Contenzioso

Fallimenti, lavoratore ammesso al passivo al lordo dei contributi a suo carico

di Mauro Pizzin

In caso di fallimento del datore di lavoro, il lavoratore deve essere ammesso al passivo per le retribuzioni non corrisposte al netto della quota contributiva gravante sul datore e al lordo di quella gravante sul lavoratore medesimo.
Riconfermando la validità del principio già espresso dalla sentenza n. 23426/2016, i giudici di legittimità, con l'ordinanza n. 18333, depositata ieri, hanno riconosciuto le ragioni di un dipendente di una Srl, poi fallita, da cui non aveva percepito alcune mensilità di retribuzione e il Tfr.
Ammesso al fallimento come creditore privilegiato, il Tribunale di Prato aveva riconosciuto all'uomo un credito in misura ridotta rispetto a quanto da lui richiesto, eliminando dal conteggio la quota contributiva a suo carico. Secondo la corte di merito, l'orientamento espresso dalla sentenza n. 23426 già citata non sarebbe applicabile in caso di procedura fallimentare in quanto la sanzione non verrebbe più posta a carico dell'imprenditore, ma dei creditori chirografari, «i quali vedrebbero insinuato due volte, e pure in via privilegiata, il medesimo credito», aggiungendo che «dato il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali di cui all'articolo 2116 del Codice civile, nessun pregiudizio deriverebbe al lavoratore dalla mancata ammissione al passivo della quota di contributi al medesimo riferibili».
Nel sostenere le ragioni del lavoratore, la Cassazione ha ricordato che in base all'articolo 19 della legge n. 218/1952 il datore è sempre responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte carico del lavoratore e che questi vengono trattenuti dallo stesso datore alla scadenza del periodo di paga a cui si riferiscono. Tale norma va combinata con il successivo articolo 23, comma 1, della stessa legge, secondo cui il datore di lavoro che non provvede al pagamento dei contributi entro il termine stabilito o vi provvede in misura inferiore al dovuto è tenuto al pagamento dei contributi e delle parti di contributi non versata tanto per la quota a proprio carico quanto per quella a carico dei lavoratori, oltre a una somma aggiuntiva pari a quella dovuta e a un'ammenda per ogni dipendente per il quale sia stato omesso in tutto o in parte il pagamento del contributo.
Sulla base di questo meccanismo sanzionatorio – hanno ricordato i giudici di legittimità – la Cassazione ha precisato in numerose sentenze (fra le altre Cass. nn. 18897/19, 25956/17 e 18044/15) che l'accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive vanno effettuati al lordo della parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore, se il datore non abbia tempestivamente adempiuto all'obbligo di versamento contributivo, perché in tal caso anche la quota gravante sul lavoratore resta a carico del datore.
Come conseguenza, il lavoratore rimane liberato dall'obbligazione retributiva a suo carico e il suo credito retribuitivo si espande in sede fallimentare fino a comprendere detta quota. Il rischio di una duplice insinuazione paventato dal Tribunale di Prato viene quindi «in radice escluso in quanto, ove il datore non abbia provveduto al tempestivo versamento della quota trattenuta sulla retribuzione del dipendente, viene meno l'obbligo contributivo pro quota del lavoratore e quindi il credito del predetto assumente interamente natura retributiva».

L'ordinanza n. 18333/2020 della Cassazione

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