Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Autonomia e subordinazione
Lavoro tra parenti e presunzione di gratuità della prestazione
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Demansionamento e danno non patrimoniale

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 6 agosto 2020, n. 16795

Pres. Di Cerbo; Rel. Boghetich; Ric. M.P.; Contr. A. S.p.A.;

Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Indicazione dei motivi - Necessità - Specificazione degli elementi di fatto e di diritto - Non necessità - Prova dei motivi - Non necessità - Indicazione dell'inutilizzabilità aliunde - Non necessità

Il datore di lavoro che intenda licenziare per giustificato motivo oggettivo, ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa, e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.
Nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, non è neppure necessaria l'indicazione della inutilizzabilità aliunde del lavoratore, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio.
NOTA
La Corte di appello di Milano, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58, L. 92/2012, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Como in sede di opposizione Fornero con cui era stata respinta la domanda di annullamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, irrogato dalla società datrice ad un dipendente, a seguito della perdita dell'appalto presso cui era adibito.
A fondamento della predetta domanda, il lavoratore aveva dedotto – tra le altre – che nella lettera di licenziamento l'azienda aveva illegittimamente omesso il riferimento all'ottemperanza all'obbligo di repêchage.
La Corte territoriale riteneva, in particolare, che il licenziamento fosse legittimo in quanto collegato ad esigenze tecnico-produttive ed essendo stata, altresì, dimostrata in giudizio l'esigenza di mantenere in azienda una figura con maggiore professionalità rispetto a quella di un impiegato addetto a mansioni di ordine.
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, ha ritenuto condivisibile il ragionamento della Corte di appello, ribadendo il principio secondo il quale il datore di lavoro ha l'obbligo di comunicare per iscritto i motivi del recesso, ma non è tenuto ad esporre specificamente tutti gli elementi di fatto e di diritto a base del provvedimento, essendo invece sufficiente che indichi la fattispecie di recesso nei suoi tratti e circostanze essenziali, così che in sede di impugnazione non possa invocare una fattispecie totalmente diversa e, a fortiori, non è certamente tenuto a fornire, in sede di esposizione dei motivi, anche la prova degli indicati motivi.
La Cassazione precisa, altresì, che non è neppure necessaria l'indicazione della inutilizzabilità aliunde del lavoratore nella motivazione del licenziamento per soppressione del posto, trattandosi di elemento implicito da provare direttamente in giudizio.
«In tema di licenziamento individuale – chiarisce, da ultimo, la Suprema Corte – la novella dell'art. 2, comma 2, della L. n. 604 del 1966, per opera dell'art. 1, comma 37, della L. n. 92 del 2012, si è limitata a rimuovere l'anomalia della possibilità di intimare un licenziamento scritto immotivato, introducendo la contestualità dei motivi, ma non ha mutato la funzione della motivazione, che resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso; ne consegue che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l'onere di specificarne i motivi, ma non è tenuto, neppure dopo la suddetta modifica legislativa, a esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento» (in senso conforme, si veda Cass. Civ., sez. Lav., sentenza n. 6678/2019).
Con riferimento al caso di specie, dunque, la Corte ha ritenuto che la comunicazione datoriale di licenziamento avesse chiaramente esplicitato la ragione dell'adozione del provvedimento richiamando la perdita dell'appalto cui era adibito il lavoratore.
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore è stato respinto.

Autonomia e subordinazione

Cass. Sez. Lav. 2 ottobre 2020, n. 21194

Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. G.M. S.r.l.; Controric. M.C.

Autonomia/Subordinazione – Rivendicazione natura subordinata del rapporto di lavoro – Requisiti – Soggezione al potere direttivo e di controllo del datore di lavoro – Inserimento nell'organizzazione del datore di lavoro – Indici sussidiari – Continuità della prestazione – Vincolo di presenza – Orario di lavoro – Retribuzione fissa – Valutazione globale – Necessità

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro quale subordinato o autonomo, il requisito proprio della subordinazione è la prestazione dell'attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore e, di conseguenza, l'inserimento nell'organizzazione di questo, mentre gli altri caratteri dell'attività lavorativa, come la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante ma natura unicamente sussidiaria, da valutarsi globalmente come indici probatori della subordinazione stessa.
Licenziamento individuale – Natura ritorsiva – Motivo illecito determinante ed esclusivo – Necessità
In tema di licenziamento ritorsivo, il motivo illecito addotto deve essere, ex art. 1345 c.c., determinante ed esclusivo, cioè deve costituire l'unica e sola ragione del recesso, per cui l'accertamento della natura ritorsiva richiede la previa verifica dell'insussistenza della causale formalmente posta a fondamento del licenziamento.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la natura subordinata del rapporto di lavoro tra il collaboratore e la società e dichiarava la nullità del licenziamento intimatogli perché ritorsivo, con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell'effettiva reintegrazione, oltre alla regolarizzazione contributiva assistenziale e previdenziale.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale sentenza eccependo, inter alia, la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. per avere i giudici di merito erroneamente riconosciuto la natura subordinata del rapporto attribuendo valenza decisiva ad elementi compatibili anche con un rapporto di lavoro autonomo e non evidenziando, invece, l'assenza di alcun assoggettamento gerarchico del lavoratore.
La Corte di cassazione ritiene il motivo infondato, avendo la Corte d'Appello applicato correttamente il principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il requisito proprio della subordinazione è la prestazione dell'attività lavorativa alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore, con inserimento nell'organizzazione di quest'ultimo, mentre gli altri caratteri dell'attività lavorativa, quali la continuità, la rispondenza dei suoi contenuti ai fini propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo determinante ma natura unicamente sussidiaria e vanno valutati globalmente come indici probatori della subordinazione stessa (in senso conforme, Cass. 224/2001, Cass. 4889/2002, Cass. 9256/2009, Cass. 9252/2010).
In particolare, la Corte d'Appello aveva, con congrua motivazione, esaminato e valutato quali elementi comprovanti la natura subordinata del rapporto l'inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa e nel ciclo produttivo per un significativo lasso temporale (6 anni), l'obbligatoria presenza nel luogo di lavoro per una durata minima di otto ore al giorno, la retribuzione fissa erogata mensilmente, l'inclusione nel piano ferie e le concrete modalità di espletamento della attività lavorativa.
Con diverso motivo di ricorso, il datore di lavoro eccepiva altresì la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 18, comma 1, L. 300/1970, per avere la Corte d'Appello ritenuto il licenziamento ritorsivo senza svolgere alcuna istruttoria sul punto, nonostante la società avesse allegato e documentato l'esistenza di un motivo economico alla base dell'interruzione del rapporto.
La Suprema Corte, nel rigettare anche questo motivo di ricorso, ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo cui, in tema di licenziamento ritorsivo, il motivo illecito addotto deve essere, ai sensi dell'art. 1345 c.c., determinante ed esclusivo, cioè deve costituire l'unica e sola causale del recesso, con conseguente necessità di previa verifica dell'insussistenza di una diversa ragione a fondamento del recesso (in senso conforme, Cass. 9468/2019, Cass. 23583/2019).
Questo principio era stato correttamente applicato dalla Corte d'Appello, che aveva considerato il recesso ritorsivo poiché immediatamente successivo alle rivendicazioni, da parte del collaboratore, dei propri diritti retributivi e previdenziali quale lavoratore subordinato; da parte sua, la società non aveva invece provato che l'estromissione fosse stata determinata da fattori economici preesistenti al recesso.

Lavoro tra parenti e presunzione di gratuità della prestazione

Cass. Sez. Lav., ord. 30 settembre 2020, n. 20904

Pres. Balestrieri; Rel. Leo; Ric. U.P.; Controric. S.E.

Lavoro tra parenti – Presunzione di gratuità della prestazione – Superamento della presunzione – Prova rigorosa degli indici della subordinazione- Necessità

Tra persone legate da vincoli di parentela o affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l'assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l'onerosità.
NOTA
Una lavoratrice chiedeva il riconoscimento, in capo all'associante, della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato nell'ambito di una associazione in partecipazione nella quale il marito della ricorrente era associato ed a favore del quale la ricorrente affermava di aver lavorato nella gestione di due negozi.
La Corte territoriale aveva negato la sussistenza, nella fattispecie, degli elementi tipici della subordinazione, osservando che le modalità di svolgimento del lavoro della ricorrente non consentivano di affermare l'automatica imputabilità all'impresa dell'associante delle prestazioni rese a favore dell'associato, nell'ambito di una collaborazione di tipo familiare.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione la lavoratrice, con quattro motivi di ricorso, lamentando, tra le altre cose, che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente onerato la lavoratrice dell'onere di dimostrare il carattere subordinato della prestazione resa e che i giudici di merito avrebbero omesso l'esame del fatto decisivo concernente l'esistenza o meno della subordinazione.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondati i suddetti motivi di ricorso.
Osserva infatti la Corte che i giudici di appello, attraverso un percorso motivazionale condivisibile sotto il profilo giuridico, sono pervenuti alla decisione dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell'istruttoria operata in primo grado (cfr. Cass. n. 18921/2012) e che le doglianze articolate dalla ricorrente si risolvono, in sostanza, in una ricostruzione soggettiva del fatto, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio.
Tuttavia, la Suprema Corte condivide la valutazione operata dalla Corte territoriale, poiché tra persone legate da vincoli di parentela o affinità opera una presunzione di gratuità della prestazione lavorativa, che trova la sua fonte nella circostanza che la stessa viene resa normalmente affectionis vel benevolentiae causa; con la conseguenza che, per superare tale presunzione, è necessario fornire la prova rigorosa degli elementi tipici della subordinazione, tra i quali, soprattutto, l'assoggettamento al potere direttivo-organizzativo altrui e l'onerosità (cfr. Cass. n. 8364/2014; 9043/2011, 8070/2011; 17992/2010; 7024/2015) e, specificamente, la Corte territoriale ha rilevato che le risultanze istruttorie non solo non hanno fornito alcun elemento per accertare il vincolo della subordinazione, ma hanno dimostrato che l'attività della ricorrente si inseriva in un rapporto di collaborazione familiare.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 5 ottobre 2020, n. 21306

Pres. Nobile; Rel. Boghetich; Ric. G. S.r.l.; Controric. B.R.

Licenziamento collettivo - Ambito di applicazione - Singolo reparto - Ammissibilità - Ragioni tecniche/organizzative/produttive - Comunicazione di apertura ex art. 4, comma 3, L. 223/01 - Indicazione - Necessità

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico - produttive, tuttavia è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata (Cass. nn. 203, 4678 e 21476 del 2015, Cass. n. 2429 e 22655 del 2012, Cass. n. 9711 del 2011).
NOTA
La Corte di appello di Napoli riformava la sentenza del Tribunale di Napoli, dichiarando illegittimo il licenziamento collettivo intimato dalla società che veniva quindi condannata a reintegrare un dipendente nel posto di lavoro e a pagare un'indennità risarcitoria di 12 mensilità.
Secondo la Corte di appello, infatti, il licenziamento intimato era affetto da violazione procedurale in quanto la comunicazione di cui all'art. 4, comma 3, legge 223 del 1991, pur avendo illustrato lo stato di crisi economica di tutte le attività svolte nella provincia di Napoli dovuta alla perdita di un importante cliente e alla riduzione progressiva di una commessa, non aveva messo in luce la situazione specifica del personale delle altre unità produttive, «necessaria ai fini della valutazione della infungibilità e dedotta obsolescenza delle mansioni svolte dagli addetti alla sede in crisi, con conseguente assenza di giustificazione della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare in una sola sede della società, violazione dei criteri di scelta e applicazione della tutela reintegratoria».
Avverso tale sentenza ricorreva la società davanti alla Corte di legittimità.
La Corte di Cassazione, rigetta il ricorso e decide come da massima, affermando inoltre che «ben può quindi il datore di lavoro circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare nella comunicazione della L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell'unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l'effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Qualora, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell'obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali (cfr. Cass. n. 4678 del 2015 cit.)». Difatti, se da un lato la società ha il diritto «secondo una legittima scelta dell'imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico - produttive» di effettuare una comparazione dei lavoratori - al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità - anche soltanto nell'ambito di una singola unità produttiva, e non necessariamente sull'intero complesso aziendale, dall'altro la società ha il dovere di giustificare tale limitato campo di selezione attraverso le suddette esigenze tecnico-produttive ed organizzative che hanno dato luogo alla riduzione del personale «onde consentire alle OO.SS. di verificare il nesso fra le ragioni che determinano l'esubero di personale e le unità lavorative che l'azienda intenda concretamente espellere (ex plurimis Cass. n. 32387 del 2019, Cass. n. 203 del 2015; Cass. n. 22825 del 2009; Cass. n. 880 del 2013)».

Demansionamento e danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav. 28 settembre 2020, n. 20466

Pres. Berrino; Rel. Lorito; P.M. Celentano; Ric. O.L.; Controric. U. S.p.A.

Lavoro subordinato - Inattività del lavoratore - Violazione articolo 2103 c.c. - Lesione del diritto fondamentale del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalità - Sussistenza - Risarcimento del danno - Configurabilità - Liquidazione in via equitativa - Ammissibilità - Fattispecie

Il datore di lavoro che lascia in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 cod. civ., ma anche il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.
NOTA
Il Tribunale accoglieva le domande proposte dalla lavoratrice nei confronti della società dichiarando l'illegittimità della collocazione in CIG per i periodi indicati in ricorso e condannando la società al risarcimento del danno da demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato successivamente al periodo di CIG.
La Corte di appello riformava parzialmente la sentenza del Tribunale, rigettando la domanda di risarcimento del danno della lavoratrice e condannandola alla restituzione di quanto percepito in seguito alla esecuzione della sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello promuoveva ricorso la lavoratrice e la Cassazione lo ha accolto.
Per la Suprema Corte l'assegnazione a mansioni inferiori rappresenta un fatto potenzialmente idoneo a produrre conseguenze dannose, non solo di natura patrimoniale (mancata acquisizione di un maggior saper fare, pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali), ma anche di natura non patrimoniale. Dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di quest'ultimo, al pieno ed effettivo dispiegamento della sua professionalità.
Chiarita la potenzialità lesiva dell'assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, si è precisato che qualora questi lasci in condizione di inattività il dipendente non solo viola l'art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell'immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale lesione produce un danno suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa.
Con particolare riferimento al caso in esame, per la Cassazione il Tribunale aveva correttamente statuito dal momento che la lavoratrice, per effetto della sospensione illegittima dal lavoro e dello stato di forzata inattività nel quale è stata mantenuta fra un periodo di sospensione e l'altro, è stata deprivata delle mansioni a lei ascritte, con evidente pregiudizio della normalità delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in cui operava.

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