Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. e onere della prova
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Licenziamento per giusta causa
Licenziamento per raggiungimento dei requisiti pensionistici
Licenziamento e svolgimento di altra attività durante la malattia

Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. e onere della prova

Cass. Lav. 11 agosto 2020, n. 16869

Pres. Raimondi; Rel. Negri Della Torre; P.M. Cimmino; Ric. C.M.; Controric. F.

Responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. – Natura contrattuale - Onere della prova - Lavoratore: obbligazione lavorativa, danno e nesso causale - Datore: adempimento degli obblighi di sicurezza - Necessità

La responsabilità conseguente alla violazione dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale, sicché il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio, o l'Istituto assicuratore che agisca in via di regresso, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa e del danno, nonché il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile.
NOTA
Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata che aveva respinto le domande proposte nei confronti di una società da parte degli eredi di un suo ex dipendente, volte ad ottenere il risarcimento iure proprio e iure successíonis dei danni dai medesimi subiti in conseguenza del decesso del loro congiunto per mesotelioma polmonare causato dalla esposizione alle polveri di amianto nel corso del prolungato svolgimento (dal 1963 al 1992) di mansioni di fabbro allestitore presso lo stabilimento della società. La Corte d'Appello a sostegno della propria decisione osservava come nessuna indicazione vi fosse stata, da parte degli eredi del lavoratore, circa le misure di sicurezza che l'impresa avrebbe dovuto adottare per prevenire l'insorgenza della malattia e che erano state invece tralasciate, con l'effetto di liberare il datore di lavoro dall'onere della prova di averle predisposte.
Per la cassazione della pronuncia hanno proposto ricorso gli eredi del lavoratore lamentando «la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. per avere la Corte d'Appello respinto il gravame sul rilievo che nessuna indicazione vi era stata, da parte dei ricorrenti, circa le concrete misure di sicurezza che la Società avrebbe dovuto adottare e che, nel caso di specie, erano state invece tralasciate, erroneamente non considerando che la norma non richiede tali specificazioni, posto che incombe sul datore dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, e stabilendo a carico del danneggiato (e dei suoi eredi) un eccessivo quanto ingiusto aggravio dell'onere probatorio, di fatto ostativo ad una tutela effettiva del diritto alla salute di cui all'art. 32 della Costituzione».
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ricordando il principio di cui alla massima ed ha rinviato ad altra sezione della Corte di appello per il riesame del caso.
I giudici di legittimità hanno rilevato, quindi, l'erroneità della sentenza impugnata laddove ha statuito che «il datore fosse stato liberato dalla dimostrazione di avere predisposto le specifiche e necessarie misure di sicurezza, sul rilievo che "nessuna indicazione da parte istante" vi era stata in tal senso, poiché in tal modo il giudice del merito ha posto a carico del lavoratore (e, per esso, dei suoi eredi) un onere di allegazione non previsto ed inoltre neppure esigibile, in un'ottica di effettività del diritto di azione in rapporto alla rilevanza costituzionale del bene di cui è richiesta la tutela, presupponendo il suo assolvimento una conoscenza dell'organizzazione del lavoro e dei processi produttivi, nonché dello stato della ricerca scientifica e delle conseguenti ricadute applicative, che, mentre è estranea alle possibilità concrete del lavoratore, è naturalmente propria dell'imprenditore, oltre che connessa, per gli aspetti di adeguamento alle acquisizioni sperimentali e tecniche, allo stesso esercizio di un'attività produttiva che deve costantemente svolgersi entro i limiti fissati dall'art. 41, comma 2°, della Costituzione».

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 18 agosto 2020, n. 17219

Pres. Di Cerbo; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. F.S.; Controric. L. S.p.A.;

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Soppressione del posto di lavoro - Controllo giudiziale - Accertamento in concreto della ragione addotta -Sindacabilità della scelta datoriale - Esclusione

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere confermata la sentenza di merito che abbia accertato, con motivazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità, che la riorganizzazione aziendale sia effettiva, che la stessa si ricolleghi causalmente alla ragione dichiarata dall'imprenditore e che il licenziamento si ponga in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione.
NOTA
La Corte di Appello di Brescia ha confermato la sentenza resa in sede di opposizione dal tribunale locale di rigetto dell'impugnativa di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una dipendente in seguito alla soppressione della posizione di lavoro dalla stessa occupata. In particolare, i giudici del merito sottolineavano che l'istruttoria espletata in corso di causa aveva permesso di accertare che la procedura di esternalizzazione dell'ufficio di gestione del personale cui la dipendente era addetta era stata effettiva. Era infatti risultato che nessuna assunzione era stata operata dalla società successivamente all'affidamento della gestione del personale ad uno studio esterno, che la società aveva dato disdetta al contratto di fornitura del software in uso per l'elaborazione delle buste paga, che tutte e tre le addette all'ufficio deputato alla gestione del personale erano state licenziate, che nessuna assunzione era stata effettuata a seguito dei licenziamenti e che il costo aziendale del servizio esternalizzato era notevolmente inferiore a quello sopportato dall'azienda prima di tale esternalizzazione.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo che l'ufficio del personale fosse stato fittiziamente soppresso, dal momento che una delle dipendenti licenziate era stata solo formalmente assunta dallo studio esterno incaricato del servizio, rimanendo di fatto alle dipendenze della società datrice di lavoro.
La Suprema Corte respinge il ricorso affermando il principio di cui alla massima, che riprende affermazioni consolidate (Cass. 15 febbraio 2017, n. 4015; Cass. 28 marzo 2019, n. 8661; Cass. 31 maggio 2017, n. 13808; Cass. 11 novembre 2019, n. 29102), alle quali ritiene che i giudici del merito si siano correttamente attenuti. In particolare, secondo la Cassazione, la Corte territoriale «ha fatto buon governo dei principi espressi da questa Corte circa il controllo giudiziale sull'effettività del ridimensionamento e sul nesso causale tra la ragione addotta e la soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato, nonché sull'ulteriore limite al potere datoriale costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, e cioè quello identificato nella non pretestuosità della scelta organizzativa». La Corte d'Appello aveva infatti verificato che nel caso di specie la riorganizzazione aziendale era stata effettiva e che sussisteva «il nesso causale tra l'accertata ragione inerente l'attività produttiva e l'organizzazione del lavoro come dichiarata dall'imprenditore e l'intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all'operata ristrutturazione».
Il ricorso della lavoratrice viene, pertanto, rigettato.

Licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 21 agosto 2020, n. 17573

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; P.M. Sanlorenzo; Ric. P. C.; Controric. B. B.P.M. S.p.a.

Licenziamento per giusta causa – Settore credito – Violazione normativa antiriciclaggio – Violazione norme interne dell'istituto bancario - Legittimità

In tema di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo ed ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, denotando scarsa inclinazione all'attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza.
NOTA
Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa, per aver effettuato, nel suo ruolo di "Cassiere", numerose operazioni (54) irregolari in violazione delle normative vigenti in materia di antiriciclaggio e di assegni bancari, nonché delle procedure interne dell'istituto bancario; in particolare il lavoratore aveva omesso di "identificare e censire i clienti con riferimento a determinate operazioni, eseguendo bonifici senza previamente acquisire il necessario modulo e la disposizione scritta dell'ordinante ovvero senza previa costituzione della provvista, apponendo falsi visti su alcune operazioni, frazionando importi di un'unica operazione ed effettuando false registrazioni, eseguendo operazioni fittizie, apponendo false firme al posto della madre e della cliente".
La Corte d'Appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale di Alessandria, respingeva la domanda di annullamento del licenziamento intimato al lavoratore, accertando la consapevolezza dello stesso nel porre in essere comportamenti "reiterati e connotati da sicura gravità" che "oltre ad aver determinato un danno per la banca (con riguardo alla perdita delle commissioni sui bonifici) denotavano elevata negligenza, trascuratezza e noncuranza dei doveri tipici del cassiere".
Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e della Legge n. 300 del 1970 articolo 18, comma 4, poiché la sentenza della Corte di Appello aveva errato nella valutazione del rispetto del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzioni disciplinari, non avendo tenuto conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive che avevano determinato la condotta addebitata.
La Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore ricordando che nell'effettuare la verifica di "particolare gravità" della condotta "spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. n. 2013 del 2012 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. nn. 13574, 7948, 5095, 4060 del 2011)".
Pertanto, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di merito, e, dunque, anche la legittimità del licenziamento per giusta causa intimato, ritenendo che i giudici d'appello avessero correttamente rilevato che i comportamenti posti a base del recesso erano, sia per il ruolo rivestito dal lavoratore che per le sue mansioni di cassiere, sia per la condotta effettivamente espletata dallo stesso, consistita nell'aver effettuato 54 operazioni irregolari in violazione della normativa antiriciclaggio nonché delle regole interne alla banca, «non di modesta rilevanza in quanto essi, al contrario, denotano una elevata noncuranza dei doveri tipici del cassiere di banca, concretandosi nella violazione delle normative interne della stessa, dirette ad assicurare, anche mediante la corretta compilazione dei moduli, i doverosi controlli e la registrazione degli ordinanti e quindi la tracciabilità delle operazioni bancarie compiute, ciò' che viene tutelato anche da normativa di rango primario».

Licenziamento per raggiungimento dei requisiti pensionistici

Cass. Sez. Lav. 11 settembre 2020, n. 18955

Pres. Berrino; Rel. Arienzo; Ric. F.A.L.S.R.L.; Controric. A.N.;

Lavoro subordinato – Licenziamento per raggiungimento dei requisiti pensionistici – Diritto al preavviso di licenziamento – Sussistenza

Nel campo dei rapporti di lavoro di natura privatistica, per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro è imposto comunque l'obbligo di
preavviso
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato la società datrice di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso in favore del lavoratore, dirigente licenziato per raggiungimento del diritto alla pensione di vecchiaia. In particolare il lavoratore aveva ricevuto una prima comunicazione nel marzo 2008 con la quale si comunicava la cessazione del rapporto al 30 giugno 2009 e, successivamente, una seconda comunicazione nel gennaio 2009 con la quale si comunicava l'anticipazione del termine di cessazione del rapporto al 4 febbraio 2009.
La Corte aveva ritenuto sussistente l'obbligo di preavviso anche nel caso di recesso per raggiunti limiti di età, dovendosi escludere ipotesi di recesso automatico al compimento di certe età o per il raggiungimento dei requisiti pensionistici nell'ambito del rapporto di lavoro privato.
In merito al quantum dell'indennità sostitutiva la Corte territoriale aveva ritenuto che il preavviso di recesso concesso dalla società fosse limitato al solo periodo intercorso tra la seconda comunicazione (gennaio 2009) e la data di cessazione prevista da tale comunicazione (febbraio 2009) condannando quindi la società al pagamento dell'indennità di preavviso residua rispetto al periodo di 12 mesi previsto dalla contrattazione collettiva.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, in sintesi, la non applicabilità dell'art. 2118 c.c., dovendo nella specie operare la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento del 65° anno di età. Secondo la società datrice, inoltre, il periodo di preavviso avrebbe dovuto essere calcolato dalla data della prima comunicazione e non della seconda, che semplicemente anticipava la cessazione del rapporto, con la conseguenza che lo stesso avrebbe dovuto considerarsi come quasi interamente decorso.
La Suprema Corte ha respinto la prima delle censure di cui sopra, ma ha accolto la seconda, cassando la sentenza e rinviando alla Corte d'Appello di Bari in diversa composizione per il calcolo del preavviso residuo.
In particolare la Suprema Corte ha rilevato che, in generale, la tassatività e tipicità delle cause d'estinzione del rapporto escludono risoluzioni automatiche al compimento di determinate età ovvero con il raggiungimento di requisiti pensionistici, con la conseguenza che in assenza di un valido atto risolutivo del datore di lavoro, il rapporto prosegue con diritto del lavoratore a percepire le retribuzioni anche successivamente al compimento del sessantacinquesimo anno di età. Conseguentemente, prosegue la Corte, «per la risoluzione del rapporto per limiti di età anagrafica del lavoratore, al datore di lavoro è imposto comunque l'obbligo di
preavviso».
Nel caso di specie, dunque, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che andasse rispettato l'obbligo di preavviso di recesso nei confronti del lavoratore. Allo stesso tempo però la Cassazione ha ritenuto errata la valutazione della Corte d'Appello di considerare il preavviso come decorrente dalla seconda comunicazione (del gennaio 2009) in quanto la stessa non rappresentava una comunicazione novativa della prima ma aveva un'efficacia esclusivamente modificativa del termine di cessazione del rapporto ivi indicato (che anticipava). Pertanto, il preavviso di 12 mesi previsto dal CCNL applicato doveva considerarsi come decorrente dalla data della prima comunicazione di recesso (marzo 2008). In conseguenza di ciò la Corte d'Appello di Bari investita del rinvio dovrà calcolare la residua indennità sostitutiva del preavviso tenuto conto di quanto statuito dalla Cassazione in merito alla sua decorrenza.

Licenziamento e svolgimento di altra attività durante la malattia

Cass. Sez. Lav. 2 settembre 2020, n. 18245

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; Ric. D.V.; Controric. F. S.p.a.

Malattia - Svolgimento di altra attività - Fattispecie: lavoratore con dermatite alle mani aiuta la moglie nel bar - Attività incompatibile con la guarigione - Licenziamento - Giusta causa - Legittimità

Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
NOTA
La Corte di appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Avellino che aveva rigettato la domanda del ricorrente volta a dichiarare l'illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli ed ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno.
Secondo la Corte di appello, infatti, l'istruttoria espletata aveva pienamente confermato la sussistenza della giusta causa del licenziamento, in quanto dalla deposizione dei testi era emerso che il ricorrente, nei giorni in cui era assente dal lavoro per una dermatite acuta alle mani, aveva svolto delle attività presso il bar-pasticceria della moglie, inidonee a garantire il recupero della propria integrità fisica. Risultava, infatti, che il ricorrente durante la malattia avesse, presso l'attività commerciale della moglie, lavato stoviglie e preparato caffè, esponendo così le mani a fonte di calore.
La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso, afferma che «il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per ciò solo deve astenersi da ogni altra attività, essendo l'unico limite rappresentato dalla necessaria compatibilità di tale attività con lo stato di malattia e dalla sua conformità all'obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perché cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell'idoneità al lavoro». Difatti, argomenta la Corte «l'espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell'adempimento dell'obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che l'attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (cfr. Cass. 5 agosto 2014 n. 17625, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474)».

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