Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro di un aiutante occasionale a titolo gratuito
Trasferimento d'azienda nullo
Licenziamento per giusta causa/1
Licenziamento per giusta causa/2
Licenziamento collettivo e interpretazione di un accordo sindacale


Infortunio sul lavoro di un aiutante occasionale a titolo gratuito

Cass. Sez. Lav. ord. 12 maggio 2020, n. 8791

Pres. Bronzini; Rel. De Gregorio; Ric. P.P.; Controric. R.S.D. S.r.l.
Sicurezza sul lavoro - Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Assenza di rapporto di lavoro - Insussistenza - Fattispecie

Non sussiste la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. a carico dell'azienda al cui interno si verifichi un grave incidente ai danni di una persona che abbia per errore ingerito acido muriatico nel caso in cui la vittima non sia un dipendente, ma un amico dei titolari che occasionalmente si rechi nei locali dell'azienda per svolgere delle attività a titolo gratuito. Si tratta, infatti, di un soggetto che non era creditore di informative sui pericoli connessi ad un ambiente di lavoro a cui è estraneo, essendo bensì tenuto alla normale prudenza e cautela che fa carico ad ogni consociato in ogni aspetto del vivere civile.
NOTA
Un pensionato che svolgeva dei lavoretti occasionali per un'azienda, legato da un vincolo amicale con i proprietari di quest'ultima, ingeriva involontariamente ed in maniera accidentale, dell'acido muriatico contenuto all'interno di una bottiglia di acqua frizzante trovata su una mensola dei locali dell'azienda stessa. Domandava, quindi, al Tribunale del lavoro di Bologna, previo accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ovvero autonomo con l'azienda, il risarcimento dei danni patrimoniali e non, subiti per effetto dell'infortunio, ai sensi dell'articolo 2087 c.c. A seguito del rigetto della domanda da parte del Tribunale, il ricorrente impugnava la sentenza davanti alla Corte d'appello di Bologna che confermava l'esito del primo grado.
La sentenza della Corte d'appello veniva, quindi, impugnata dall'erede del ricorrente, ormai defunto.
La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso, confermava l'insussistenza di alcun rapporto di lavoro tra il ricorrente e l'azienda convenuta stante la «assoluta episodicità e occasionalità ed il carattere puramente amicale e per diporto della presenza del pensionato presso i locali dell'esercizio». Poiché, infatti, «tali circostanze di netta discontinuità e discrezionalità non consentivano di ritenere integrata neppure una forma di collaborazione parasubordinata ovvero autonoma in via di fatto nei rapporti tra le parti in difetto di prova di un qualsivoglia coordinamento dei saltuari "lavoretti" o "servizi" prestati con l'attività aziendale» non poteva sussistere in capo alla convenuta alcuna responsabilità ex art. 2087 cod. civ. per l'accidentale ingestione da parte del pensionato dell'acido muriatico, in quanto essendo egli estraneo all'ambiente di lavoro, non poteva essere «creditore di informative sui pericoli connessi» all'azienda, motivando come nella massima sopra riportata.

Trasferimento d'azienda nullo

Cass. Sez. Lav. ord. 14 maggio 2020, n. 8951

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; Ric. I.L. + 5; Controric. V. S.p.A.

Trasferimento ramo d'azienda – Nullità – Ripristino rapporto di lavoro con il cedente – Tempestiva messa a disposizione della prestazione lavorativa – Inadempimento del datore di lavoro – Crediti del dipendente – Obbligazione retributiva – Sussistenza – Compensazione con retribuzione pagata dal cessionario – Inapplicabilità

In caso di cessione di ramo d'azienda, ove venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., le retribuzioni corrisposte dal cessionario, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore dopo che questi abbia messo a disposizione le proprie energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, sosteneva che, nell'ipotesi di dichiarata nullità della cessione di ramo d'azienda, l'omesso ripristino della funzionalità dei rapporti di lavoro da parte del cedente, a fronte di una tempestiva messa a disposizione delle energie lavorative da parte dei lavoratori, rilevasse esclusivamente in termini risarcitori e non, invece, sul piano dell'omessa corresponsione delle retribuzioni.
I lavoratori proponevano ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo che la Corte d'Appello avesse erroneamente valutato la portata della pronuncia di primo grado, con cui la società cedente era stata condannata al "ripristino della concreta funzionalità del rapporto di lavoro".
La Corte di cassazione accoglie il ricorso, dando atto dell'intervenuto mutamento giurisprudenziale quanto alla qualificazione non risarcitoria, ma retributiva, dell'obbligazione del cedente a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo d'azienda (in senso conforme, Cass. 3 luglio 2019, n. 17784; Cass. 3 luglio 2019, n. 17786; Cass. 7 agosto 2019, n. 21158; Cass. 7 agosto 2019, n. 21160; Cass. 11 novembre 2019, n. 29092) con un'ampia motivazione qui di seguito sintetizzata.
Il dipendente ha diritto alla retribuzione sia nel caso in cui svolga effettivamente la prestazione, sia qualora si offra di renderla, ponendo così il datore di lavoro in una situazione di mora accipiendi (in senso conforme, Cass. 23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008, n. 20316). In altre parole, una volta che il lavoratore abbia offerto la propria prestazione lavorativa, il rifiuto ingiustificato da parte del datore di lavoro rende la messa a disposizione delle energie lavorative equiparabile all'utilizzazione effettiva della prestazione, con la conseguenza che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere la retribuzione.
Questo principio di diritto – applicato al caso di trasferimento di ramo d'azienda poi dichiarato nullo – ha come conseguenza che la retribuzione che il lavoratore ha percepito in ragione dello svolgimento di attività lavorativa a favore del cessionario dopo la declaratoria di nullità debba cumularsi con quella dovuta dall'azienda cedente. Né tale prestazione lavorativa resa in via di fatto per il cessionario esclude la configurabilità di una valida offerta di prestazione dal lavoratore al cedente (in senso conforme, Cass. 8 aprile 2019, n. 9747).
Acclarato che, dopo la sentenza che ha dichiarato la nullità del trasferimento del ramo d'azienda e dopo la messa in mora operata dal lavoratore, la società cedente sia tenuta a pagare la retribuzione e non a risarcire un danno, non è possibile considerare tale obbligazione pecuniaria estinta, in tutto o in parte, con il pagamento della retribuzione da parte del cessionario.
Tale conclusione, che vede una duplicità di rapporti (di fatto con il cessionario e di diritto con il cedente) è coerente con l'interpretazione costituzionalmente orientata propugnata dalla Corte Costituzionale nella sentenza dell'11 novembre 2011, n. 303, e posta a fondamento del revirement giurisprudenziale operato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza del 7 febbraio 2018, n. 2990.

Licenziamento per giusta causa/1

Cass. Sez. Lav. 12 maggio 2020, n. 8803

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. L.I. S.r.l.; Controric. G.A.

Licenziamento per giusta causa - Contestazione di addebiti - Tempestività - Carattere relativo del principio – Fatto contestato a distanza unitamente ad altri - Valutazione della complessiva gravità – Sussiste

Il principio dell'immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 Statuto Lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza resa in sede di opposizione, aveva escluso la sussistenza della giusta causa di licenziamento, ritenendo che in ragione della tardività della contestazione disciplinare con riferimento al primo fatto addebitato, questo dovesse considerarsi tanquam non esset e dunque irrilevante ai fini della valutazione della condotta del dipendente. Aveva quindi ritenuto che il secondo fatto oggetto della medesima contestazione disciplinare non fosse di gravità tale da legittimare il recesso per giusta causa.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il datore di lavoro, eccependo vari motivi di ricorso.
In particolare, il datore di lavoro censurava la sentenza per non aver considerato la relatività del requisito della tempestività della contestazione disciplinare e l'assenza di profili lesivi per la difesa della dipendente.
La Suprema Corte ha accolto tale motivo di ricorso, chiarendo che anche i fatti non tempestivamente contestati possono essere considerati quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti ai fini della valutazione della complessiva gravità, anche sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del dipendente e della proporzionalità o meno della sanzione disciplinare.
In ossequio al proprio consolidato orientamento, la Corte di Cassazione ha quindi ribadito che «il principio dell'immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 Statuto Lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro».
La Suprema Corte ha quindi rilevato che tali considerazioni operano anche nel caso, come quello di specie, in cui i comportamenti disciplinarmente rilevanti siano stati contestati benché in ritardo e unitamente all'ultimo fatto da sanzionare.
Ha quindi ribadito, richiamando propri precedenti, che «il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito va inteso in senso relativo - essendo compatibile con un certo intervallo di tempo necessario al datore di lavoro per una valutazione unitaria delle varie inadempienze del dipendente».
Alla luce di tali principi la sentenza della Corte di Appello è stata quindi cassata con rinvio.

Licenziamento per giusta causa/2

Cass. Sez. Lav. 12 maggio 2020, n. 8798

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. C.S.; Controric. P. S.p.A.

Lavoro subordinato – Licenziamento - Giusta causa - Fattispecie: responsabile di filiale che compie operazioni irregolari coinvolgendo colleghi - Legittimità

È legittimo il licenziamento per giusta causa del responsabile di una filiale delle poste che abbia posto in essere una pluralità di operazioni irregolari volte all'emissione di un vaglia postale senza immediato versamento della provvista, mediante il coinvolgimento spontaneo di altri dipendenti di cui aveva carpito la fiducia.
NOTA
Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa per aver posto in essere una pluralità di operazioni irregolari volte all'emissione di un vaglia postale senza immediato versamento della provvista, mediante il coinvolgimento spontaneo di altre dipendenti di cui ha carpito la fiducia. Avverso il licenziamento, il lavoratore proponeva ricorso ai sensi della legge Fornero e il Tribunale, in sede di opposizione, accoglieva parzialmente il ricorso derubricando il provvedimento espulsivo per giusta causa della Società in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
La Corte di appello, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale accertava invece la sussistenza della giusta causa del licenziamento respingendo il reclamo proposto dal lavoratore e rilevando che i fatti, pienamente accertati in sede istruttoria (di fonte testimoniale e documentale), dovevano ritenersi integrare gli estremi della giusta causa, essendo emerso che il lavoratore, pur di far fronte ad un proprio debito personale, non aveva esitato a porre in essere e a far porre in essere una serie di operazioni contrarie alle leggi, regolamenti e doveri di ufficio, carpendo la fiducia riposta nei suoi confronti dagli altri colleghi in ragione sia della stima nutrita sia della posizione sovraordinata e di responsabilità rivestita in azienda.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso il lavoratore ma la Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento ai sensi dell'art. 54, c. 6, lett. c) del CCNL applicato dalla Società - secondo cui «per violazioni dolose di leggi o regolamenti o dei doveri d'ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi (…)» - rilevano, da un lato, il "dolo generico" (da intendersi non come intento di conseguire una determinata finalità ma come elemento psicologico che ha sorretto il comportamento tale da far prevedere presumibilmente analoghi futuri comportamenti) e dall'altro, la mera potenzialità dannosa della condotta contestata. Pertanto, al fine di valutare, la proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione irrogata, deve naturalmente valutarsi se gli inadempimenti siano stati tali, sia sotto il profilo oggettivo sia soggettivo, da ledere in maniera irreversibile il rapporto fiduciario che deve permanere tra il datore di lavoro e il lavoratore.
Sulla scorta di tale ragionamento, per la Cassazione la Corte territoriale aveva correttamente accertato la complessità dei comportamenti tenuti dal lavoratore consistenti non solo nel compimento di operazioni irregolari poste in essere con la consapevolezza di non avere la necessaria provvista per ottenere l'emissione del vaglia, ma altresì nell'aver carpito, senza alcuno scrupolo, la fiducia di tre colleghi indotti ad assecondarlo in considerazione dell'ascendente esercitato dal collega per il ruolo di responsabilità ricoperto in azienda e per la fiducia nello stesso riposta; per queste ragioni il licenziamento per giusta causa doveva considerarsi legittimo.

Licenziamento collettivo e interpretazione di un accordo sindacale

Cass. Sez. Lav. 6 aprile 2020, n. 7702

Pres. Di Cerbo; Rel. Raimondi; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.R.; Contr. S. S.r.l.;

Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Accordo sindacale – Criterio del possesso dei requisiti di età e contribuzione – Interpretazione letterale – Solo lavoratori che maturano condizioni per pensione di vecchiaia – Lavoratori in possesso dei requisiti per pensione anzianità – Esclusione

In presenza di un'interpretazione del contenuto di un accordo sindacale – appannaggio esclusivo delle corti di merito e, quindi, non sindacabile in sede di legittimità – che sia ben plausibile, in quanto sorretta da congrua motivazione ed esente da vizi logici o giuridici del giudice di merito (non essendo necessario, peraltro, che essa sia l'unica possibile o la migliore in astratto), non può darsi ingresso ad una sostanziale sollecitazione a revisione del merito, discendente dalla contrapposizione di una interpretazione dei fatti propria della parte a quella della Corte territoriale.
Il "tenore letterale dell'accordo" è il criterio ermeneutico che deve prevalere quando riveli con chiarezza ed univocità la volontà comune delle parti, sicché non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento effettivo dei contraenti.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto da un lavoratore che aveva impugnato la sentenza resa nel giudizio di opposizione ad ordinanza Fornero con la quale il Tribunale di Frosinone aveva, da un lato, accertato l'illegittimità del licenziamento subìto dal lavoratore nell'ambito di un licenziamento collettivo conclusosi con un accordo sindacale, dall'altro lato, condannato il datore di lavoro ad un'indennità risarcitoria dichiarando risolto il rapporto di lavoro inter partes.
In particolare, la Corte territoriale aveva respinto la tesi del lavoratore secondo la quale, quanto al criterio del pensionamento, l'accordo sindacale doveva interpretarsi nel senso che esso comprendeva non solo i lavoratori suscettibili di maturare le condizioni per la pensione di vecchiaia, ma anche coloro in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità. La Corte d'Appello di Roma, basandosi sul tenore letterale dell'accordo, affermava che fosse necessaria la contemporanea presenza dei requisiti di età e di contribuzione respingendo la tesi del lavoratore secondo la quale una previsione riferita ai soli lavoratori in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia sarebbe stata inutile, non essendovi lavoratori in tale condizione.
Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, ritiene condivisibile il ragionamento della Corte territoriale, affermando che il lavoratore contrappone la sua lettura dell'accordo – basata essenzialmente sulla necessità, in tesi, di intendere la congiunzione "e", che lega il requisito dell'età a quello contributivo nella definizione del criterio "pensionistico" per l'individuazione degli esuberi, come se invece si trattasse di una "o" – a quella della Corte territoriale, che, nel ritenere necessaria per il funzionamento del criterio "pensionistico" la compresenza del requisito di età e di quello contributivo, si è basata sul tenore letterale dell'accordo.
La Corte di Cassazione, inoltre, precisa che «la doglianza del lavoratore consiste in una diversa interpretazione del contenuto dell'accordo aziendale in questione e quindi del risultato interpretativo in sé, ma che, tuttavia, esso spetta esclusivamente al giudice di merito ed è pertanto insindacabile in sede di legittimità, qualora sorretto da congrua motivazione, esente da vizi logici o giuridici, come appunto nel caso di specie. Né, d'altro canto, in presenza di un'interpretazione ben plausibile del giudice di merito neppure essendo necessario che essa sia l'unica possibile o la migliore in astratto, può darsi ingresso ad una sostanziale sollecitazione a revisione del merito, discendente dalla contrapposizione di una interpretazione dei fatti propria della parte a quella della Corte territoriale».
Conclude la Suprema Corte affermando che – con riferimento al caso di specie – l'interpretazione contestata dal lavoratore «è stata giustificata sulla base del "tenore letterale dell'accordo" e, pertanto, del criterio ermeneutico che deve prevalere quando riveli con chiarezza ed univocità la volontà comune delle parti, sicché non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e l'intento effettivo dei contraenti».
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore viene respinto.

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