Contenzioso

Nello stesso livello contrattuale le mansioni possono cambiare

di Angelo Zambelli

L'articolo 3 del Dlgs n. 81/2015, in vigore dal 25 giugno 2015, ha modificato in modo significativo la disciplina dello ius variandi (ovvero la facoltà del datore di lavoro di variare unilateralmente le mansioni assegnate al dipendente): in particolare, l'attuale versione dell'articolo 2103, comma 1, del Codice civile non ne subordina più la legittimità al giudizio di equivalenza sostanziale fra le mansioni precedentemente espletate dal lavoratore e quelle di nuova adibizione, limitandosi a richiedere che le seconde siano «riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte». In altri termini, in caso di modifica delle mansioni non è più necessario tenere conto del bagaglio professionale acquisito nel corso del rapporto di lavoro (equivalenza in senso sostanziale), essendo sufficiente accertare la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello e categoria legale di inquadramento rispetto alle precedenti (equivalenza in senso formale).
Per valutare se il caso concreto possa integrare o meno un'ipotesi di esercizio illegittimo dello ius variandi, e quindi una fattispecie di demansionamento, è dunque essenziale verificare previamente quale “versione” della disposizione in esame sia applicabile ratione temporis, potendone conseguire conclusioni del tutto opposte.
Nel caso affrontato recentemente dalla Cassazione con l'ordinanza n. 16594 del 3 agosto 2020 qui in commento, una dipendente – inquadrata nell'Area Funzionale Operativa livello C del Ccnl di riferimento – aveva lamentato una dequalificazione professionale subita nel periodo 16 luglio 2007 – 12 marzo 2010. La Corte d'appello di Roma, con sentenza del 18 settembre 2015, aveva accolto la domanda risarcitoria proposta dalla lavoratrice, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, avendo accertato che la medesima, a dispetto delle mansioni precedentemente svolte (attività di carattere amministrativo di coordinamento ed incarichi di responsabilità ed autonomia), era stata poi adibita a mansioni meramente manuali, svolte secondo procedure standardizzate. Per quanto qui di interesse, nessuna rilevanza era stata attribuita alla circostanza dedotta dal datore di lavoro circa l'esistenza di una clausola di fungibilità professionale relativa alle diverse mansioni ricomprese all'interno della medesima area di classificazione contrattuale.
La Corte di legittimità ha respinto il ricorso proposto dal datore di lavoro, osservando in particolare che «la garanzia prevista dall'articolo 2103 del Codice civile opera (…) anche tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione collettiva, precludendo l'indiscriminata fungibilità di mansioni per il solo fatto dell'accorpamento convenzionale», richiamando sul punto l'orientamento giurisprudenziale formatosi nella vigenza dell'articolo 2103 del Codice civile ante 25 giugno 2015.
Sebbene non espressamente precisato nell'ordinanza in commento, appare evidente che l'applicabilità al caso in questione dell'attuale testo dell'articolo 2103 del Codice civile avrebbe potuto condurre a esiti ben diversi. A conferma di ciò, merita menzione la sentenza del Tribunale di Trieste n. 120 del 20 giugno 2019, relativa a un asserito demansionamento realizzatosi a cavallo delle due versioni della citata norma: infatti, mentre con riferimento al periodo soggetto alla “vecchia” disciplina il Giudice ha correttamente affrontato la questione dell'equivalenza sostanziale delle mansioni assegnate nel tempo alla lavoratrice, di contro, relativamente al periodo soggetto al “nuovo” articolo 2103 del Codice civile, il Giudicante si è semplicemente limitato a constatare la riconducibilità delle nuove mansioni al medesimo livello di inquadramento attribuito alla dipendente, concludendo per ciò solo per il legittimo esercizio dello ius variandi.

L'ordinanza 16594/2020 della Corte di cassazione

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