Contenzioso

Licenziamenti individuali, addio al calcolo automatico dell’indennità

di Angelo Zambelli

Sono trascorsi più di cinque anni dalla riforma del lavoro annunciata come epocale: il Jobs act. I decreti legislativi emanati nel corso del 2015, con il dichiarato intento di segnare un deciso cambio di passo nella legislazione lavoristica,hanno inciso, tra le altre, sulla materia dei licenziamenti individuali e, più specificamente, sulle conseguenze per l’impresa in caso di accertamento in giudizio dell’illegittimità del provvedimento espulsivo.

La dirompente novità introdotta dal decreto legislativo 23/2015, applicabile solo ai licenziamenti degli assunti dopo il 7 marzo 2015, consisteva nel ridurre al minimo le ipotesi di reintegrazione in servizio del dipendente estromesso illegittimamente (limitate, oltre ai più gravi casi di nullità, ai soli licenziamenti disciplinari basati su fatti totalmente insussistenti).

Al contempo prevedeva, per la stragrande maggioranza delle ipotesi di licenziamento ingiustificato, così come per quelli viziati dal punto di vista formale e/o procedurale, il diritto del lavoratore a un’indennità di tipo economico, di importo predeterminato e crescente in base all’anzianità di servizio.

La vera novità della riforma era proprio questa: l’impresa, già al momento del licenziamento, prima di una pronuncia del giudice, con una semplice formula matematica aveva la possibilità di conoscere la misura dell’indennità dovuta al lavoratore nel caso in cui la decisione fosse stata poi ritenuta illegittima, senza alcun intervento discrezionale del giudice: forte il sospetto, oggi come allora, di una sorta di mozione di “sfiducia” del legislatore nei confronti dell’operato della magistratura del lavoro.

Ed è proprio il meccanismo di “predeterminazione” delle conseguenze economiche a essere stato oggetto di diverse censure di legittimità costituzionale dal 2017 a oggi, le quali, a seguito di due importanti pronunce di accoglimento della Consulta, lo hanno nella sostanza “disinnescato”.

Infatti, con una prima, cruciale, sentenza (la 194/2018) la Suprema corte ha ritenuto incostituzionale l’automatismo nella quantificazione dell’indennità in caso di insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo parametrato alla sola anzianità di servizio del dipendente («due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» prevedeva l’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/2015).

Il motivo principale della ritenuta incompatibilità di tale inciso normativo con l’impianto costituzionale risiede, secondo la Corte, nel fatto che, trattandosi in ogni caso di un rimedio di natura risarcitoria, il pregiudizio subito dal lavoratore non possa essere calcolato tenendo in considerazione la sola anzianità di servizio, ma debba avere a parametro anche altri fattori di correlazione al danno sofferto quali, ad esempio, il numero di occupati dall’azienda, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti.

Per effetto di tale importante pronuncia, il giudice ha riacquistato il potere di determinare in maniera discrezionale (ma non arbitraria) l’indennità economica nel caso concreto, muovendosi tra un minimo e un massimo previsto dalla legge (tra le 6 e le 36 mensilità della retribuzione utile, così innalzate nel 2018 dal decreto dignità .- Dl 87/2018).

Specularmente a questa pronuncia, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con la Costituzione del medesimo meccanismo di predeterminazione delle indennità, ma stavolta con riferimento al licenziamento affetto da un vizio formale e/o procedurale (ossia la mancanza di una motivazione scritta ovvero la violazione della procedura disciplinare prevista dall’articolo 7 dello statuto dei lavoratori).

In un comunicato stampa del 25 giugno che anticipa il deposito della sentenza, la Consulta ha dichiarato incostituzionale anche l’inciso contenuto nell’articolo 4 del Dlgs 23/2015 che quantifica l’indennità in questione in un «importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» in quanto «fissa un criterio rigido ed automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio».

Nell’attesa che venga depositata la sentenza, si può presupporre che le motivazioni circa l’incostituzionalità del parametro sanzionatorio ricalchino quelle della sentenza 194/2018, avendo a oggetto il medesimo meccanismo di calcolo introdotto dal Jobs act.

Con questa ultima decisione è stato scritto il definitivo epitaffio del Jobs act, quantomeno con riferimento alla materia dei licenziamenti individuali, mentre pende una decisione su quelli collettivi.

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