Contenzioso

Rassegna di Cassazione

di a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

L'interpretazione dell'accordo transattivo
Immediatezza della contestazione disciplinare
Sulla proporzionalità tra infrazione e sanzione disciplinare
Sulla responsabilità ex art. 2087 c.c.
Successione di contratti di lavoro a termine di cui il primo di somministrazione

L'interpretazione dell'accordo transattivo

Cass. Sez. Lav. 23 ottobre 2020, n. 23385

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; Ric. D.A.A.; Controric. C. S.p.A.

Rinunzie e transazioni - Interpretazione - Espressioni letterali usate - Insufficienza - Comportamento delle parti - Rilevanza

In riferimento alla interpretazione del contratto di transazione, per verificare se sia configurabile tale negozio ed il suo effettivo contenuto, occorre indagare innanzi tutto se le parti, mediante l'accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all'incertus litis eventus, senza tuttavia che sia perciò necessario che esse esteriorizzino il dissenso sulle contrapposte pretese, né che siano usate espressioni direttamente rivelatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può anche essere desunta da qualsiasi elemento che esprima la volontà di porre fine ad ogni ulteriore contesa.
NOTA
La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza del Tribunale di Venezia che aveva dichiarato inammissibile la domanda del ricorrente volta ad ottenere, per avere questo ricoperto la funzione di amministratore delegato della società convenuta dal 1996 al 1997, il pagamento del compenso per l'anno 1997 nella misura commisurata dal consiglio di amministrazione della società a favore del nuovo amministratore delegato per l'anno 1998, dando atto altresì di aver rinunciato alle somme relative al 1996 per dedizione alla società. La Corte territoriale aveva quindi confermato quanto disposto dal giudice di prime cure che aveva rilevato che la questione del compenso era stata già oggetto di un accordo transattivo intervenuto tra le parti nel 1998, con il quale, seppure non esplicitato letteralmente, era stato posto fine in modo definitivo non solo al rapporto dirigenziale intercorso tra le parti, ma anche a tutte le questioni riguardanti il ruolo svolto da amministratore delegato del ricorrente.
Tale sentenza veniva impugnata dal ricorrente davanti la Corte di Cassazione in quanto nell'accordo erano stati utilizzati «termini solo al singolare e richiamando il solo rapporto di lavoro dirigenziale come Direttore generale» senza fare alcun riferimento anche ai compensi del ricorrente quale amministratore delegato e ad una contestuale rinuncia ad essi e perché, secondo il ricorrente, la Corte territoriale aveva violato il c.d. principio del gradualismo e non aveva fornito una compiuta ed articolata motivazione della ritenuta equivocità ed insufficienza del dato letterale.
Gli ermellini rigettano il ricorso sostenendo l'analisi svolta dalla Corte territoriale, la quale «condividendo la impostazione decisionale del primo giudice, ha prima di tutto evidenziato una certa discrasia tra il dato letterale della conciliazione, che riguardava la risoluzione anticipata del rapporto di lavoro, e tutto il contesto dello stesso da cui traspariva la non indifferenza rispetto alla fase del rapporto in cui il (n.d.r. ricorrente) era stato amministratore delegato, in quanto il legame tra i due ruoli (quello cioè di amministratore delegato e quello di direttore generale) era stato considerato rilevante nelle intercorse reciproche concessioni. Non vi è stata, pertanto, alcuna lesione del principio di gradualismo nell'uso dei canoni interpretativi del contratto perché il mero significato letterale ed il collegamento tra le varie clausole erano insufficienti alla individuazione del comune intento delle parti (Cass. n. 397 del 2002; Cass. n. 9910 del 2004)».
La Corte di Cassazione ha quindi affermato che «in tema di interpretazione generale dei contratti, qualora le espressioni letterali utilizzate non siano sufficienti per ricostruire la comune volontà delle parti, occorre avere riguardo all'intento comune che esse hanno perseguito» concludendo come da massima.

Immediatezza della contestazione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 novembre 2020, n. 24605

Pres. Berrino; Rel. Arienzo; Ric. R.S.; Contr. F. S.p.A.;

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Contestazione disciplinare - Immediatezza - Arco temporale tra scoperta dell'infrazione e contestazione - Eventuale violazione del diritto di difesa del lavoratore - Fattispecie

In tema di licenziamento per giusta causa, mentre spetta al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentirne la contestazione in via disciplinare, costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l'arco temporale intercorso tra la scoperta dell'illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore.
NOTA
Nel caso di specie la società aveva licenziato il dirigente all'esito di un procedimento disciplinare dopo avergli contestato di aver ricevuto numerose lamentele sul suo operato e di aver disatteso le istruzioni ricevute dal consiglio di amministrazione in merito all'esecuzione di un progetto di riorganizzazione della società.
Il Tribunale adito accoglieva parzialmente il ricorso del dirigente e condannava la società al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. Per il Tribunale, il primo fatto contestato (i.e. lamentele sull'operato del dirigente) doveva ritenersi generico mentre il secondo (i.e. l'aver disatteso precise istruzioni del consiglio di amministrazione), pur essendo disciplinarmente rilevante, doveva ritenersi contestato tardivamente (ovvero tre mesi dopo che la società aveva appreso della mancanza).
La Corte di appello, in riforma della sentenza di primo grado, riteneva che la seconda contestazione non fosse stata affatto tardiva, in quanto, il lasso temporale di tre mesi non poteva essere ritenuto oggettivamente di rilievo e tale da integrare la dedotta tardività. La società aveva bisogno di un tempo più lungo per valutare se l'infrazione commessa dal dirigente avesse in realtà avuto ripercussioni negative sull'attività.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva ricorso il dirigente, ma la Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte, nel caso di specie, il differimento della contestazione era stato necessitato, in conformità ai principi giurisprudenziali della stessa Corte, dalla complessità dell'organizzazione aziendale, sia da un punto di vista logistico che comunicazionale, dalla complessità della questione relativa alla valutazione da effettuarsi, da un punto di vista sostanziale ed economico e dall'esame delle ricadute che il comportamento del dirigente avrebbe avuto sia nel breve che nel lungo periodo. Il differimento era condizionato anche dall'indagine circa l'operato complessivo del dirigente tenendo conto dell'avvenuta sottoscrizione di un accordo in totale contrasto con il mandato ricevuto nella sua posizione dirigenziale nell'ambito delle strategie di gruppo e delle conseguenze che l'avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del predetto avrebbe potuto avere sulla società e sul gruppo, atteso il suo ruolo apicale.
Sulla scorta di tali argomentazioni la Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte di appello ritendendo che, nel caso in esame, la contestazione comunicata tre mesi dopo la conoscenza del fatto doveva ritenersi tempestiva.

Sulla proporzionalità tra infrazione e sanzione disciplinare

Cass. Sez. Lav. 4 novembre 2020, n. 24601

Pres. D'Antonio; Rel. Leo; Ric. C.G.; Controric. F.T.S.

Licenziamento disciplinare – Giusta causa – Richiesta e utilizzo abusivo di un'autovettura – Proporzionalità – Sussistenza

È legittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente che abbia abusivamente ottenuto e utilizzato un'autovettura procurandosela a nome di un altro dipendente e servendosene durante le ferie, senza neppure segnalare il sinistro stradale che lo aveva coinvolto. La condotta costituisce una palese violazione dell'obbligo di fedeltà, posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte del lavoratore.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano, confermando la decisione resa dal Tribunale di Milano, rigettava la domanda del lavoratore volta all'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli per aver ottenuto ed utilizzato un'autovettura senza alcuna autorizzazione, spendendo il nome di un altro dipendente e servendosi del mezzo per tutto il periodo di ferie e senza segnalare adeguatamente un sinistro stradale che lo aveva visto coinvolto.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, lamentando, inter alia, la violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 e 2119 per errata applicazione dei relativi criteri applicativi e, in particolare, per mancata valutazione della proporzionalità tra infrazione e sanzione.
La Corte di Cassazione ritiene il ricorso infondato.
Innanzitutto, la Corte osserva come la giusta causa di licenziamento sia una nozione di legge, che va ad iscriversi in un ambito di disposizioni caratterizzate da elementi normativi e clausole generali (correttezza, obbligo di fedeltà, buona fede, ecc.), che devono essere integrate dall'interprete mediante valutazioni desumibili dalla coscienza sociale, dal costume, dall'ordinamento giuridico ovvero da regole proprie di determinate cerchie sociali, discipline, arti o professioni. Alla luce di ciò, la concreta attitudine della fattispecie a costituire una giusta causa di recesso è censurabile in sede di legittimità soltanto qualora il motivo di ricorso contenga una specifica denuncia di incoerenza tra la valutazione operata dal Giudice di merito e gli standard conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà sociale (in senso conforme, Cass. 25044/2015, Cass. 8367/2014, Cass. 5095/2011).
Ciò premesso, la Suprema Corte rileva come la sentenza impugnata abbia ben sottolineato che il comportamento tenuto dal lavoratore sia idoneo ad integrare un'insanabile rottura del vincolo fiduciario e, quindi, una giusta causa di recesso. E questo anche alla luce dell'art. 2104 c.c., che prescrive che il prestatore di lavoro debba rispettare le disposizioni per l'esecuzione e la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e dai suoi collaboratori dai quali dipende gerarchicamente, avendo altresì l'obbligo di usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della produzione nazionale.
Infine, la Corte di Cassazione ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo cui, poiché il licenziamento disciplinare è giustificato qualora i fatti attribuiti al lavoratore costituiscano una grave violazione degli obblighi connessi al rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l'elemento fiduciario, il Giudice di merito deve valutare gli elementi concreti, e in particolare la natura del rapporto di lavoro, la posizione delle parti, il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente, il nocumento arrecato all'imprenditore, la portata soggettiva dei fatti, nonché i motivi e l'intensità dell'elemento intenzionale o colposo (in senso conforme, ex plurimis, Cass. 25608/2014). La Corte d'Appello di Milano, nel valutare la proporzionalità tra fatti contestati e provvedimento disciplinare, si è attenuta a questi principi ed ha tratto delle conclusioni corrette, anche in considerazione del fatto che la condotta posta in essere dal lavoratore, oltre a violare palesemente l'obbligo di fedeltà, era stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la futura correttezza dell'adempimento da parte del dipendente (in senso conforme, inter alia, Cass. 25044/2015).

Sulla responsabilità ex art. 2087 c.c.

Cass. Sez. Lav. ord. 29 ottobre 2020, n. 23921

Pres. Napoletano; Rel. Bellè; Ric. F.A., M.A., M.P., M.C.; Controric. A.U.S., A.O.U.I.V., G.L.A.O.V.
Responsabilità ex art. 2087 c.c. – Prova del nesso causale – Parametri probabilistici e non meramente possibilistici
In tema di responsabilità contrattuale ed ex art. 2087 c.c., spetta al danneggiato la prova della derivazione dell'evento dalle condizioni di lavoro secondo parametri probabilistici e non meramente possibilistici
NOTA
Gli eredi di un chimico coordinatore defunto proponevano nei confronti del Laboratorio datore di lavoro del loro congiunto domanda di risarcimento danni ex art. 2087 c.c., sostenendo che la morte dello stesso si fosse verificata a causa dell'esposizione, durante il lavoro svolto sin dagli anni 70, ad agenti cancerogeni.
Il Tribunale di Verona rigettava la domanda per intervenuta prescrizione; mentre la Corte territoriale, pur ritenendo il diritto di alcuni coeredi non ancora estinto per prescrizione, rigettava la domanda per mancanza di prova del nesso causale tra la morte e l'esposizione alle sostanze nocive sul luogo di lavoro.
Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione gli eredi che, tra le altre cose, lamentavano, con il terzo motivo di ricorso, la violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 del c.p., degli artt. 1218, 2043, 2049, 2050, 2087, 2697 e 2729 c.c., nonché degli artt. 61, 115 e 116 c.p.c., criticando, in sostanza, le conclusioni cui è pervenuta la Corte Territoriale in ordine al nesso causale.
La Corte di Appello, infatti, pur riconoscendo che il consulente tecnico d'ufficio nominato aveva ammesso quale fattore di rischio potenziale il contatto con agenti chimici quali quelli utilizzati in laboratorio, aveva concluso che nessuna di tali sostanze ha rivestito rilevanza causale nell'insorgenza del tipo di tumore che ha determinato il decesso.
A dire degli eredi ricorrenti tali conclusioni sarebbero censurabili in quanto:
a) non si sarebbe approfondito se l'esposizione professionale a sostanze nocive abbia avuto un ruolo concausale;
b) non si sarebbe accertata l'incidenza concreta dell'abitudine al fumo,
c) sarebbe illogica la tesi del C.T.U. per cui le sostanze cui era esposto il lavoratore avrebbero effetto eziologico rispetto al tumore solo se fumate;
d) non si sarebbe adeguatamente considerata la sussistenza di almeno altri due decessi per tumori di lavoratori presso lo stesso laboratorio, casi per i quali il Tribunale aveva invece riconosciuto il nesso causale;
e) sarebbe impossibile escludere, con ragionevole certezza, l'incidenza delle sostanze cancerogene cui era esposto il lavoratore rispetto al tumore poi insorto, anche in base all'orientamento giurisprudenziale (Cass. pen. 4888/2015) secondo cui per stabilire il nesso causale sulla correlazione esposizione-tumore non vale l'individuazione di studi statistici, ma l'esclusione di interferenza di decorsi alternativi;
f) la perizia avrebbe in ogni caso ammesso il ruolo di possibile concausa delle sostanze chimiche cui era stato esposto il lavoratore.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.
Osserva infatti la Corte che la Corte territoriale ha sostanzialmente ritenuto che, rispetto al tipo di tumore insorto, l'esposizione a sostanze nel corso del lavoro non potesse dirsi munita di rilevanza causale, perché era da ritenere ignota, secondo criteri di validazione scientifica, la loro incidenza.
Tale valutazione, secondo la Suprema Corte, applica correttamente la regola sull'onere della prova in tema di responsabilità contrattuale ed ex art. 2087 c.c., spettando al danneggiato la prova della derivazione dell'evento dalle condizioni di lavoro (cfr., tra le tante, Cass. 26495/2018; Cass. 2038/2013), secondo parametri probabilistici e non meramente possibilistici (Cass. 25151/2017).
Quanto ai profili riguardanti l'apprezzamento del ricorrere in concreto del grado probabilistico giuridicamente richiesto, così come quello sulla misura probabilistica di altri fatti causalmente rilevanti (quali l'incidenza causale dell'esposizione lavorativa, il rilievo da attribuire al fumo, la considerazione degli altri decessi) si tratta di aspetti relativi al convincimento del giudice di merito e pertanto insindacabili in sede di legittimità, con i soli limiti dettati dall'art. 132 n. 4 e n. 5 c.p.c. circa l'esistenza e la coerenza di motivazione.
Ritiene la Corte che nella fattispecie non sussistono vizi di inesistenza o manifesta illogicità di motivazione, e pertanto il ricorso deve essere respinto, in quanto essenzialmente finalizzato a proporre una diversa valutazione del merito della causa, certamente estranea all'ambito del giudizio di legittimità.

Successione di contratti di lavoro a termine di cui il primo di somministrazione

Cass. Sez. Lav. 2 novembre 2020, n. 24211

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. A.H. S.p.A.; Contr. I.R.;

Contratto a termine in somministrazione – Successivi contratti a termine – Impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto – Mancata impugnazione del contratto di somministrazione – Decadenza rispetto a quest'ultimo

La singolarità dei contratti di somministrazione e l'inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro evidenzia la necessità che a ciascuno di essi si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità, venendo altrimenti anticipata in modo non giustificato una eventuale considerazione unitaria del rapporto lavorativo, estranea al fatto storico allegato, il cui rilievo giuridico è oggetto della domanda avanzata.
NOTA
La Corte di appello di Milano, riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale di Busto Arsizio con cui era stata accertata l'illegittimità del termine apposto al contratto di somministrazione stipulato con il lavoratore e la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con il datore sin dal primo contratto, con condanna di quest'ultimo al ripristino del rapporto e al pagamento di tutte le retribuzioni dalla data di scadenza dell'ultimo contratto sino all'effettiva riammissione in servizio.
La Corte territoriale riteneva che, a fronte della stipula tra le parti di diversi contratti a termine, di cui il primo in somministrazione, il lavoratore era decaduto dall'impugnativa di quest'ultimo, per il resto, confermava la sentenza di primo grado circa l'illegittimità del termine apposto ai successivi contratti.
In particolare, la Corte di appello osservava che il contratto di lavoro somministrato doveva essere comunque impugnato nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla sua cessazione, ma ciò non era stato fatto dal lavoratore. Aggiungeva che non assumeva rilievo la circostanza che la prestazione lavorativa era stata resa senza soluzione di continuità rispetto ai successivi contratti a termine, non incidendo ciò, in termini impeditivi, sulla decorrenza del termine di decadenza.
Quanto ai successivi rapporti a termine, la Corte distrettuale confermava la statuizione del Tribunale di Busto Arsizio in merito all'illegittimità del termine ivi apposto rilevando che nessuna decadenza si era verificata in tal caso.
Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili. Il lavoratore si è costituito con controricorso interponendo, altresì, ricorso incidentale.
La Suprema Corte, per quanto qui rileva, con riguardo alla successione di più contratti interinali a termine, ribadisce anzitutto il principio secondo il quale «…l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l'altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l'impugnativa, poiché l'inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro - il quale potrà determinarsi solo ex post, a seguito dell'eventuale accertamento della illegittimità del termine apposto - comporta la necessaria conseguenza che a ciascuno dei predetti contratti si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità».
La Cassazione, dunque, richiama e condivide l'orientamento già espresso con la sentenza n. 2420 del 2016, con cui era stato affermato che il termine di decadenza di cui all'art. 6 della legge n. 604 del 1966, come successivamente modificato, decorre, per i contratti di somministrazione, dalla data di scadenza originariamente pattuita, in quanto il potenziale rinnovo per un numero indefinito di volte di tale tipologia di contratto, a differenza di quanto previsto per i contratti a termine, non autorizza di per sé il lavoratore a nutrire alcun affidamento.
In continuità con tale principio, la Corte condivide l'assunto secondo il quale «la singolarità dei contratti di somministrazione e l'inesistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro evidenzia la necessità che a ciascuno di essi si applichino le regole inerenti la loro impugnabilità, venendo altrimenti anticipata in modo non giustificato una eventuale considerazione unitaria del rapporto lavorativo, estranea al fatto storico allegato, il cui rilievo giuridico è oggetto della domanda avanzata» (Cass. 24356/2019).
La Suprema Corte, da ultimo, ritiene non pertinente il richiamo fatto dalla difesa del lavoratore ai fatti impeditivi della decadenza (art. 2966 cod. civ.), in quanto specificamente previsti e, dunque, non suscettibili di applicazione estensiva ed analogica. Ciò è tanto più valido – ritiene la Corte - nella presente fattispecie, in considerazione della circostanza che si tratta di unico contratto di somministrazione, quindi di una tipologia diversa dai successivi, e che tra tale contratto ed il primo contratto a termine è intercorso un intervallo maggiore di 20 giorni.
Precisa, inoltre, che non può, pertanto, invocarsi una mancanza di interesse del lavoratore ad impugnare il contratto di somministrazione, in virtù di un possibile affidamento nella stipulazione di ulteriori rapporti a tempo determinato.
Conclusivamente, la Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale – inerenti l'accertamento della legittimità del termine apposto ai contratti di lavoro subordinato successivi al contratto di somministrazione – dichiara assorbito il primo e inammissibili gli altri e, rigettando il ricorso incidentale, cassa la decisione impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione.

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