Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Durata del patto di prova
Malattia professionale e termine prescrizionale
Trasferimento d'azienda in crisi e licenziamento collettivo
Licenziamento per giusta causa
Oggetto del patto di non concorrenza

Durata del patto di prova

Cass. Sez. Lav. ord. 26 maggio 2020, n. 9789

Pres. Berrino; Rel. Blasutto; Ric. P.A.; Controric. S. S.p.A.

Patto di prova - Durata superiore a quella del CCNL - Validità - Condizioni - Onere della prova - Datore di lavoro – Sussiste

La clausola del contratto individuale con cui il patto di prova è fissato in un termine maggiore di quello stabilito dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, secondo comma cod. civ., salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore, con onere probatorio gravante sul datore di lavoro.
NOTA
La Corte di Appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Parma che aveva respinto la domanda proposta dal ricorrente nei confronti della società datrice di lavoro avente ad oggetto l'accertamento della nullità del patto di prova del proprio contratto di lavoro in quanto la sua durata era superiore a quella prevista, per la qualifica del ricorrente, dal CCNL applicato al rapporto.
Il ricorrente, pertanto, impugnava anche la sentenza di secondo grado.
La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso del ricorrente afferma che «la clausola del contratto individuale di lavoro con cui sia previsto un periodo di prova di durata maggiore di quella massima prevista dal contratto collettivo applicabile al rapporto - fermo restando il limite di sei mesi di cui all'art. 10 della legge n. 604 del 1966 - può ritenersi legittima solo nel caso in cui la particolare complessità delle mansioni di cui sia convenuto l'affidamento al lavoratore renda necessario, ai fini di un valido esperimento e nell'interesse di entrambe le parti, un periodo più lungo di quello ritenuto congruo dalle parti collettive per la normalità dei casi; il relativo onere probatorio ricade sul datore di lavoro, a cui la maggiore durata del periodo di prova attribuisce una più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della prova».
Conclude, quindi, la Corte di Cassazione, sostenendo che l'onere della forma scritta (c.d. ad substantiam) del patto di prova è stato imposto a tutela del contraente più debole in un regime di sfavore per il patto di prova, considerato come eccezionale rispetto alle condizioni protettive assicurate dal contratto a tempo indeterminato specialmente per quanto riguarda il recesso. Pertanto, «lo sfavore del legislatore verso il patto di prova trova pieno conforto nell'orientamento di questa Corte secondo cui il lavoratore ha interesse a che il periodo di prova sia minimo, o comunque non superi il tempo strettamente necessario alla verifica della sua capacità tecnico professionale (Cass.5 marzo 1982 n. 1354; Cass.25 ottobre 1993 n. 10587); da ciò discende, in linea di principio, la nullità dei patti diretti a prolungare la durata della prova rispetto a quanto determinato dalle parti sociali».

Malattia professionale e termine prescrizionale

Cass. Sez. Lav. 26 maggio 2020, n. 9802

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Celeste; Ric. B.P., S.B.T e B.L.; Controric. R.F.I. S.p.A.

Malattia professionale - Malattie tabellate - Esposizione all'amianto – Risarcimento del danno - Termine di prescrizione - Decorrenza – Conoscibilità dell'eziologia professionale

In tema di risarcimento del danno cagionato dall'inosservanza da parte del datore di lavoro dei doveri di protezione delle condizioni di lavoro posti a suo carico dall'art. 2087 c.c., la prescrizione decennale, operante nel caso in cui sia stata esercitata l'azione contrattuale, decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute apprezzabile, ma anche dell'origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili.
La Corte di Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda, proposta dagli eredi del de cuius, di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale in ragione della malattia professionale (mesotelioma) cagionata dall'esposizione all'amianto durante la vita professionale, dichiarando prescritto il diritto.
La Corte territoriale riteneva erronea, da parte del Tribunale, l'applicazione dei principi attinenti alla decorrenza della prescrizione, con riferimento al momento in cui l'origine professionale della malattia potesse ritenersi conoscibile oggettivamente da parte del lavoratore.
Avverso tale pronuncia hanno proposto ricorso gli eredi del de cuius, deducendo la violazione dei principi di allegazione e prova dell'exordium praescriptionis, ritenendo che la prescrizione dovesse decorrere dal momento della conoscenza soggettiva dell'eziologia professionale della malattia da parte del lavoratore.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso, ribadendo il principio già espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di risarcimento del danno cagionato dall'inosservanza, da parte del datore di lavoro, dei doveri di protezione delle condizioni di lavoro posti a suo carico dall'art. 2087 c.c., «la prescrizione decennale, operante nel caso in cui sia stata esercitata l'azione contrattuale, decorre dal momento in cui il lavoratore ha potuto acquisire piena consapevolezza non solo della malattia, con un danno alla salute apprezzabile, ma anche dell'origine professionale della stessa, indipendentemente da valutazioni meramente soggettive a lui ascrivibili».
La circostanza che la malattia contratta dal de cuius fosse stata tabellata dall'INAIL nel 1994 fa ritenere che già a tal epoca dovesse ritenersi di dominio pubblico la conoscenza del nesso eziologico tra esposizione lavorativa all'amianto e mesotelioma e che l'oggettiva diligenza avrebbe imposto di percepire la malattia come conseguenza del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il lavoratore all'inalazione di polveri pericolose.
La Corte di Cassazione ha dunque chiarito che, ai fini della decorrenza della prescrizione, rileva la conoscibilità dell'eziologia professionale – da intendersi come la possibilità che l'origine professionale della malattia sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento – e non la conoscibilità soggettiva, dipendente dal grado di conoscenza e cultura del soggetto interessato dalla malattia.
Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva applicato correttamente tali principi, ritenendo prescritto il diritto degli eredi del de cuius.

Trasferimento d'azienda in crisi e licenziamento collettivo

Cass. Sez. Lav. 1° giugno 2020, n. 10414

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; P.M. Celeste; Ric. C.A.I. S.p.A.; Contr. C.K. e A. S.A.I. S.p.A.

Licenziamento collettivo - Criteri di scelta - Erronea applicazione -Trasferimento d'azienda in crisi - Art. 2112 c.c. - Accordo sindacale - Art. 47, comma 4-bis, L. 428/1990 - Condizioni di lavoro - Deroga - Ammissibilità - Trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario - Deroga - Inammissibilità

In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi dell'articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675, ovvero per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, l'accordo sindacale di cui all'art. 47 della L. 29 dicembre 1990, n. 428, comma 4-bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n.166 del 2009, può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario.
NOTA
La Corte di Appello di Roma rigettava il reclamo proposto dalla società datrice di lavoro nonché il reclamo incidentale della lavoratrice confermando la sentenza resa dal Tribunale di Roma che, ritenuta sussistente la violazione dell'art. 4, comma 9, legge n. 223 del 1991, aveva annullato il licenziamento intimato alla lavoratrice dalla società e ordinato l'immediata reintegra nel posto di lavoro della stessa, con condanna del datore al pagamento di un'indennità risarcitoria.
In particolare, la Corte territoriale aveva accertato che la lavoratrice non aveva mai svolto le funzioni per le quali era stata individuata in posizione ritenuta eccedentaria, per cui la posizione di formale inquadramento aveva comportato una erronea applicazione, in concreto, dei criteri di scelta concordati nell'accordo sindacale siglato. Inoltre, la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto infondata la tesi della società secondo cui l'accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo avrebbe avuto efficacia sanante, poiché tale efficacia – secondo la Corte – era limitata ai vizi della comunicazione di cui al comma 2 dell'art. 4 legge n. 223 del 1991 e non a quelli oggetto della comunicazione di cui al comma 9 del medesimo art. 4, oggetto del presente giudizio.
La Corte territoriale respinge anche le argomentazioni della lavoratrice circa la sua esclusione del passaggio dalla società datrice di lavoro ad un'altra società cessionaria nell'ambito di un trasferimento d'azienda in quanto ritiene che le stesse presuppongano l'applicazione dell'art. 2112 c.c., mentre nel caso di con l'accordo sindacale stipulato ai sensi dell'art. 47, comma 4-bis legge n. 428 del 1990, le parti avrebbero voluto escludere dalla cessione un certo numero di rapporti di lavoro e tra questi quello della lavoratrice; in particolare, la Corte precisa che l'art. 47, comma 4-bis, legge n. 428 del 1990, nel testo modificato dall'art. 19-quater del D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, prevede che, in caso di trasferimento di azienda per la quale sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, qualora venga raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, l'art. 2112 c.c. trova applicazione solo nei limiti contenuti nell'accordo medesimo.
Avverso tale decisione sia la società sia la lavoratrice hanno proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene che l'unica lettura coerente del comma 4-bis dell'art. 47 citato risulta quella che si coordina con le indicazioni offerte dalla Corte di Giustizia (v. sentenza di condanna dell'Italia del 11.6.2009 nella causa C-561/07), nel senso che gli accordi sindacali, nell'ambito di procedure di insolvenza aperte nei confronti del cedente sebbene non "in vista della liquidazione dei beni", non possono disporre dell'occupazione preesistente al trasferimento di impresa. Tanto vero che – argomenta la Corte di Cassazione – solo nel comma 5 dell'art. 47, "nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata", è previsto che gli accordi possano stabilire la non applicazione dell'art. 2112 c.c. ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente... (con il che ammettendo esplicitamente che vi siano rapporti di lavoro che non continuano con l'acquirente), mentre espressioni analoghe, che alludano alla possibilità dell'accordo di limitare il trasferimento dei lavoratori dell'azienda cedente, non si rinvengono nel comma 4-bis, al di fuori del già detto inciso di esordio circa il mantenimento "anche parziale" dell'occupazione.
Secondo la Suprema Corte, dunque, «a fronte di espressioni generiche, le quali possano condurre a risultati interpretativi diversi, deve essere privilegiato il significato conforme al diritto dell'Unione e alla interpretazione che dello stesso fornisce la CGUE, che, peraltro, nel caso di specie è anche più coerente con l'interpretazione logico-sistematica e con la voluntas legis, per cui l'accordo con le organizzazioni sindacali raggiunto ai sensi del comma 4-bis dell'art. 47 legge n. 428 del 1990, a differenza di quello raggiunto ai sensi del comma 5 dello stesso articolo, non consente di incidere sulla continuità del rapporto di lavoro, in quanto la deroga all'art. 2112 c.c. cui il comma 4-bis si riferisce può riguardare esclusivamente le "condizioni di lavoro", nel contesto di un rapporto di lavoro comunque trasferito».
In definitiva, come enunciato nel principio di diritto in massima, il comma 4-bis ammette solo modifiche, eventualmente anche in peius, all'assetto economico-normativo in precedenza acquisito dai singoli lavoratori, ma non autorizza una lettura che consenta anche la deroga al passaggio automatico dei lavoratori all'impresa cessionaria.
Conclusivamente la Corte di Cassazione rigetta il ricorso della società, accoglie parzialmente il ricorso della lavoratrice, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 3 giugno 2020, n. 10540

Pres. Di Cerbo; Rel. De Marinis; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.F.; Controric. M.D. S.p.A.

Licenziamento per giusta causa - Ripetuto omesso controllo dei sottoposti - Uso del telepass aziendale per ragioni extralavorative - Proporzionalità - Sussistenza

È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che, in qualità di capo zona, abbia ripetutamente omesso i controlli di propria competenza presso i punti vendita della società e usato il telepass aziendale per ragioni extralavorative. Si tratta, infatti, di un comportamento lesivo del vincolo fiduciario anche avuto riguardo al ruolo rivestito dal dipendente ed alle modalità, autonome e non soggette a controllo, di svolgimento della prestazione lavorativa.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, riformando la decisione resa dal Tribunale di Milano, rigettava la domanda del lavoratore volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa per aver, nella sua qualità di capo zona, più volte omesso i controlli di propria competenza presso i punti vendita della società sul territorio e usato il telepass aziendale per ragioni extralavorative.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, lamentando l'assenza di proporzionalità tra le condotte oggetto di contestazione e la relativa sanzione, non integrando tali condotte una giusta causa di recesso neppure ai sensi del contratto collettivo applicato.
La Corte di Cassazione ritiene il motivo infondato.
Dopo aver ribadito che l'art. 2119 c.c. impone innanzitutto di verificare in concreto l'idoneità della mancanza addebitata a ledere il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro, la Corte ritiene la valutazione espressa dalla Corte d'Appello conforme a questo principio e priva di vizi logici e giuridici, avendo correttamente accertato, anche in considerazione del ruolo rivestito dal lavoratore e dalle modalità, autonome e non soggette a controllo, di esercizio della prestazione lavorativa, l'idoneità delle condotte oggetto di contestazione a ledere il vincolo fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro e, per l'effetto, la proporzionalità tra il licenziamento e tali condotte.

Oggetto del patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav. ord. 26 maggio 2020, n. 9790

Pres. Berrino; Rel. Boghetich; P.M. Celeste; Ric. S.A.; Controric. U. S.p.A.

Patto di non concorrenza - Oggetto - Solo mansioni espletate dal lavoratore - Esclusione - Qualsiasi attività in concorrenza con il datore - Ammissibilità - Limite della compressione della professionalità del dipendente - Sussiste

Il patto di non concorrenza può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ricorrendone la nullità allorché la sua ampiezza sia reale da comprimere l'esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale. In tal senso, le attività devono essere identificate in relazione a ciascun mercato nelle sue strutture oggettive.
NOTA
La Corte di appello di Roma, confermando la pronuncia del Tribunale, ha accolto la domanda della società di pagamento della penale per la violazione del patto di non concorrenza stipulato con il dipendente che, a seguito di dimissioni, aveva prestato attività lavorativa presso un concorrente, operando con la clientela facente parte del portafoglio clienti del precedente datore di lavoro.
Per la Corte di Appello il patto di non concorrenza sottoscritto era valido essendo presenti e soddisfatti i requisiti stabiliti dall'articolo 2125 del codice civile.
Avverso la sentenza della Corte proponeva ricorso il dipendente ma la Corte di Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte le clausole di non concorrenza sono finalizzate a salvaguardare l'imprenditore da qualsiasi «esportazione presso imprese concorrenti» del patrimonio immateriale dell'azienda, nei suoi elementi interni (organizzazione tecnica ed amministrativa, metodi e processi di lavoro, eccetera) ed esterni (avviamento, clientela, ecc.). D'altra parte, l'art. 2125 c.c. si preoccupa di tutelare il lavoratore subordinato, affinché le dette clausole non comprimano eccessivamente le possibilità di poter dirigere la propria attività lavorativa verso altre occupazioni, ritenute più convenienti, prevedendo che esse debbano essere subordinate a determinate condizioni, temporali e spaziali, e ad un corrispettivo adeguato, a pena della loro nullità. In questa prospettiva ricostruttiva, è stato altresì affermato che con riguardo all'estensione dell'oggetto delle clausole di non concorrenza, si deve aver riguardo all'attività del prestatore di lavoro, non circoscritta alle specifiche mansioni in concreto svolte presso il datore di lavoro nei cui confronti è assunto il vincolo, dovendo aversi riguardo all'attività del datore di lavoro, con la conseguenza che devono escludersi dal possibile oggetto del patto, in quanto inidonee ad integrare concorrenza, solo le attività estranee allo specifico settore produttivo o commerciale nel quale opera l'azienda.
Sulla scorta di tale principii, la Corte territoriale aveva correttamente statuito accertando la conformità del patto di non concorrenza alla disposizione civilistica e valorizzando, nella previsione negoziale, la delimitazione del divieto di operare nell'unico settore rappresentato dal dipendente e per i medesimi generi di prodotti per i quali aveva operato presso il datore di lavoro, con la medesima clientela, la limitazione dell'ambito territoriale e cronologico ed infine la previsione di un adeguato compenso.

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