Contenzioso

Cassazione, la nozione di insubordinazione va interpretata estensivamente

di Flavia Maria Cannizzo

La Corte di cassazione, con sentenza 13411/2020, statuisce che è insubordinazione non solo il rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici, ma anche qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle disposizioni ricevute dal dipendente nel quadro complessivo dell'organizzazione aziendale di riferimento.

La decisione riguarda il licenziamento disciplinare avvenuto nell'aprile 2017 nei confronti di un lavoratore a cui erano state contestate condotte di insubordinazione e minaccia ai danni di una collega. L'ex dipendente, nel corso di una discussione insorta per la restituzione di una chiavetta del distributore del caffè, a porte chiuse, aveva tenuto comportamenti verbalmente minacciosi nei confronti della collega, una responsabile, la quale lo aveva invitato a lasciare il suo ufficio immediatamente.

Nell'istruttoria di primo grado, era emerso che il lavoratore - peraltro recidivo - nel profferire tali minacce, aveva tenuto bloccata la porta dell'ufficio della responsabile, puntando il dito contro la collega.

Ribaltando la sentenza di primo grado, i giudici della Corte d'appello di Trento, avevano respinto l'impugnativa di licenziamento, condotta dalla difesa del lavoratore con argomentazioni basate sull'assenza di un rapporto gerarchico inteso in senso proprio fra i due protagonisti della vicenda e sull'assunto che il diverbio si era verificato dopo la fine dell'orario di lavoro, e quindi, almeno formalmente, fosse da reputarsi condotta "extra-lavorativa".

Sennonché quest'ultimo argomento non è certo dirimente, posto che, per costante orientamento di legittimità, il carattere extra-lavorativo della condotta non ne preclude in via generale la sanzionabilità disciplinare, ove il comportamento abbia ripercussioni di qualche tipo sull'esecuzione diligente della prestazione lavorativa da parte del dipendente.

Ma anche la prima delle due difese portate avanti con convinzione dal lavoratore, per i giudici trentini, non può giovargli in alcun modo, poiché «il rapporto gerarchico – al contrario di quanto affermato in ricorso - sussiste ogni qual volta vi sia una sovra-ordinazione sia pure non nell'ambito dell'esecuzione della prestazione lavorativa».

La Cassazione, infatti, ripercorrendo i passaggi essenziali della pronuncia di gravame, conferma l'impostazione dei giudizi di merito, ritenendo necessario fornire alcune delucidazioni sul concetto di insubordinazione. Il concetto, secondo i giudici di legittimità, va interpretato «anche alla stregua dell'accezione lessicale e del significato del termine nel linguaggio corrente», sicché non può essere limitato al rifiuto di adempimento di disposizioni impartite dai superiori gerarchici in senso proprio, ma deve estendersi a «qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale».

E del resto, non può che ritenersi condivisibile l'impostazione fatta propria da questa pronuncia, basata sulla circostanza che rientri fra i doveri del prestatore, non solo e non unicamente l'osservanza diligente delle direttive impartitegli in rapporto alla natura della prestazione lavorativa in sé intesa, ma anche l'osservanza di tutte le disposizioni per la disciplina del lavoro ricevute dal datore di lavoro e dai suoi collaboratori (articolo 2014 del codice civile) in rapporto all'organizzazione in cui il lavoratore è inserito.

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