Contenzioso

Il coniuge non è lavoratore subordinato se è presente in azienda sporadicamente

di Valeria Zeppilli

Tra persone che sono legate tra loro da un vincolo di parentela o di affinità, la prestazione lavorativa si intende di norma resa affectionis vel benevolentiae causa, ovverosia per motivi di affetto e benevolenza. Per tale ragione, la stessa si presume gratuita fino a prova contraria.
Più precisamente, tale presunzione di gratuità, come ribadito di recente dalla Corte di Cassazione (sezione lavoro, 30 settembre 2020, n. 20904), può essere superata solo in presenza di una prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione.
Così, ad esempio, per affermare che la coniuge di un associato presta la propria opera in favore dell'impresa dell'associante occorre dimostrare, tra le altre cose, l'assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l'onerosità della prestazione stessa. La presenza occasionale in azienda, a tal fine, non basta.
Se, quindi, la moglie è presente sul luogo di lavoro in maniera sporadica e i suoi interventi non sono né continuativi né significativi, la stessa non può essere considerata lavoratrice subordinata.
Per comprendere meglio il principio, basti pensare alla vicenda, emblematica, oggetto della recente pronuncia della Corte di cassazione: a essere in contestazione era la natura dell'attività resa da una donna, che chiedeva il riconoscimento del vincolo della subordinazione per aver prestato la propria opera nei negozi di proprietà della nipote del marito e nella cui gestione quest'ultimo era associato in partecipazione.
Nel corso dell'istruttoria, tuttavia, non era emerso alcun elemento tale da provare la sussistenza del vincolo della subordinazione. Anzi: le risultanze del giudizio avevano dimostrato che l'attività della ricorrente si inseriva a pieno in un rapporto di collaborazione familiare e che era anche ascrivibile al disposto dell'articolo 230-bis del codice civile, che regola l'impresa familiare.
La presenza della moglie dell'associato nei negozi da questo gestiti, infatti, era solo saltuaria e gli interventi di supervisione posti in essere dalla donna non erano qualificabili come pregnanti né tanto meno continuativi.
Tali elementi sono stati giudicati dal giudice del merito perfettamente coerenti con la devoluzione dell'attività dell'associante allo zio associato, in conformità agli accordi intervenuti, e tali da non riuscire a dimostrare da soli la sussistenza di un rapporto di subordinazione.
Rapporto di subordinazione che quindi è stato negato, con avallo da parte della Corte di cassazione.

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