL per l'accertamento dell'origine professionale della patologia sofferta e la condanna alla costituzione di una rendita avendo svolto l'attività di impiegato tecnico addetto alla produzione e programmazione di munizionamento per apparati e mezzi militari.
La Corte d'Appello riteneva, alla luce di una rinnovata consulenza tecnica d'ufficio, non sufficientemente provata l'origine professionale della patologia in considerazione della mancata presunzione di origine professionale della specifica malattia sofferta dal lavoratore ed a fronte della previsione, generica e di carattere residuale, contenuta nel d.m. 9 aprile 2008, di "altre malattie" correlate all'esposizione alle sostanze a cui era stato soggetto il ricorrente e cioè derivati alogenati e/o nitrici degli idrocarburi aromatici da arsenico e da piombo.
Per la cassazione della sentenza ricorreva il lavoratore «per avere la corte negato la presunzione di origine professionale della malattia (tumore al rene) in relazione alle previsioni della tabella ex art. 139 T.U. pur avendo verificato che la stessa tabella prevedesse che l'esposizione alle sostanze nocive indicate dal lavoratore (idrocarburi aromatici, da arsenico e da piombo) potesse provocare "altre malattie", invertendo erroneamente l'onere della prova della sussistenza del nesso causale con l'agente patogeno tabellato».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso chiarendo che «la previsione in tabella D.lgs. n. 38 del 2000, ex art. 139 e 10, di una attività lavorativa come fattore che con elevata probabilità può cagionare una specifica malattia va considerata nell'ottica non della presunzione di origine professionale e dell'inversione dell'onere della prova, ma della rilevanza probatoria e dell'assolvimento del carico probatorio, talché in tal caso il lavoratore non deve anche fornire la prova delle singole sostanze a cui è stato esposto nel corso dell'attività di lavoro, essendo tale prova assorbita da quella dello svolgimento dell'attività inclusa nella tabella». La Corte ha, quindi, ribadito che, ove la specifica malattia sia inclusa nella tabella, al lavoratore basterà provare la malattia e l'adibizione alla lavorazione nociva affinché il nesso eziologico tra i due termini sia presunto per legge, presunzione in ogni caso non assoluta, rimanendo la possibilità per l'INAIL di provare una diagnosi differenziale; diversamente in tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore e il nesso causale tra l'attività lavorativa e il danno alla salute dev'essere valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica.
La Corte di legittimità ha rigettato il ricorso rilevando che nel caso di specie «la previsione in tabella della nocività dei fattori patogeni indicati dal ricorrente non era correlata alla specifica patologia tumorale sofferta dall'assicurato bensì all'insorgenza di "altre malattie" e non potendosi, dunque, ritenere sussistente, in via presuntiva, un nesso causale tra l'esposizione subita e la malattia».

Impugnazione di contratto a termine

Cass. Sez. Lav. ord. 4 maggio 2020, n. 8443

Pres. Torrice; Rel. Spena; Ric. P.A.T.; Controric. D.D.P.

Contratto a termine - Impugnazione - Decadenza ex art. 32 L. 183/2010 - Eccezione di parte - Onere della prova della tempestività dell'impugnazione a carico del lavoratore - Sussiste - Decorrenza - Dal momento dell'eccezione del datore di lavoro - Necessità

La decadenza di cui all'articolo 32 della L. 183/2010 è rilevabile soltanto su eccezione di parte, trattandosi di diritto disponibile. Ne consegue che soltanto dal momento della costituzione del convenuto-datore di lavoro e per effetto della proposizione della relativa eccezione (e non sin dal momento del deposito del ricorso introduttivo) sorge l'onere del lavoratore-ricorrente di documentare la spedizione tempestiva della raccomandata di impugnazione stragiudiziale del termine.
NOTA
La Corte d'Appello di Trento confermava la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da una lavoratrice, assunta a termine da una Provincia, dichiarando la nullità della proroga del termine disposta dalla datrice di lavoro, con condanna della stessa al risarcimento del danno.
In particolare, con la pronuncia in commento, la Corte territoriale, oltre ad accertare la nullità della proroga del termine, aveva altresì concluso per il rigetto, in via preliminare, dell'eccezione di decadenza ex art. 32 L. 183/2010, che la datrice di lavoro aveva formulato per tardività dell'impugnazione stragiudiziale.
La Provincia aveva infatti eccepito che la copia del documento di ricevimento della raccomandata prodotta dalla lavoratrice era illeggibile, che sulla stessa non risultava il nome del mittente e che, pertanto, la mancanza di entrambi tali elementi aveva reso impossibile l'accertamento del fatto che la raccomandata contenesse la nota di impugnazione stragiudiziale. La Provincia aveva inoltre eccepito che la produzione in giudizio dell'originale dell'avviso di ricevimento della raccomandata era tardiva.
La Corte territoriale, smentendo l'assunto della Provincia, aveva al contrario ritenuto che la produzione dell'originale dell'atto di impugnazione del termine non solo era tempestiva rispetto all'eccezione formulata in giudizio da parte convenuta, ma che la stessa «era infondata anche nel merito, in quanto spettava al destinatario l'onere di provare che la raccomandata non conteneva alcuna comunicazione o che, comunque, conteneva una comunicazione diversa».
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione la Provincia che, in particolare, censurava la sentenza impugnata per aver rigettato l'eccezione di decadenza dall'impugnazione del termine, posto che «nessuna efficacia sanante poteva assumere la produzione tardiva dell'originale dell'avviso di ricevimento ("prova di consegna") della raccomandata, in quanto la ricorrente avrebbe dovuto provvedere alla produzione sin dal deposito del ricorso di primo grado».
La Suprema Corte ha ritenuto infondato tale motivo di ricorso ricordando il principio di cui alla massima e, dunque, che l'onere per la lavoratrice di provare la spedizione tempestiva della raccomandata di impugnazione stragiudiziale sorge solo a seguito ed in conseguenza della formulazione in giudizio dell'eccezione di decadenza di cui all'art. 32 L. 183/2010 (e non sin dal momento del deposito del ricorso), trattandosi di eccezione rilevabile solo su istanza di parte, in quanto diritto disponibile (Cass. n. 349 del 10/1/2017; Cass. n. 19406 del 23/9/2011 e Cass. n. 11180 del 29/7/2002).
Conseguentemente, ad avviso della Corte, risulta priva di rilievo la circostanza che la copia dell'avviso di ricevimento prodotta con il ricorso introduttivo del giudizio fosse illeggibile.
Inoltre, la Suprema Corte ha ricordato, da un lato, che, in mancanza di prova contraria da parte della Provincia circa il contenuto del documento notificatole, deve trovare applicazione il principio di «presunzione della coincidenza di contenuto tra l'atto prodotto dalla parte e quello ricevuto dalla controparte a mezzo raccomandata (salva la prova da parte del destinatario del contenuto diverso da quanto ricevuto»), dall'altro, che il momento rilevante ai fini dell'impedimento della decadenza di cui all'art. 32 L. 183/2010 è la spedizione della raccomandata di impugnazione stragiudiziale ed è a tale data che occorre fare riferimento per la verifica del rispetto del termine di sessanta giorni fissato dalla norma (Cass. n. 24149 del 3/10/2018; Cass. n. 22687 del 28/9/2017; Cass. n. 10630 del 22/5/2015; Cass. n. 23920/2013 e Cass. n. 15762/2013).
Sulla scorta di tali considerazioni la Corte di Cassazione ha quindi concluso per il rigetto di tale motivo di impugnazione.

Nozione di contratto aziendale

Cass. Ord. Lav. 28 Aprile 2020, n. 8265

Pres. Manna; Rel. Calafiore; Ric. W; Controric. Inps

Contratti aziendali - Nozione - Contratti stipulati dal datore e da un rappresentante dei lavoratori non sindacalista senza il tramite di un'organizzazione sindacale – Esclusione - Premi di risultato - Decontribuzione ex art. 2 dl 67/1997 conv. nella l. 135/1997 - Non spetta

La nozione di contratto collettivo aziendale, richiesto per l'operatività del beneficio contributivo disciplinato dall'intero D.L. n. 67 del 1997, art. 2 conv. in L. n. 135 del 1997 per la retribuzione di risultato, deve essere mutuata dall'ordinamento sindacale. In particolare, per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, per contratto aziendale si deve intendere un atto di autonomia generale che, concernendo una collettività di lavoratori indistintamente considerati e soggettivamente non identificati col contratto stesso, se non attraverso il loro inserimento nella organizzazione aziendale, realizza una uniforme disciplina nell'interesse collettivo di costoro; pertanto, laddove il contratto sia stipulato senza il tramite di organizzazione sindacale (ossia da un rappresentante dei lavoratori non sindacalista ed il datore di lavoro), si realizza una ipotesi di contratto plurimo, inteso come somma di contratti individuali identici, ma non sindacale
NOTA
Con la sentenza in epigrafe, la S.C. torna a pronunciarsi sui requisiti minimi - soggettivi ed oggettivi - che un contratto, stipulato a livello aziendale, deve possedere perché il datore di lavoro possa giovare della decontribuzione per la retribuzione di risultato prevista dal D.L. n. 67 del 1997, art. 2, convertito nella L. 135 del 1997
Questi i fatti di causa. L'INPS notificava alla società W. una cartella per il pagamento di differenze sulla contribuzione dovuta per alcuni premi di risultato, erogati in esecuzione di un accordo aziendale sottoscritto dalla società solo con un rappresentante dei lavoratori (e non con un'organizzazione sindacale). Secondo l'ente previdenziale, in particolare, l'accordo non integrava i requisiti richiesti per la fruizione della decontribuzione prevista dalla norma citata, stante l'assenza di rappresentatività sindacale del soggetto firmatario per i lavoratori. L'art. 2 summenzionato (peraltro oggi abrogato dalla L. n. 247 del 2007), infatti, se indubbiamente ebbe a prevedere un rilevante sgravio contributivo per il datore di lavoro, escludendo dalla retribuzione imponibile a fini previdenziali la retribuzione di risultato, di fatto circoscrisse simile beneficio alla sola retribuzione disciplinata da contratti collettivi aziendali, intesi in senso stretto.
Adita l'autorità giudiziaria, la cartella previdenziale venne dapprima annullata dal Tribunale di Forlì per poi, successivamente, essere riabilitata in sede di gravame.
In particolare, secondo la Corte di Appello di Bologna, il contratto stipulato dalla società W. con un rappresentante dei lavoratori non presentava i requisiti soggettivi ed oggettivi necessari per essere considerato contratto aziendale ai sensi e per gli effetti del DL n. 67 del 1997. Il contratto aziendale, infatti, è un atto di autonomia generale che, concernendo una collettività di lavoratori indistintamente considerati e soggettivamente non identificati col contratto stesso, se non attraverso il loro inserimento nella organizzazione aziendale, realizza una uniforme disciplina nell'interesse collettivo di costoro; con la conseguenza che laddove, come nel caso di specie, il contratto sia stipulato senza il tramite di una organizzazione sindacale, si realizza una ipotesi di contratto plurimo, inteso come somma di contratti individuali identici, ma non sindacale.
Avverso tale decisione la società W. presentava ricorso per cassazione affidato, sostanzialmente, ad un unico motivo. Secondo la società ricorrente, in particolare, la Corte d'appello aveva escluso l'applicazione della decontribuzione di cui al D.L. n. 67 del 1997, art. 2, ai premi di produzione stabiliti nel contratto firmato a livello aziendale in modo del tutto arbitrario: la disposizione, infatti, in applicazione dell'art. 39 Cost. in tema di libertà sindacale, non poneva alcuna regola in ordine alla tipologia di fonti sindacali abilitate ad accedere al beneficio contributivo per le erogazioni premiali in esse previste.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. rigetta il ricorso. Secondo i Giudici di legittimità il contratto stipulato dalla società ricorrente con il rappresentante dei lavoratori, stante l' assenza di rappresentatività dello stesso, non integra gli estremi di un contratto aziendale utile per accedere al beneficio contributivo previsto dal DL n. 67/1997.
E, infatti, se non vi è dubbio che il legislatore del 1997 volle introdurre un sistema volto ad alleggerire il costo del lavoro puntando sull'incentivazione della maggiore produttività, è evidente che la scelta fu quella di subordinare l'operatività di un simile beneficio alla presenza di requisiti molto stringenti.
In particolare, fu imposta dalla legge la presenza di un'alea legata alla attribuzione del premio, delegando alla negoziazione collettiva il compito di individuarne nel concreto i parametri; vi era obbligo di applicazione dei minimali retributivi stabiliti da CCNL ed era anche previsto l'obbligo di deposito del contratto collettivo decentrato presso gli uffici del lavoro. Tutti questi requisiti vennero imposti dal legislatore al fine di evitare fenomeni collusivi tra le parti, non potendo negarsi l'esistenza di un comune interesse del lavoratore - che si vede riconosciuta una maggiore retribuzione netta - e dell'impresa - che affronta un minor costo del lavoro. Ed è sempre per evitare fenomeni collusivi che il legislatore affidò all'organismo sindacale decentrato la legittimazione a produrre la fonte costitutiva del diritto al premio di risultato e subordinò l'erogazione dell'emolumento, di cui erano incerti la corresponsione e l'ammontare, al deposito del testo del contratto aziendale presso gli uffici del lavoro.
Compresa dunque la ratio – specificamente legata al sistema previdenziale - che ha spinto il legislatore ad attribuire solo alla fonte sindacale il potere di incidere sulla regola generale della base contributiva (cd. base imponibile di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 12, comma 3, e successive modificazioni), risulta non pertinente, secondo la S.C., il richiamo ai principi regolatori della libertà di associazionismo sindacale di cui all'art. 39 Cost. o, ancora, ai principi espressi in materia di efficacia dei cd. usi negoziali, invocati nel ricorso della società; anzi, secondo la Corte, la ratio sottesa alla scelta legislativa impone una interpretazione restrittiva del testo di legge in esame.
Così – si legge nella sentenza - la Corte di appello ha correttamente ritenuto che gli accordi oggetto della controversia in esame (stipulati da un rappresentante dei lavoratori non sindacalista e dal datore di lavoro), hanno natura non di contratti collettivi aziendali ma di contratti individuali di lavoro, ancorché plurisoggettivi o plurilaterali. E, infatti, per orientamento conforme in sede di legittimità, quando si fa riferimento ad accordi collettivi aziendali non ci si riferisce ad una sommatoria di più contratti individuali ma ad atti di autonomia sindacale riguardanti una pluralità di lavoratori collettivamente considerati, e ai quali deve riconoscersi (anche e soprattutto in ragione dei rinvii che plurime disposizioni legislative operano alla contrattazione aziendale) efficacia vincolante analoga a quella del contratto collettivo nazionale. Il contratto collettivo aziendale, in altre parole, è solo quello posto a tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale e l'eventuale inscindibilità della disciplina che ne risulta concorre a giustificare sempre la sua efficacia erga omnes nei riguardi dei lavoratori dell'azienda.

Valutazione del grado di autonomia e assegnazione del corretto inquadramento contrattuale

Cass. Sez. Lav. 7 maggio 2020, n. 8619

Pres. Bronzini; Rel. Consigliere Garri; Ric. I.S.S.P.A.; Controric. S.P.;

Lavoro subordinato – Inquadramento Superiore – CCNL Credito – Distinzione gradi di autonomia – Qualifica di quadro di primo livello

Nell'ambito del CCNL credito affinché si abbia il diritto del lavoratore ad ottenere la qualifica superiore di quadro è necessaria la sussistenza di un elevato grado di autonomia e discrezionalità nell'impegnare l'azienda verso i terzi e nella direzione e coordinamento di altri dipendenti.
NOTA
Nella fattispecie in esame la Corte d'Appello di Venezia aveva confermato la decisione di primo grado che aveva accertato il diritto del lavoratore ad essere inquadrato nella categoria superiore del CCNL credito dei quadri di primo livello, con condanna del datore di lavoro alla corresponsione di somme a titolo di differenze retributive.
La Corte d'Appello, infatti, aveva accertato che il lavoratore - oltre ad avere mansioni di natura residuale da cassiere - operava nel settore del credito su pegno e che lo stesso era custode e magazziniere dei beni ricevuti, procedendo anche alla stima degli stessi entro il limite di Euro duemila. Aveva altresì accertato che il lavoratore fosse responsabile dell'attività svolta e aveva rilevato che alla declaratoria contrattuale di appartenenza del lavoratore l'autonomia riconosciuta al dipendente si esplicava nei limiti di circolari e regolamenti interni ed era priva della responsabilità diretta propria del perito in materia di erogazione del credito su pegno.
Conseguentemente la Corte territoriale aveva ritenuto corretto l'inquadramento nel livello superiore di quadro di primo livello richiesto dal lavoratore.
Contro tale decisione proponeva ricorso per Cassazione la società datrice di lavoro sulla base di vari motivi tra i quali, per quanto qui interessa, l'erronea sussunzione delle mansioni del lavoratore nell'inquadramento di quadro di primo livello per insussistenza dei relativi presupposti.
La Corte di Cassazione, in camera di consiglio, ha accolto tale doglianza, cassato la sentenza e rigettato l'originaria domanda.
La Cassazione ha affermato che la Corte territoriale aveva errato nel valutare le circostanze di fatto della fattispecie, trascurando di valutare il contesto organizzativo e ricostruendo le mansioni del lavoratore in maniera errata.
Secondo la declaratoria contrattuale, infatti, la mansione di quadro di primo livello del CCNL credito applicabile pro tempore si caratterizza per la stabile assegnazione a mansioni di elevata responsabilità funzionale e professionale, con elevate responsabilità nella direzione e coordinamento di altri dipendenti e poteri negoziali in rappresentanza della società datrice da esercitarsi anch'essi con autonomia e discrezionalità.
Secondo la Suprema Corte, invece, la limitata autonomia e discrezionalità in capo al lavoratore era inquadrata entro limiti precisi fissati da circolari e regolamenti aziendali e, come tale, rientrava nella qualifica già posseduta dallo stesso di assistente alla clientela con mansioni di perito estimatore.
Difettavano del tutto al profilo del lavoratore, ha poi aggiunto la Cassazione, la responsabilità elevata nella direzione e coordinamento degli altri dipendenti oltre che l'autonomia e discrezionalità nell'impegnare l'azienda verso i terzi, considerato il limitato ambito di operatività del lavoratore, proprie della declaratoria contrattuale dei quadri di primo livello.

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