Contenzioso

Lavoro a domicilio penitenziario, la spallata del Tribunale di Padova

di Ornella Girgenti

Con la sentenza n. 242 del 18 giugno 2020 il Tribunale del Lavoro di Padova, a quanto consta in assenza di precedenti, si è occupato della qualificazione del rapporto di lavoro di un detenuto inquadrato come lavoratore a domicilio ritenendo sussistente nei fatti la «subordinazione piena, riconducibile alla fattispecie dell'art. 2094 c.c.» (così in sentenza) e la conseguente illegittimità del pagamento a cottimo.
Precisamente il giudizio ha avuto riguardo ad un detenuto dipendente di una cooperativa sociale che operava all'interno del carcere di Padova (in virtù di specifiche e legittime convenzioni con l'amministrazione penitenziaria), in aree specificamente adibite e organizzate, gestendo in appalto il call center dedicato alla prenotazione di prestazioni e visite specialistiche dell'azienda sanitaria locale, mediante utilizzo di personale detenuto quale operatore telefonico pagato a cottimo (determinato sulla base del «numero dei contatti», così in sentenza).
Nel nostro ordinamento la disciplina del lavoro a domicilio penitenziario si ricava dal complesso coordinamento di normative penitenziarie (per la verità meri accenni contenuti nel D.P.R. n. 230/2000, cd. Legge Smuraglia, artt. 47, co. 10, e 52; art. 19, co. 6 e 7, L. n. 56/1987 "Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro") e disposizioni civilistiche contenute nella L. n. 877/1973 "Norme per la tutela del lavoro a domicilio".
Quest'ultima fornisce una regolamentazione generale che non tiene in alcun conto delle peculiarità della realtà detentiva.
In particolare, la L. n. 877/73 individua, quale elemento distintivo dello schema contrattuale che disciplina, il luogo di svolgimento della prestazione che coincide con il «domicilio o locale di cui abbia la disponibilità» (cfr. art. 1).
In ambito carcerario non esistono ambienti nella disponibilità del detenuto e oltretutto l'accesso ai locali e i tempi di permanenza nei medesimi sono determinati dall'amministrazione penitenziaria con il regolamento interno ex art. 36 D.P.R. 230/2000.
Non solo. Nel caso deciso dal Giudice di Padova il recluso, lavoratore a domicilio, operava alle dipendenze di un soggetto terzo (la cooperativa sociale) in locali interni concessi in comodato d'uso al privato datore di lavoro ex art. 47 d.P.R. 230/2000 (cfr. sentenza: «non è contestato che i capannoni fossero dati in comodato dall'amministrazione carceraria alla cooperativa convenuta»).
Altro elemento qualificante il lavoro a domicilio è la libera gestione del tempo della prestazione con conseguenti deroghe all'applicazione della disciplina dell'orario di lavoro (cfr. art. 17, co. 5, lett. d, D. Lgs. n. 66/2003 in tema di orario normale e durata massima, lavoro straordinario, riposo giornaliero, pause e lavoro notturno).
Il recluso è privo di questa libertà temporale giacché «gli orari relativi all'organizzazione della vita quotidiana della popolazione detenuta o internata» sono decisi dall'amministrazione penitenziaria.
Oltretutto, nel caso deciso dal Giudice di Padova, considerando che l'attività "a domicilio" si inserisce in un ciclo produttivo (quello proprio di un call center) e deve con esso coordinarsi, il datore di lavoro aveva un ruolo determinante nella determinazione dei tempi di lavoro (cfr. sentenza: «Non è contestato … che gli orari dei turni fossero predeterminati e variabili, affissi giornalmente e poi settimanalmente»).
Infine, altra peculiarità del lavoro a domicilio è il fatto che l'esercizio dei poteri di direzione, controllo e disciplinari sono meno intensi di quelli propri della fattispecie ex art. 2094 c.c. stante l'assenza di un coordinamento spaziale e temporale con l'attività di impresa.
Al contrario, nel caso oggetto della sentenza in commento il controllo da parte del datore di lavoro è risultato tutt'altro che affievolito (cfr. sentenza: «non è contestato infatti che … la cooperativa convenuta provvedeva ad organizzare il lavoro anche mediante propri supervisori; che il lavoro fosse controllato in tempo reale tramite un collegamento informatico con l'azienda sanitaria»).
Tali aspetti hanno portato il Giudice a ritenere il lavoro a domicilio penitenziario svolto dal ricorrente riconducibile al genus "lavorazioni interne organizzate e gestite da imprese pubbliche, private e cooperative sociali", qualificandolo come rapporto di tipo subordinato puro.
Da qui la conseguente dichiarazione di illegittimità della retribuzione a cottimo, «inferiore e aleatoria, produce un effetto ablatorio di un diritto retributivo riconosciuto dalla contrattazione collettiva nazionale» (così in sentenza).
Si tratta di una decisione coerente con gli elementi di fatto acquisiti in giudizio che non tiene in alcun conto però dell'estremo grado di incertezza regolamentare che connota la tipologia contrattuale utilizzata dalla cooperativa convenuta in accordo con l'amministrazione carceraria e che sembra muovere dal presupposto errato che il ricorso a tale tipologia sia dettato unicamente da finalità illecite, date dal risparmio sulla retribuzione a tempo.

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