Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento disciplinare
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale
Invalidità del trasferimento d'azienda

Licenziamento disciplinare

Cass. Sez. Lav. 19 agosto 2020, n. 17321

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; Ric. G.E.M.+2; Controric. P.I.S.P.A.;

Lavoro subordinato – Licenziamento disciplinare – Elencazione fattispecie disciplinarmente rilevanti del CCNL – Vincolatività per il giudice – Sussistenza laddove è prevista sanzione conservativa – Ipotesi in cui le parti non hanno voluto escludere il licenziamento per fattispecie più gravi – Esclusione

La giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di recesso sono nozioni legali ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza di un licenziamento disciplinare per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato. Il principio generale subisce eccezione ove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (legge n. 604 del 1966, art. 12). Pertanto, ove alla mancanza sia ricollegata una sanzione conservativa, il giudice non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall'autonomia delle parti, a meno che non si accerti che le parti stesse "non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva", dovendosi attribuire prevalenza alla valutazione di gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore, compiuta dall'autonomia collettiva nella graduazione delle mancanze disciplinari
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Catanzaro aveva respinto, in riforma della sentenza di primo grado, la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo soggettivo intimato dalla società datrice di lavoro ad una lavoratrice per avere la stessa svolto operazioni preliminari all'apertura di quattro conti correnti su richiesta di un soggetto mai identificato né mai presentatosi in filiale, sulla base di moduli e copie di documenti falsi. La lavoratrice aveva anche indotto la propria sottoposta, assunta da poco, all'apertura dei conti garantendo circa la serietà dei soggetti coinvolti.
La Corte aveva ritenuto che i fatti, pacificamente sussistenti, benché non rientranti nella previsione dell'art. 54, comma 5, lett. c) del CCNL applicato al rapporto (che prevedeva il licenziamento con preavviso per «violazione dolosa di leggi o regolamenti o dei doveri di ufficio che possano arrecare o che abbiano arrecato forte pregiudizio alla società o a terzi») in mancanza dell'elemento del grave danno alla società, integrassero in ogni caso un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali tale da fondare legittimamente il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice sostenendo, in sintesi, che la Corte avesse errato nella decisione avendo ritenuto di prescindere dalla scala valoriale della gravità delle infrazioni tipizzate dal CCNL applicato la quale avrebbe consentito di inquadrare la condotta nella fattispecie di cui all'art 54, comma 5, lett. n) che prevedeva una sanzione conservativa laddove dalle condotte non fosse derivato alcun danno alla società.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra e rigettato l'intero ricorso.
In particolare la Suprema Corte ha rilevato che, in generale, in caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo, il giudice non è vincolato dalla tipizzazione del codice disciplinare incluso nel CCNL applicato, pur rimanendo quest'ultimo un elemento di valutazione per il giudicante, in quanto le stesse rappresentano fattispecie legali. Tale regola generale, sempre secondo la Cassazione, trova un'eccezione laddove il CCNL preveda, per una determinata fattispecie, una sanzione conservativa: in tal caso il giudice è vincolato dalla previsione del CCNL e non può ritenere la condotta tale da integrare un'ipotesi di licenziamento legittimo salvo che «si accerti che le parti stesse non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità di una sanzione espulsiva».
Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi laddove ha rilevato che l'infrazione disciplinare a carico della lavoratrice fosse di gravità tale da fondare il licenziamento con preavviso a fronte della pacifica violazione di norme interne, della normativa antiriciclaggio e della intenzionalità e peculiarità oggettiva delle condotte (ivi incluso il ruolo rivestito dalla lavoratrice e la strumentalizzazione dello stesso nei confronti della propria subordinata).
La Corte di Cassazione ha infatti rilevato che non solo l'art. 54, comma 5, lett. n) invocato dalla lavoratrice prevede una sanzione conservativa applicabile «in genere, per qualsiasi negligenza o inosservanza di leggi o regolamenti o degli obblighi di servizio deliberatamente commesse, anche per procurare indebiti vantaggi a sé o a terzi, ancorché l'effetto voluto non si sia verificato e sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità, altrimenti sanzionabile» ma anche che la lettura complessiva dell'articolo lascia intendere che «le parti sociali hanno inteso prevedere una scala valoriale via via crescente in relazione sia al numero delle infrazioni commesse, sia ai requisiti soggettivi ed oggettivi della condotta, tale da ricollegare alle ipotesi di maggiore gravità la sanzione espulsiva»: si tratta dunque di un'ipotesi in cui il giudice non è vincolato alle previsioni collettive poiché le parti non hanno inteso escludere la sanzione del licenziamento per le ipotesi più gravi.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 20 agosto 2020, n. 17492

Pres. Di Cerbo; Rel. Buffa; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.M.P.S. S.p.A.; Controric. Z.C.

Licenziamento - Giusta causa - Nozione legale – Tipizzazione CCNL - Vincolatività - Esclusione

La giusta causa di licenziamento è una nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
NOTA
Una dipendente di una banca veniva licenziata per giusta causa in ragione di due episodi in cui il datore di lavoro aveva riscontrato degli ammanchi di cassa.
La Corte d'Appello di Trieste, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva illegittimo il licenziamento, condannando la banca alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, al pagamento in suo favore di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto ed alla regolarizzazione contributiva.
Nello specifico, la Corte territoriale aveva ritenuto applicabile la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio in luogo del licenziamento previsto dal CCNL applicato per ipotesi dolose di fatti causativi di danni, avendo rilevato, da un lato, che l'azione disciplinare era stata avviata tardivamente dalla banca, dall'altro, che le due deficienze di cassa, di 300 euro ciascuna, erano state commesse per negligenza, erano state subito ripianate e, comunque, non sanzionate dalla banca in occasione di un precedente analogo episodio.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la banca che, tra le altre cose, lamentava, con il primo e il sesto motivo di ricorso, la violazione dell'art. 18, comma 4, L. 300/1970 e degli artt. 2118 e 2119 c.c., per avere la sentenza «valutato la condotta disciplinarmente rilevante sulla base delle sole previsioni del codice disciplinare, per di più aventi carattere generico, trascurando che era comunque configurabile una giusta causa di recesso, nozione questa da valutarsi sulla base di parametri sociali ed ordinamentali di carattere generale ed astratto risultanti dalla giurisprudenza in materia».
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondati i suddetti motivi di ricorso.
Osserva infatti la Corte che la giusta causa di licenziamento è una nozione di carattere legale, con la conseguenza che il giudice non è vincolato dalle previsioni contenute nel contratto collettivo, ma può, quindi, sia ritenere sussistente la giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile (ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore), sia escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.
Ad avviso della Suprema Corte, nel caso in esame la Corte di merito «aveva del tutto omesso di valutare se l'illecito contestato, per le sue caratteristiche oggettive e soggettive, integrasse una giusta causa o un giustificato motivo di recesso datoriale, anche in base al grado di negazione dei doveri di fedeltà e diligenza e al livello di scostamento dalle regole aziendali interne, arrestando la propria indagine alle valutazioni, peraltro generiche, del regolamento disciplinare».
In conclusione, poiché i giudici di merito non avevano effettuato la necessaria valutazione della ricorrenza dei presupposti legali del recesso, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, rinviando la causa alla Corte d'Appello, in diversa composizione, affinché essa valuti, «alla stregua delle circostanze tutte del caso concreto, se la condotta posta in essere dalla lavoratrice possa o meno essere ricondotta alla nozione legale di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 29 luglio 2020, n. 16253

Pres. Di Cerbo; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.; Controric. S.P.

Cessazione dell' appalto - Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Mancanza di nesso causale tra il recesso e il motivo addotto a suo fondamento - Art. 18 come modificato dalla legge Fornero - Manifesta insussistenza del fatto - Configurabilità – Reintegrazione nel posto di lavoro - Sussiste

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per cessazione appalto, l'assoluto difetto di collegamento fra la cessazione dell'appalto e l'attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato - alla luce non solo della ordinarietà delle cessazioni degli appalti nell'attività imprenditoriale, ma anche dell'assenza di qualsivoglia elemento di prova circa la stabile adibizione del dipendente all'appalto cessato, unitamente all'assenza di qualsivoglia descrizione circa la struttura organizzativa della società e gli appalti in essere al momento del licenziamento - è sussumibile nell'alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell'art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria attenuata.
NOTA
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Roma respingeva il reclamo avverso la decisione resa in sede di opposizione dal Tribunale che aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore per giustificato motivo oggettivo in relazione alla intervenuta cessazione dell'appalto ove lo stesso era impiegato, sul presupposto, tra il resto, che la Società non avesse allegato né dimostrato la relazione sussistente fra la perdita dell'appalto e il venir meno della utilità del lavoratore in esubero. In particolare, la Corte d'Appello escludeva che la cessazione dell'appalto potesse costituire di per sé un giustificato motivo di licenziamento in assenza appunto della prova del necessario nesso causale tra la ragione organizzativo produttiva posta a base del recesso e la soppressione del posto di lavoro del lavoratore, atteso che il dipendente non era addetto esclusivamente né prevalentemente a tale appalto.
Per la cassazione della pronuncia ha proposto ricorso la Società lamentando tra il resto «la violazione della L. n. 300 del 1970 per l'erronea applicazione dei commi 4 e 7 dell'art. 18 nell'attuale formulazione».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ricordando che «in tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, la ritenuta mancanza di un nesso causale tra il recesso datoriale e il motivo addotto a suo fondamento è sussumibile nell'alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica, ai sensi dell'art. 18, comma 7, l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, la tutela reintegratoria attenuata». In particolare, secondo la Corte di legittimità, nel caso di specie, la Corte di merito non ha potuto che escludere ictu oculi la sussistenza del nesso di causalità̀ - e, quindi, del fatto costituente giustificato motivo oggettivo del licenziamento – poiché nel corso del giudizio non erano emersi, nemmeno in modo sommario, elementi atti a far ritenere che la posizione del dipendente fosse in esubero o che lo stesso non fosse più proficuamente utilizzabile. Sul punto è mancata, infatti, la prova di qualsiasi collegamento fra la cessazione dell'appalto e l'attività lavorativa svolta dal lavoratore.
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso affermando che «tale insussistenza ictu oculi si traduce nella manifesta insussistenza del fatto proprio in quanto lo stesso appare difettare tout court in modo così evidente da aver correttamente indotto il giudice di secondo grado ad optare per la tutela reintegratoria attenuata di cui al comma 4 dell'art. 18 nel suo combinato disposto con il settimo comma».

Infortunio sul lavoro e responsabilità datoriale

Cass. Sez. Lav. 6 agosto 2020, n. 16796

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Cimmino; Ric. P.; Controric. B.R.D.B e R. P. s.n.c.

Infortunio - Art. 2087 c.c. - Responsabilità datoriale - Responsabilità oggettiva - Esclusione – Datore di lavoro - Violazione obblighi di comportamento - Colpa - Necessità.
Infortunio - Art. 2087 c.c. - Onere probatorio – Ripartizione – Danno subito – Nocività dell'ambiente di lavoro – Nesso di causalità – A carico del lavoratore – Adozione delle misure di sicurezza – A carico del datore di lavoro.

Infortunio - Art. 2087 c.c. - Responsabilità datoriale – Responsabilità contrattuale – Nesso di causalità - Criteri probabilistici – Necessità.

L'art. 2087 c.c. non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, (con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa), occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza.
Dal momento che la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento, imposti da norme di legge ma anche suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno medesimo e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
L'ambito dell'art. 2087 c.c. riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.
NOTA
Un lavoratore veniva investito, durante l'orario di lavoro e mentre si trovava all'interno del terreno di pertinenza della società datrice di lavoro, da un muletto aziendale, subendo quindi un infortunio.
Proposto ricorso per ottenere il risarcimento del danno differenziale, il ricorrente vedeva rigettata la sua domanda giudiziale sia dal Giudice di prime cure che dalla Corte di Appello territorialmente competente.
Infatti, in entrambi i gradi di giudizio, i Giudici ritenevano non dimostrata la peculiare modalità di verificazione dell'infortunio come dedotta in ricorso e, soprattutto, ritenevano insufficienti le allegazioni di parte ricorrente che, nella loro ricostruzione, non aveva dedotto né quali fossero state le violazioni degli obblighi di protezione che gravano sul datore di lavoro ex art. 2087 c.c. né quale fosse il nesso di causalità tra la violazione e l'evento lesivo.
Avverso la sentenza della Corte di appello, il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione affidato – per quel che qui rileva – a due distinti motivi.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, parte ricorrente deduce l'erroneità della decisione del giudice di gravame nella parte in cui ha ritenuto la domanda infondata per insufficienti allegazioni attoree. Secondo il lavoratore in realtà il ricorso era perfettamente completo dal punto di vista allegatorio, risultando dedotte sia le modalità di accadimento del fatto sia l'esposizione degli elementi di diritto su cui la domanda si fondava. Ebbene, con la sentenza in epigrafe, la S.C. rigetta il primo motivo di ricorso ritenendo la decisione della Corte territoriale perfettamente congrua sotto il profilo motivazionale. Secondo la Corte, infatti, il Giudice del gravame, con una valutazione di fatto, del tutto immune da vizi logici e sottratta (quindi) al sindacato di legittimità, ha fatto corretta applicazione del consolidato principio di legittimità secondo cui, ai fini dell'accertamento della responsabilità datoriale, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l'uno e l'altro, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Infatti, la mera circostanza di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell'attività lavorativa non determina, di per sè, l'addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l'altro, della nocività dell'ambiente di lavoro; prova che, secondo la S.C., la Corte territoriale, con accertamento di merito, incensurabile in sede di legittimità, ha categoricamente escluso.
Con il secondo motivo parte ricorrente deduce invece la violazione, da parte dei Giudici di gravame, dell'art. 2087 c.c. per errata applicazione dei principi di ripartizione dell'onere della prova in materia di sicurezza sul posto di lavoro. Anche sul punto, la S.C. ritiene non accoglibile il ricorso.
E, infatti, secondo i Giudici di legittimità, l'art. 2087 c.c. non contempla una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo sempre che l'evento sia riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza.
Ribadito, quindi, che la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge ma anche suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, la S.C. sottolinea che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno medesimo e che la malattia del dipendente non sia ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
L'ambito dell'art. 2087 c.c. riguarda, infatti, una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici.
Alla luce di tutti i principi ora esposti, la S.C. conclude che la decisione della Corte territoriale di ritenere insufficienti non solo le produzioni, ma, prima ancora, le stesse allegazioni di parte ricorrente in ordine alla ricostruzione del fatto come descritto dal ricorrente, in contrasto con l'onere probatorio su di lui gravante, risulta del tutto congrua ed immune da vizi logici e, come tale, da confermare in sede di legittimità.

Invalidità del trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav. 20 agosto 2020, n. 17491

Pres. Di Cerbo; Rel. Pagetta; P.M. Sanlorenzo; Ric. P. C. G.; Controric. T. I. S.p.A.

Trasferimento di azienda – Invalidità – Inadempimento dell' ordine di reintegrazione del lavoratore – Pagamento della retribuzione – Necessità – Prestazione di fatto in favore del cessionario e messa a disposizione della prestazione lavorativa in favore del cedente – Sorte del rapporto di lavoro con il cessionario rispetto al cedente - Irrilevanza

Il trasferimento di azienda comporta la continuità di un rapporto di lavoro che resta unico ed immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all'articolo 2112 c.c., che, in deroga all'art. 1406 c.c., consente la sostituzione del contraente senza consenso del ceduto. Tale unicità è destinata a venire meno qualora il trasferimento sia dichiarato invalido, con la conseguenza che con il soggetto cessionario si instaura un nuovo rapporto, diverso da quello instaurato con il soggetto cedente; l'unicità del rapporto presuppone, infatti, la legittimità della vicenda traslativa regolata dall'art. 2112 c.c., sicché accertatane l'invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale); in caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione) il rapporto di lavoro, quindi, non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente (cfr. da ultimo: Cass. 28/02/2019, n. 5998). Da tanto consegue che le vicende concernenti il rapporto "di fatto" instaurato con il soggetto cessionario non possono spiegare alcuna efficacia sul (parallelo) rapporto di lavoro con il cedente.
NOTA
La Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale di Milano, respingeva la domanda del lavoratore volta alla condanna della società appellata al pagamento di un importo a titolo del risarcimento del danno che sarebbe stato conseguente alla mancata ottemperanza all'ordine di reintegrazione disposto con altra sentenza resa fra le parti, divenuta esecutiva, la quale accertava l'illegittimità della cessione del ramo di azienda tra la datrice di lavoro e la cessionaria e condannava la prima alla reintegrazione del lavoratore trasferito.
La Corte territoriale, "in dichiarata adesione all'orientamento di legittimità espresso da Cass. n. 20422/2012, intervenuta tra le stesse parti in fattispecie identica a quella in esame tranne che per il periodo oggetto di pretesa", riteneva che "l'accettazione della messa in mobilità da parte di …. con adesione del lavoratore alle relative proposte conciliative, aveva determinato l'estinzione dell'unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l'impresa cessionaria. Tanto determinava l'obbligo di restituzione di quanto nelle more percepito dal lavoratore in esecuzione della sentenza di primo grado".
Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c., poiché "la tesi di controparte circa la efficacia estintiva della transazione scaturiva dal presupposto della esistenza di un valido trasferimento di azienda, presupposto escluso dalla sentenza della Corte di Cassazione che aveva definito il giudizio per l'accertamento della illegittimità della cessione".
La Suprema Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiarando inammissibili gli altri, cassando la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, e ricordando di aderire al recente orientamento della stessa Corte al quale ritiene di dare continuità.
Ed infatti, in caso di accertata illegittimità della cessione di ramo d'azienda, le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione "che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante", non producono un effetto estintivo dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa, in quanto "l'invalidità della cessione determina l'instaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario".
Conclusivamente la Cassazione ritiene che la sentenza della Corte territoriale non sia coerente con la predetta ricostruzione laddove "riconosce l'efficacia estintiva del rapporto con…. .alla conciliazione intervenuta tra il lavoratore e la società cessionaria", e pertanto deve essere cassata per riesame della vicenda processuale.

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