Contenzioso

Il recesso è licenziamento se si toccano elementi essenziali del contratto

di Angelo Zambelli

Con ordinanza 15401/2020, la Cassazione, con succinta motivazione e ritenendo di uniformarsi all’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria interpretativo della direttiva 98/59 Ce in materia di licenziamenti collettivi, ha ampliato le fattispecie che vanno considerate ai fini dell’applicazione della legge 223/1991 (si veda anche «Il Sole 24 Ore» del 21 luglio).

In particolare ha statuito che, nella nozione di licenziamento, debbano essere ricomprese tutte le fattispecie in cui il datore di lavoro proceda, unilateralmente e a svantaggio del dipendente, a una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del rapporto, anche su richiesta del lavoratore medesimo (tra le altre Corte Ue 11/11/2015 nella causa C-422/14).

Aderendo a tale interpretazione della direttiva comunitaria, la Cassazione ha ritenuto di poter superare l’attuale, consolidato, orientamento della giurisprudenza italiana secondo cui il termine “licenziamento” ai fini dell’articolo 24 della legge 223/1991 va inteso in senso tecnico (senza potervi parificare qualunque altro tipo di cessazione determinata da una scelta del lavoratore, come dimissioni, risoluzioni concordate o prepensionamenti). Pertanto ha fatto rientrare in tale nozione le risoluzioni consensuali derivanti dalla mancata accettazione di un trasferimento.

Tale dirompente assimilazione spiana la strada a una dilatazione incontrollata del concetto di licenziamento: potrebbe a questo punto ben ricomprendere le dimissioni nell’ambito di accordi di prepensionamento oppure quelle conseguenti a un trasferimento d’azienda secondo l’articolo 2112 del Codice civile o, ancora, quelle “qualificate” dei Ccnl per i dirigenti. Inoltre le aziende si trovano oggi esposte al concreto rischio che ogni recesso individuale intimato per motivi oggettivi venga successivamente dichiarato in violazione delle norme sui licenziamenti collettivi, per non avere tenuto in considerazione un novero indeterminato di dimissioni o di risoluzioni consensuali avvenute nei 120 giorni precedenti.

Si ritiene che la decisione della Cassazione, oltre a essere stata scarsamente motivata sul punto, sia del tutto irragionevole e contrastante con la giurisprudenza comunitaria che essa stessa cita. A ben vedere, infatti, le ipotesi che la Corte di giustizia ha ritenuto di assimilare alla nozione di licenziamento sono quelle in cui l’azienda ha proposto al lavoratore il mutamento di elementi essenziali del rapporto (come una riduzione della retribuzione) e questi, non accettando la modifica, abbia quindi prestato il consenso alla cessazione dello stesso. Si tratta di casi in cui il consenso del lavoratore alla modifica del rapporto costituiva il presupposto di validità della modifica stessa e, pertanto, la risoluzione del contratto era in qualche modo subita per effetto di una scelta aziendale.

Caso del tutto diverso è quello di un trasferimento (e quindi di un mutamento della sede di lavoro) che, in primo luogo, non costituisce un elemento immodificabile del rapporto di lavoro a differenza della retribuzione e che, nel nostro ordinamento, secondo l’articolo 2103 del codice civile, non necessita neppure del consenso del lavoratore, laddove sorretto da comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive. Quindi l’eventuale risoluzione del rapporto che ne può conseguire è una fattispecie che non può e non deve essere assimilata a quella di un licenziamento ai fini della legge 223/1991.

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