Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Licenziamento per giusta causa e tempestività della contestazione
Licenziamento per giusta causa per violazione del divieto di fumo
Trasferimento del dipendente, forma scritta
Infortunio sul lavoro e danno patrimoniale


Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2020, n. 12031

Pres. Nobile; Rel. Blasutto; P.M. Cimmino; Ric. D.A. S.r.l.; Controric. V.M.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Previsioni disciplinari del CCNL - Valutazione in concreto del fatto - Giudizio di sussunzione del giudice di merito - Censurabilità in cassazione - Condizioni - Fattispecie

In tema di licenziamento disciplinare, rientra nell'attività sussuntiva e valutativa del giudice di merito la verifica della sussistenza della giusta causa, con riferimento alla violazione dei parametri posti dal codice disciplinare del c.c.n.l., le cui previsioni, anche quando la condotta del lavoratore sia astrattamente corrispondente alla fattispecie tipizzata contrattualmente, non sono vincolanti per il giudice, dovendo la scala valoriale ivi recepita costituire uno dei parametri cui fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., attraverso un accertamento in concreto della proporzionalità tra sanzione ed infrazione sotto i profili oggettivo e soggettivo; ne consegue che le parti ben potranno sottoporre il risultato della valutazione cui è pervenuto il giudice di merito all'esame della Cassazione sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del codice disciplinare.
NOTA
Il Tribunale aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, quale addetto al ritiro dei rifiuti con metodo di raccolta differenziata, aveva omesso la registrazione degli svuotamenti dei cassonetti, con conseguente mancata attribuzione del relativo volume ai fini del calcolo della quota variabile della tariffa applicata all'utente, nonché fruito, in occasione dei prelievi presso quest'ultima, di pause di lavoro non autorizzate.
La Corte di appello, riformando la pronuncia di primo grado, dichiarava l'illegittimità del licenziamento e condannava la stessa al pagamento di un'indennità risarcitoria.
Per la Corte, nonostante fossero stati provati tutti i fatti contestati e fosse emerso che i ricorrenti erano ben consapevoli di violare le disposizioni aziendali, dovevano essere accolte le contestazioni del lavoratore, ed in particolare quella relativa all'assenza di proporzionalità tra fatto contestato e sanzione comminata.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la Società e la Suprema Corte lo ha accolto.
Per la Cassazione, prima di tutto, il risultato della valutazione cui era pervenuto il giudice di merito in ordine alla riconducibilità, in concreto, della condotta contestata nel paradigma della giusta causa, è sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della corretta interpretazione delle previsioni contrattuali e del giudizio di sussunzione nelle stesse della condotta addebitata. Chiarito ciò, in linea generale, per stabilire se sussiste la giusta causa di licenziamento, con specifico riferimento al requisito della proporzionalità della sanzione, occorre accertare in concreto se - in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso tra le parti e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava - la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.
Nel caso di specie, la Corte territoriale, pur ritenendo pienamente provata la condotta contestata e non dimostrate le giustificazioni rese dei ricorrenti, ha giudicato il licenziamento illegittimo, argomentando, tra gli altri, in ordine alla diversità di trattamento riservato ad altro dipendente coinvolto negli stessi fatti e alla tolleranza verso altri lavoratori che avevano sporadicamente commesso altre analoghe mancanze.
Per la Suprema Corte le affermazioni contenute nella motivazione della sentenza della Corte territoriale risultavano pertanto contraddette da altre affermazioni che ne smentivano la portata logica, integrando un contrasto tra affermazioni inconciliabili. Alla luce di ciò e delle risultanze probatorie, la sanzione adottata dalla società doveva quindi intendersi proporzionata ai - gravi - fatti accertati.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 22 giugno 2020, n. 12193

Pres. Di Cerbo; Rel. Negri Della Torre; P.M. Celeste; Ric. P. S.p.A.; Controric. R.P.

Licenziamento per giusta causa – Contestazione disciplinare – Fatti oggetto di denuncia penale – Conclusione del giudizio penale – Tempestività della contestazione – Non sussiste

In tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l'immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione. Ne consegue che l'aver presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell'addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti.
NOTA
La Corte d'Appello di L'Aquila riteneva tardivo il procedimento disciplinare avviato con lettera di contestazione del settembre 2016, posto che nell'agosto 2012 il datore di lavoro aveva denunciato i fatti accaduti, nell'ottobre 2012 aveva avuto conoscenza dell'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari a carico del proprio dipendente e nel febbraio 2013 aveva saputo che il giudice penale aveva disposto il giudizio immediato per i medesimi fatti oggetto del procedimento disciplinare. La Corte d'Appello confermava quindi l'illegittimità del licenziamento con applicazione della tutela di cui all'art. 18, comma 5, L. 300/1970.
Il datore di lavoro proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo la violazione e falsa applicazione dell'art. 7, L. 300/1970, e del CCNL applicato al rapporto di lavoro, per non aver i giudici di merito considerato che la società era venuta a conoscenza della responsabilità del proprio dipendente soltanto nell'agosto 2016 con la pubblicazione della sentenza penale di condanna, talché la contestazione del settembre 2016 era assolutamente tempestiva.
Il datore di lavoro eccepiva altresì l'erroneità della decisione della Corte d'Appello, secondo cui la società avrebbe dovuto dare tempestivo inizio al procedimento disciplinare, in contemporanea al giudizio penale, salvo eventualmente sospenderlo in attesa della definizione del giudizio. Tale possibilità, infatti, non era consentita né dalla legge né dal CCNL applicato al rapporto di lavoro. Inoltre, la Corte d'Appello non aveva considerato che la responsabilità penale non poteva ritenersi cristallizzata al momento della conclusione delle indagini preliminari, ben potendo l'indagato e il suo difensore porre in essere attività volte ad ottenere l'archiviazione del procedimento.
I due motivi di ricorso vengono trattati congiuntamente dalla Suprema Corte, che li ritiene infondati.
In particolare, la Corte di cassazione osserva che i giudici di merito avevano correttamente accertato, sulla base delle risultanze del giudizio, che il datore di lavoro – che aveva sporto denuncia per i fatti oggetto del procedimento disciplinare nonché del giudizio penale – disponesse di elementi sufficienti a ritenere i fatti ragionevolmente sussistenti molto tempo prima della consegna della lettera di contestazione. Per tale ragione essa – consegnata dopo quattro anni dai fatti – doveva ritenersi tardiva, con conseguente illegittimità del licenziamento.
A tal proposito, la Suprema Corte ribadisce il proprio consolidato orientamento, secondo cui il principio di immediatezza della contestazione disciplinare, la cui ratio riflette l'esigenza di osservare la regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro, non consente al datore di lavoro di procrastinare la contestazione medesima, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore; peraltro, la presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale non esclude l'onere per il medesimo di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale egli abbia già rilevato elementi di responsabilità (in senso conforme, Cass. 15361/2004). E, ancora, nel valutare l'immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione; ne consegue che l'aver presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell'addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti (in senso conforme, Cass. 1101/2007, Cass. 7983/2008). E, infine, nell'ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l'imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l'illegittimità del licenziamento (in senso conforme, Cass. 3532/2013, Cass. 21633/2013).

Licenziamento per giusta causa per violazione del divieto di fumo

Cass. Sez. Lav. 26 giugno 2020, n. 12841

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. P.H.F. S.r.l..; Controric. C.G.

Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Violazione del divieto di fumo durante l'orario di lavoro – CCNL – Sanzione conservativa

La giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato .
Tuttavia la scala valoriale espressa dal contratto collettivo deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c.
NOTA
La Corte di appello di Genova riformava la sentenza del Tribunale di Genova, accogliendo la domanda di annullamento del licenziamento per giusta causa di un dipendente che aveva contravvenuto al divieto di fumare durante l'orario di lavoro e presso un recondito ambito (intercapedine) dei locali della ditta della società committente.
Secondo la Corte di appello, infatti, il fatto addebitato al ricorrente non era riconducibile alla previsione di cui all'art. 48, lett. b) del CCNL Pulizie – Multiservizi, che prevede il licenziamento nei casi in cui il lavoratore sia trovato a «fumare dove può provocare pregiudizio all'incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti», dovendosi, invece, ritenere integrata la previsione collegata al mero divieto di fumare dettata dall'art. 47 del medesimo CCNL e concernente la sanzione conservativa dell'ammonizione o della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
La società, datrice di lavoro, pertanto, impugnava la sentenza della Corte di appello.
La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso, afferma che il percorso logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata è corretto e rispettoso dei principii di diritto formulati dalla Suprema Corte con riguardo al codice disciplinare contenuto nei contratti collettivi.
Difatti, argomenta la Corte, seppure è vero che «in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza» è anche pur vero che «il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa».
Pertanto, ove in caso di una condotta illecita il CCNL applicato preveda esclusivamente una sanzione conservativa, «il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995), a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari (cfr. ex multis Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 14555 del 2000; Cass. n. 6165 del 2016; Cass. n. 11860 del 2016; Cass. n. 17337 del 2016)».

Trasferimento del dipendente, forma scritta

Cass. Sez. Lav. 19 giugno 2020, n. 12029

Pres. Nobile; Rel. Negri Della Torre; P.M. Cimmino; Ric. C.S.; Contr. E. R. S.p.A.;

Amministrazione Militare – Appalto di servizi – Clausola di non gradimento – Ammissibilità – Trasferimento del dipendente – Art. 2103 c.c. – Obbligo di forma scritta – Insussistenza – Obbligo di motivazione – Insussistenza

Il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato. In tal senso deve essere, comunque, esclusa l'applicazione analogica della previsione di cui all'art. 2, co. 2, L. 604/66 (così come modificata dalla L. 92/2012) relativa esclusivamente all'obbligo di motivazione del licenziamento.
Il venir meno del gradimento da parte del committente, espresso su base della clausola ad hoc inserita nei contratti di appalto (nella specie con le Amministrazioni Militari), costituisce una ragione oggettiva di tipo organizzativo e, di conseguenza, un presupposto di legittimità ex art. 2103 cod. civ. del provvedimento di trasferimento, non potendo l'impresa appaltatrice ulteriormente avvalersi, nella stessa unità produttiva, della prestazione del dipendente non più gradito e, tuttavia, rimanendo contrattualmente obbligata ad assicurare i livelli di servizio già in precedenza concordati con il committente.
NOTA
La Corte di appello di Genova confermava la sentenza con la quale il Tribunale della Spezia aveva rigettato il ricorso del lavoratore – aiuto cuoco impegnato in un appalto presso l'Amministrazione Militare – per l'impugnazione di due trasferimenti disposti dal datore di lavoro, il primo, a seguito di formale comunicazione di "non gradimento" da parte della predetta Amministrazione, e il secondo, giustificato dalle lamentele dell'Amministrazione per il servizio di cucina e da reiterate segnalazioni di non gradimento.
In particolare, la Corte di appello osservava preliminarmente che l'impugnativa del primo trasferimento fosse tardiva ai sensi dell'art. 32, commi 3, lett. c), e 1bis del Collegato Lavoro (L. n. 183/2010). Quanto al secondo trasferimento, la Corte territoriale riteneva insussistente l'obbligo di motivazione contestuale ai sensi dell'art. 2 della L. n. 604/1966, come modificata dalla L. 92/2012, ritenendo tale norma stabilita unicamente per il licenziamento.
La Corte di appello osservava, altresì, che la clausola di non gradimento è prevista dall'art. 20 D.P.R. n. 751/1977 per gli appalti con le Amministrazioni militari e che il non gradimento del committente, anche se non espresso in forma scritta (come accaduto per il secondo trasferimento, a differenza del primo), costituiva una condizione oggettiva riconducibile alle esigenze tecniche, organizzative e produttive previste dall'art. 2103 cod. civ. e insindacabile, stante la peculiarità del contraente.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, anzitutto conferma il decisum della Corte territoriale in merito all'intervenuta decadenza dall'impugnazione del primo trasferimento.
In secondo luogo, la Corte di Cassazione – ritenendo nuovamente condivisibile il ragionamento della Corte di appello sul punto – chiarisce che «il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda (salvo che sia contestata la legittimità del trasferimento, avendo in tal caso il datore di lavoro l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e non potendo limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte)».
In terzo luogo, la Corte osserva che l'art. 20 del Capitolato annesso al D.P.R. n. 751/1977, in tema di appalto dei servizi di manovalanza presso gli enti della Difesa, prevede che "gli operai devono risultare di pieno gradimento dell'Amministrazione Militare" e che "qualora le autorità militari richiedessero, a loro insindacabile giudizio, la sostituzione di uno o più dipendenti dell'impresa appaltatrice, questa dovrà immediatamente aderire alla richiesta, senza sollevare alcuna obiezione o pretendere alcun indennizzo".
Conseguentemente, con riferimento al caso di specie, la Corte afferma che il venir meno del gradimento delle autorità militari competenti si traduce in una obiettiva ragione di tipo organizzativa e, di conseguenza, in un presupposto di legittimità ex art. 2103 cod. civ. del provvedimento di trasferimento, non potendo l'impresa appaltatrice ulteriormente avvalersi, nella stessa unità produttiva, della prestazione del dipendente non più gradito e, tuttavia, rimanendo contrattualmente obbligata ad assicurare i livelli di servizio già in precedenza concordati con il committente.
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore viene rigettato.

Infortunio sul lavoro e danno patrimoniale

Cass. Sez. Lav. 25 giugno 2020, n. 12632

Pres. Raimondi; Rel. Lorito; P.M. Cimmino; Ric. L.E..; Controric. CEA S.r.l.; ITAS;

Infortunio sul lavoro - Danno patrimoniale - Condizioni - Lucro cessante - Riduzione della capacità lavorativa specifica e incidenza sulla capacità di guadagno - Necessità

In caso di infortunio sul lavoro, non può farsi discendere in modo automatico dall'invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica.
NOTA
La Corte d'Appello di L'Aquila ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Chieti che aveva riconosciuto al lavoratore una riduzione della capacità lavorativa pari al 100% derivante da un infortunio occorsogli durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, con conseguente risarcimento del danno patrimoniale.
La Corte territoriale ha ritenuto che la capacità lavorativa del dipendente non dovesse ritenersi ridotta in misura pari al 100%, dal momento che la ridotta capacità lavorativa era comunque compatibile, sia pur con alcune limitazioni, con altre tipologie di lavoro confacenti con le attitudini personali del lavoratore, tenuto conto dell'età, del sesso, del titolo di studi posseduto e della pregressa esperienza lavorativa.
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso in Cassazione il lavoratore, deducendo che la serie di limitazioni alla capacità lavorativa riscontrate con riferimento alle specifiche attitudini di operaio specializzato, si risolveva sostanzialmente in un annullamento della stessa.
La Suprema Corte ha ritenuto conforme la decisione della Corte territoriale al proprio orientamento sul punto, secondo cui, solo se la capacità lavorativa specifica si traduce in una riduzione della capacità di guadagno, questa diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale.
Il Giudice di legittimità ha dunque precisato che «non può farsi discendere in modo automatico dall'invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, derivando esso solo da quella invalidità che abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica».
Pertanto il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell'attività lavorativa specifica e questa, a sua volta, sulla capacità di guadagno, deve anche accertare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo l'infortunio subito, una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (Cass. 12 febbraio 2015, n. 2758). Solo se dall'esame di questi elementi risulterà una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo sarà risarcibile sotto il profilo del lucro cessante.
Alla luce di tali principi la Corte di Cassazione ha quindi respinto il ricorso proposto dal lavoratore, ritenendo priva di vizi la decisione della Corte territoriale.

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