Contenzioso

Rassegna della Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Permessi ex legge 104
Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore
Svolgimento di altra attività lavorativa durante l'assenza per malattia
Divieto di discriminazioni in base al genere sessuale
Cambio appalto con passaggio di lavoratori

Permessi ex legge 104

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2020, n. 12032

Pres. Nobile; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. P. S.p.A.; Controric. D.A.G.;

Lavoro subordinato - Permessi ex art. 33 L. 104/1992 - Controlli del datore di lavoro a mezzo di agenzia investigativa - Prova dell'abuso dei permessi – Necessità - Assenza di prova - Licenziamento per giusta causa - Illegittimità

È illegittimo il licenziamento della dipendente per fruizione abusiva dei permessi ex L. 104/92 se dalla relazione dell'agenzia investigativa emerga un quadro lacunoso delle attività incompatibili svolte dalla lavoratrice, sempre che si tratti di attività che comunque sono a vantaggio del familiare disabile ma non implicanti necessariamente la permanenza presso l'abitazione di quest'ultimo. Solo ove venga a mancare del tutto il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile, si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo che genera la responsabilità del dipendente.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado con la quale era stato ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato a una lavoratrice per abuso dei permessi di cui alla Legge 104/92, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Nello specifico, la Corte territoriale non aveva ritenuto raggiunta la prova dell'abuso dei permessi ex Legge 104/1992, in quanto la relazione dell'agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro aveva fornito «un quadro assolutamente lacunoso delle attività svolte dalla […], talché non poteva reputarsi dimostrato che la dipendente avesse svolto attività incompatibili con l'assistenza» alla madre disabile durante il periodo di fruizione dei permessi. Non risultava, quindi, che la dipendente avesse svolto attività incompatibili con il permesso concessole ed, anzi, all'esito dell'istruttoria era emerso che la lavoratrice svolgeva «una serie di attività a vantaggio dell'anziana madre non implicanti necessariamente la permanenza presso l'abitazione della stessa».
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per Cassazione la società che ha censurato, in particolare, la sentenza impugnata per avere ritenuto «le risultanze dell'investigazione, così come da essa accertate, prova inidonea, travisando, altresì, le risultanze testimoniali inerenti il comportamento della lavoratrice».
La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso.
La Suprema Corte ha infatti ricordato che i permessi di cui alla Legge 104/1992 sono riconosciuti al lavoratore in ragione dell'assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa. Si è in presenza di un uso improprio o di un abuso del diritto, ovvero di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro che dell'ente assicurativo, nel caso in cui sussista la «prova diretta o indiretta dell'assenza di assistenza e/o dello svolgimento da parte dell'utilizzatore dei permessi di attività incompatibili con la prestazione della stessa» (in questo senso, Cass. n. 19850/2019; Cass. n. 4984/2014; Cass. n. 8784/2015; Cass. n. 5574/2016; Cass. n. 9217/2016 e Cass. n. 17968/2016).
Nel caso di specie la Suprema Corte, facendo applicazione del principio di cui alla massima, ha quindi concluso nel senso di ritenere non sussistente l'abuso dei permessi ex Legge 104/92 da parte della lavoratrice, che ne aveva fruito in coerenza con la loro funzione ed in presenza di un nesso causale con l'attività di assistenza alla madre anziana.


Infortunio sul lavoro e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2020, n. 11546

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; Ric. P.D.; Controric. R.F.I.S.P.A.;

Lavoro subordinato – Infortunio sul lavoro – Art. 2087 c.c. – Responsabilità oggettiva del datore di lavoro – Esclusione – Esistenza di una colpa in capo al datore di lavoro – Necessità

L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Bari aveva respinto la richiesta del lavoratore di condanna del datore di lavoro, società di gestione della rete ferroviaria, al risarcimento del danno biologico derivante dall'incidente sul lavoro occorso a causa del deragliamento di un convoglio ferroviario.
L'incidente in questione era stato causato dal posizionamento di grossi frammenti di pietra fra le rotaie e le controrotaie. Partendo da tali presupposti la Corte territoriale ha evidenziato come l'evento lesivo in questione fosse ascrivibile al caso fortuito connesso ad un fatto di terzi non evitabile attraverso la diligenza richiesta dall'art. 2087 c.c., la quale non impone la predisposizione di misure idonee a prevenire qualsiasi evento lesivo. Nel caso in esame la collocazione di recinzioni e di sistemi di videosorveglianza lungo l'intera linea, misura individuata dal lavoratore per evitare l'evento lesivo, sarebbe stata, secondo l'interpretazione della Corte territoriale, al di là della diligenza richiesta dalla norma e – inoltre – non era stato provato in giudizio dal lavoratore che l'adozione di tali misure avrebbe impedito il verificarsi dell'evento.
Contro la decisione della Corte d'Appello di Bari proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore sostenendo, per quanto qui interessa, che la Corte avesse errato nel respingere la domanda per via della mancata dimostrazione da parte del lavoratore che l'adozione di specifici mezzi di tutela da parte del datore avrebbe impedito il verificarsi dell'evento. Secondo il lavoratore la Corte avrebbe, in tal modo, operato un'inversione degli oneri probatori legali posto che il combinato degli articoli 1218 e 2087 c.c. pone in capo al datore l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a scongiurare l'evento.
La Suprema Corte ha respinto le censure del lavoratore e rigettato l'intero ricorso.
In primo luogo la Suprema Corte ha ribadito la natura contrattuale dell'obbligo di cui all'art 2087 c.c. e la sua funzione di norma di chiusura del sistema di sicurezza e prevenzione sul lavoro. Tale norma impone certamente al datore di lavoro di predisporre tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Al contempo però la Cassazione ha ribadito come le obbligazioni scaturenti da tale norma non possano integrare un'ipotesi di responsabilità oggettiva che giunga a comprendere ogni ipotesi di lesione dell'integrità psico-fisica dei lavoratori, posto che la stessa presuppone comunque l'esistenza di una colpa in capo al datore di lavoro «intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore.». Non è possibile, prosegue la Suprema Corte, ritenere che il datore di lavoro debba – in base a tale disposizione – realizzare un ambiente di lavoro a rischio zero poiché l'applicazione di un siffatto principio «importerebbe quale conseguenza l'ascrivibilità al datore di lavoro di qualunque evento lesivo, pur se imprevedibile ed inevitabile, e nonostante l'ambito dell'art.2087 c.c. riguardi una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici, e non meramente possibilistici».
In applicazione di tali principi la Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione della Corte d'Appello, posto che nel caso di specie era emerso che l'evento lesivo fosse ascrivibile ad un fatto di terzi imprevedibile e tale da interrompere il nesso eziologioco tra fatto ed evento dannoso. In particolare erano emerse la recente revisione del materiale rotabile, la mancanza di anomalie ed il corretto comportamento dei macchinisti nell'ambito dell'incidente.

Svolgimento di altra attività lavorativa durante l'assenza per malattia

Cass. Sez. Lav. 17 giugno 2020, n. 11702

Pres. Di Cerbo; Rel. Paggetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. P.; Controric. F.P.

Giusta causa – Svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia - Condotta inidonea a pregiudicare la salute - Licenziamento – Illegittimità

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia per sé sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Napoli, pronunziando in sede di reclamo, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato sulla base di contestazione che addebitava al lavoratore comportamenti tali da attestare la simulazione del proprio stato di malattia o quanto meno da risultare potenzialmente idonei a ritardare la guarigione, nonché la recidiva nel biennio in relazione a condotte sanzionate con la sospensione dal lavoro e dalla retribuzione. La Corte di merito respingeva il reclamo della Società inteso a censurare la declaratoria di illegittimità del licenziamento da parte del giudice dell'opposizione osservando che «le risultanze istruttorie non confermavano né la simulazione dello stato di malattia da parte del lavoratore né l'adozione di comportamenti tali da aggravarne le condizioni di salute o quantomeno porne in pericolo o ritardo la guarigione e, quindi, il rientro al lavoro; escludeva, inoltre, a differenza di quanto ritenuto dal giudice di primo grado, che configurasse violazione degli obblighi di buona fede e correttezza contrattuale la circostanza che il lavoratore collaborasse più o meno attivamente all'attività commerciale formalmente intestata a sua moglie, evidenziando la genericità del riferimento a tale attività nell'ambito della contestazione disciplinare e la piena consapevolezza che del relativo espletamento aveva la società datrice secondo quanto emerso dalla prova orale». In base a tali considerazioni, rilevato che la condotta posta in essere dal lavoratore era inidonea a dimostrare qualsiasi volontà di insubordinazione tale da compromettere il vincolo fiduciario, rilevata la insussistenza di presupporti del recesso datoriale del quale era stata accertata l'oggettiva inesistenza giuridica e fattuale, riteneva spettare la tutela reintegratoria oltre alla indennità risarcitoria commisurata a sei mensilità della retribuzione globale di fatto.
Per la cassazione della decisione la Società ha proposto ricorso «censurando la sentenza di appello per avere ritenuto insussistente la giusta causa di licenziamento sul rilievo che il lavoratore non aveva posto in essere comportamenti in grado di pregiudicare il rientro al lavoro». In particolare la Società ha motivato l'impugnazione evocando «i principi affermati dalla giurisprudenza in tema di prestazione di attività esterna, a titolo gratuito od oneroso, da parte del dipendente assente per malattia, condotta alla quale è stato riconosciuto rilievo disciplinare non solo nell'ipotesi di simulazione della malattia ma anche nell'ipotesi in cui la ripresa lavorativa del lavoratore ammalato sia anche solo messa in pericolo dal comportamento imprudente dello stesso da valutarsi con giudizio ex ante».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso affermando che «tali principi non risultano applicabili alla concreta fattispecie in quanto la Corte di merito, con accertamento di fatto non incrinato dalle censure articolate dalla odierna ricorrente, ha escluso che le ragioni di salute alla base dell'assenza per malattie fossero simulate e che la condotta concretamente tenuta dal dipendente fosse idonea a pregiudicarne il rientro al lavoro. In altri termini, alla stregua della ricostruzione del giudice di merito, è da escludere il verificarsi del presupposto fattuale condizionante la applicabilità dei principi richiamati a sostegno delle censure articolate».

Divieto di discriminazioni in base al genere sessuale

Cass. Sez. Lav. 15 giugno 2020, n. 11530

Pres. Nobile; Rel. Pagetta; PM Celeste; Ric. S.; Controric. P.

Divieto di discriminazioni in base al genere sessuale - Onere probatorio - Attenuazione in linea con i principi comunitari - Sussiste

In tema di discriminazioni di genere dei lavoratori da parte del datore l'articolo 40 del decreto legislativo 198/06 non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario, prevedendo a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall'articolo 19 della direttiva Ce 2006/54, l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, purché idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso.
NOTA
La lavoratrice S. veniva assunta dalla società P. con contratto di apprendistato professionalizzante della durata di 36 mesi, contestualmente ad altri lavoratori. Alla scadenza contrattuale la società risolveva ad nutum il rapporto, non convertendolo in uno a tempo indeterminato.
La lavoratrice ricorreva al competente Tribunale in funzione di Giudice del lavoro, con la procedura "speciale" prevista dall'art. 38 del d.lgs. 198/2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), asserendo di aver subito dalla società una discriminazione basata sul sesso e sullo status di madre di figlio minore, dal momento che gli unici apprendisti stabilizzati, tra quelli assunti nella sua stessa data, erano uomini, mentre lei era stata esclusa solo perché donna e madre di un minore. La domanda trovava difformi decisioni nei giudizi di merito: dapprima respinta con decreto dal Tribunale, veniva poi accolta dallo stesso in esito all'opposizione della lavoratrice, salvo poi essere nuovamente rigettata in sede di gravame.
La Corte di appello di Catanzaro, infatti, riteneva che la lavoratrice non avesse fornito un quadro probatorio connotato da precisione e concordanza in ordine alla denunziata discriminazione, in relazione ad entrambi i profili denunziati (i.e. genere e maternità), di talchè non vi era spazio per verificare (ex art. 40 D.Lgs. n. 198 del 2006) l'assolvimento da parte della società datrice dell'onere probatorio inteso alla dimostrazione della insussistenza della denunziata discriminazione. Ad essere più precisi, secondo la Corte territoriale, in primo luogo, la scelta della lavoratrice di limitare la verifica delle stabilizzazioni ai soli lavoratori assunti in uno specifico giorno (quello nel quale la lavoratrice aveva stipulato il contratto di apprendistato professionalizzante con altri colleghi maschi poi stabilizzati) o al solo mese di settembre dell'anno 2011 non era idonea a conferire particolare valenza al dato statistico. Occorreva quindi ampliare l'arco temporale di verifica del dato statistico quanto meno al quadrimestre settembre/dicembre 2011, in cui però le stabilizzazioni effettuate da parte della società avevano riguardato sia uomini che donne e altrettanto le mancate stabilizzazioni, il che minava in radice la originaria doglianza di discriminazione legata al sesso. Quanto poi alla discriminazione fondata sulla maternità, la Corte aggiungeva che la circostanza che nel quadrimestre settembre/dicembre 2011 le sole due lavoratrici stabilizzate "sembravano" non essere madri non era un dato sufficiente ad integrare le precise e concordanti presunzioni idonee a sorreggere l'assunto di una discriminazione fondata sulla maternità.
Avverso tale sentenza la lavoratrice ricorreva per Cassazione, affidando il ricorso ad una pluralità di motivi.
Secondo la ricorrente la decisione della Corte territoriale costituiva, innanzitutto, una violazione dell'art. 40 d.lgs. 198/2006, in quanto gli elementi introdotti all'interno del giudizio - ossia l'esser stata l'unica donna, genitore di minore, a non ricevuto stabilizzazione del rapporto, sia rispetto agli apprendisti assunti nella sua stessa data (8 settembre 2011), sia volendo estendere, come richiesto dalla Corte territoriale, l'arco temporale di verifica al quadrimestre settembre 2011-dicembre 2011 (in cui, sì, erano state stabilizzate anche delle donne, ma nessuna con lo status di madre) – presentavano quelle caratteristiche di precisione e concordanza tali da far ritenere assolto l'onere probatorio a suo carico.
Di conseguenza era la società resistente a dover fornire prova che i comportamenti allegati non costituissero in realtà discriminazione, né per ragioni di genere né per ragioni di maternità, ai danni della lavoratrice, superando quindi le presunzioni consolidatesi in giudizio. Ciò in quanto il particolare regime probatorio previsto dall'art. 40 de d.lgs. 198/2006 esonererebbe, secondo la lavoratrice, parte attorea dalla verifica circa la volontà del datore di lavoro alla realizzazione della discriminazione e al trattamento deteriore subito dal lavoratore e rende sufficiente la mera indicazione di elementi statistici da cui possano trarsi indizi precisi e concordanti circa l'avvenuta discriminazione; compito – secondo la ricorrente – da lei perfettamente adempiuto negli atti di causa.
La sentenza della Corte territoriale, inoltre, sempre nella ricostruzione della lavoratrice, peccava anche per la mancanza assoluta di motivazione o, comunque, per la presenza di una motivazione solo apparente, non essendo affatto chiare le ragioni per cui il dato statistico rilevante ai fini della verifica della discriminazione ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2006, art. 40, non avrebbe potuto trarsi su un limitato orizzonte temporale rappresentato dalla data di stipula dei contratti di apprendistato professionalizzante.
Neppure si comprendeva perchè fosse inidoneo a suffragare il rilievo statistico il dato ancorato alla assunzione avvenuta in data 8.9.2011 ed alla comparazione con i lavoratori maschi assunti in quella medesima data o per quale ragione fosse irrilevante, sotto il profilo statistico, il fatto che nell'ambito del quadrimestre settembre/dicembre 2011 le uniche tre donne assunte non erano madri.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte rigetta tutti i motivi di ricorso.
Chiare, corrette e congrue risultano - si legge nella sentenza - le ragioni per cui la Corte territoriale ha inteso estendere l'arco temporale di riferimento al quadrimestre settembre/dicembre 2011, per valutare il dato statistico, rispetto a quanto preteso dalla lavoratrice (che voleva limitarlo al solo giorno della stipula del contratto di apprendistato professionalizzante o al più al mese di settembre 2011). Secondo la S.C. da un punto di vista logico, infatti, ed in generale in base ai principi della scienza statistica, l'estensione dell'arco temporale di riferimento, implicando l'acquisizione di un maggior numero di dati da comparare, conferisce maggiore attendibilità alla ricostruzione statistica di un determinato fenomeno.
Infondate, infine, risultano, nella decisione della S.C., tutte le doglianze di parte ricorrente, circa l'asserita violazione nella sentenza di merito dell'art. 40 del d.lgs. 198/2006 e dei principi ivi contenuti in materia di regime probatorio attenuato in caso di discriminazioni.
La sentenza impugnata, infatti, risulta coerente con la disposizione del decreto delegato, la quale non stabilisce affatto – come cerca di far credere parte ricorrente - un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'attenuazione del regime probatorio ordinario, con la conseguenza che si determina (sì), a carico del soggetto convenuto, in linea con quanto disposto dall'art. 19 della Direttiva CE n. 2006/54 (come interpretato da Corte di Giustizia Ue 21 luglio 2011, C-104/10), l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, ma– si badi bene - solo dopo che il ricorrente abbia fornito al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, sufficienti a far ritenere come verificati i comportamenti discriminatori lamentati.
Occorre, cioè, perché si realizzi un ribaltamento dell'onere probatorio a carico della società convenuta, che il ricorrente fornisca elementi relativi ai comportamenti discriminatori lamentati, che seppur tratti solo da dati statistici siano almeno idonei a fondare, in termini precisi (ossia determinati nella loro realtà storica) e concordanti (ossia fondati su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto), anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso o, come nel caso di specie, in ragione dello stato di maternità.
Ebbene, secondo la S.C., la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi in tema di prova, dal momento che l'esclusione di un onere probatorio a carico della parte datoriale scaturisce dal rilievo del mancato assolvimento da parte della lavoratrice dell'onere su di essa gravante non avendo la lavoratrice offerto, neppure sul piano statistico, elementi precisi e concordanti, significativi della denunziata discriminazione.

Cambio appalto con passaggio di lavoratori

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2020, n. 12030

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; P.M. Cimmino; Ric. A. H. S.p.A.; Intimato R. J.

Appalto – Cambio – Clausola sociale – Azione per il passaggio alle dipendenze del nuovo appaltatore – Termine di decadenza ex art. 32 L. 183/2010 – Applicazione – Esclusione

Nell'ipotesi di cambio di gestione dell'appalto con passaggio dei lavoratori all'impresa nuova aggiudicatrice, la conseguente azione per l'accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l'azienda subentrante non è assoggettata al termine di decadenza di cui all'art. 32 della l. n. 183 del 2010, non rientrando nella fattispecie di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d'azienda, né in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; l'art. 32 citato presuppone, infatti, non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l'opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l'illegittimità o l'invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale.
NOTA
La Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano, accertava il diritto del lavoratore al trasferimento del rapporto di lavoro in essere con la società appellata, che era subentrata alla precedente datrice di lavoro del dipendente negli appalti di servizi di assistenza a terra, con decorrenza dal 20 giugno 2016, con mansioni di operatore aeroportuale presso lo scalo di Milano Linate, inquadramento nel quinto livello e retribuzione globale di euro 1.900,08 mensili.
La Corte territoriale condannava altresì la società appellata alla riammissione in servizio del lavoratore ed al pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate dalla data di trasferimento del rapporto di lavoro (20 giugno 2016) all'effettiva riammissione, oltre interessi e rivalutazione monetaria, detratto quanto percepito dall'altro datore di lavoro nel medesimo periodo, pari ad euro 22.145,84.
Secondo la Corte d'Appello dovevano escludersi le conclusioni cui era giunto il Giudice di prime cure, in quanto "il diritto azionato derivava dalla cosiddetta clausola sociale prevista dall'art. 25 parte generale e dall'art. 37 parte specifica C.C.N.L. di settore nell'ipotesi di trasferimento dei servizi tra operatori dell'attività di assistenza a terra", e, dunque, non si trattava né di un caso di trasferimento di azienda, rientrante nella lettera c) dello stesso art. 32, comma 4 della stessa legge n. 183 del 2010, né di una previsione di cui alla lettera d) della stessa norma, non avendo il lavoratore rivendicato un rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso, ma avendo invocato l'obbligo, derivante dalla contrattazione collettiva a carico dell'impresa subentrante, di assumere ex novo, a certe specifiche condizioni, il personale in forza presso il precedente aggiudicatario dell'appalto.
La società impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 32, comma 4, L. 183/2010, poiché la sentenza della Corte di Appello aveva erroneamente ritenuto non applicabile la disciplina della decadenza alla fattispecie in esame.
La Suprema Corte rigetta il ricorso della società nuova appaltatrice, ricordando che la fattispecie in esame si riferiva soltanto a una ipotesi di trasferimento di servizi tra operatori dell'attività di assistenza a terra in materia aeroportuale, e, al riguardo, i Giudici d'Appello avevano correttamente accertato l'esclusione, peraltro mai contestata, di una ipotesi di trasferimento di azienda.
Ed infatti, in caso di "passaggio, con nuova assunzione, dei lavoratori dal precedente datore di lavoro, appaltatore di servizi, al diverso datore di lavoro nuovo aggiudicatario", il dipendente non rivendica un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal "titolare del rapporto", come recita la norma in esame (art. 32 L. 183/2010), poiché, come nel caso che ci occupa, "il lavoratore non pone in discussione la legittimità o la validità del precedente rapporto né la validità della sua cessazione o della sua modificazione".
La Suprema Corte precisa, dunque, che "quando non si è in presenza di alcuna azione diretta a contrastare fenomeni interpositori o comunque di contitolarità del rapporto di lavoro, ma si tratta di un semplice avvicendamento previsto da accordi collettivi, in presenza di specifiche condizioni, con l'obbligo dell'impresa subentrante di assumere ex novo il personale in forza presso l'impresa cessante, non trova applicazione la regola dettata dall'art. 32, comma 4, lett. d) citato".
La Cassazione ritiene, altresì, condivisibile il decisum della Corte di merito anche con riguardo alle argomentazioni svolte in tema di "interpretazione della clausole contrattuali", precisando che "ove si censuri l'interpretazione di una norma contrattuale, il ricorrente è tenuto a riportare nel ricorso per cassazione il testo della regolamentazione pattizia del rapporto diversamente non ponendosi il giudice di legittimità in condizione di svolgere il suo compito istituzionale e dandosi luogo all'inammissibilità del motivo ex art. 366 nn. 3 e 4 cod. proc. civ. (cfr. tra le tante, Cass. n. 9079 del 2003, 15279 del 2003)".
Conclusivamente il ricorso dell'"impresa nuova aggiudicatrice" viene respinto.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©