Contenzioso

Trasferimento d’azienda illegittimo: semaforo rosso alla «doppia retribuzione»

di Giampiero Falasca

Se un trasferimento di azienda viene dichiarato illegittimo, il lavoratore che torna alle dipendenze del cedente non può chiedere il pagamento delle retribuzioni che avrebbe percepito dalla cessione alla sentenza se durante tale periodo ha comunque percepito la retribuzione dal cessionario.

Con questa decisione il Tribunale di Trento (sentenza 86/2020), ponendosi in contrasto con l'orientamento attualmente maggioritario della Corte di cassazione, riapre la questione della “doppia retribuzione” dei lavoratori il cui rapporto di lavoro cambia titolarità come effetto di un atto di cessione di azienda, nel caso in cui l'accordo sia dichiarato nullo.La questione riguarda, in particolare, il trattamento economico dovuto al lavoratore dal vecchio datore di lavoro quando questo rifiuta di ricostituire il rapporto: deve pagare la retribuzione che sarebbe spettata dal momento della cessione a quello della sentenza, oppure può negare tale pagamento eccependo il fatto che l'ex cessionario ha comunque pagato la prestazione?

La Corte di legittimità non ha dato, in questi anni, risposte univoche alla domanda, anche se attualmente prevale un orientamento (tra le tante, si veda Cassazione 9093/2020) che riconosce il diritto alla cosiddetta doppia retribuzione. Secondo tale orientamento, il datore di lavoro che a seguito della sentenza vede ripristinare il rapporto con il lavoratore e rifiuta di adempiere non può detrarre dagli emolumenti dovuti per il passato quanto lo stesso lavoratore abbia percepito, a titolo di retribuzione, per l'attività prestata in favore dell'ex cessionario.

Il Tribunale di Trento si discosta da tale lettura, pur precisando di essere consapevole della funzione nomofilattica svolta dalla Cassazione; la sentenza ricorda che tale funzione deve essere intesa alla luce dei principi costituzionali, e quindi ritiene ammissibile un dissenso motivato. In tale prospettiva, la sentenza esclude che il lavoratore, a seguito dell'annullamento del trasferimento di azienda, possa essere parte di due prestazioni (una «prestazione materiale» nei confronti del già cessionario, e una «prestazione giuridica» nei confronti del già cedente che nasce come effetto della sentenza), come invece affermato dalla Corte di cassazione.

Il giudice di merito ritiene, al contrario, che sia “una ed una sola” la prestazione oggetto dell'obbligazione del lavoratore che vede ripristinare il proprio rapporto con il datore di lavoro originario. Queste unicità discende dal fatto che i due rapporti di lavoro subordinato - quello giuridico sussistente tra l'ex cedente e l'ex ceduto e quello di fatto tra l'ex cessionario e l'ex ceduto - hanno per oggetto la medesima prestazione lavorativa e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva, sebbene diversa sia la fonte giuridica dell'obbligazione di cui costituisce oggetto. In questo quadro, esiste un vincolo di solidarietà tra le due obbligazioni retributive poste a carico dell'ex cedente e dell'ex cessionario, e come tale va escluso il diritto alla “doppia retribuzione”.

La sentenza applica un principio molto ragionevole (sul piano meramente fattuale, appare irragionevole riconoscere la doppia retribuzione in una situazione dove l'attività lavorativa non si è duplicata), ma è ancora presto per capire se produrrà un effettivo ripensamento sulla Corte di legittimità o se, invece, è destinata a essere rivista nei successivi gradi di giudizio.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©