Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Malattia professionale e risarcimento del danno
Trasferimento d'azienda e diritto alla conservazione dell'elemento distinto della retribuzione
Inidoneità alla mansione e demansionamento
Controlli difensivi e licenziamento per giusta causa
Rivendicazione della categoria dirigenziale

Malattia professionale e risarcimento del danno

Cass. Sez. Lav., ord. 2 novembre 2020, n. 24202

Pres. Di Paolantonio; Rel. Tricomi; Ric. M.D.; Controric. F.P.

Malattia professionale - Risarcimento del danno - Violazione di norme antinfortunistiche - Risarcibilità anche del danno differenziale - Domanda ad hoc - Necessità - Esclusione

In materia di sicurezza lavoro, la richiesta di risarcimento del danno integrale per violazione dell'art. 2087 c.c. contiene quella di danno differenziale.
Dunque, in caso di azione contrattuale formulata per le ipotesi di responsabilità ex art. 2087 c.c., la domanda proposta nei confronti del datore di lavoro senza ulteriori specifiche indicazioni non potrà che essere qualificata di risarcimento del danno differenziale, con la conseguenza che il lavoratore potrà limitarsi ad allegare l'esistenza del rapporto di lavoro, la violazione da parte del datore degli obblighi di natura prevenzionale, specifici o generici, l'esistenza del danno ed il nesso causale con la denunciata violazione.
NOTA
Un lavoratore, alle dipendenze di un'Amministrazione pubblica dal 1981 al febbraio 2003 in qualità di operatore di macchine per lavorazioni metalliche e plastiche, contraeva l'ipoacusia neurosensoriale bilaterale, riconosciutagli come causa di servizio, perché insorta proprio a seguito dell'esposizione al rumore nello svolgimento dell'attività lavorativa.
Il lavoratore veniva quindi assegnato a mansioni di vigilanza e custodia, perché non più idoneo al servizio in precedenza espletato, contraendo un'ulteriore patologia (stato ansioso depressivo disforico fobico) anch'essa di origine professionale perché causalmente riconducibile alla ipoacusia ed alla assegnazione a mansioni diverse rispetto a quelle di assunzione. A seguito dell'insorgenza di questa ulteriore malattia, il lavoratore veniva collocato in quiescenza per infermità connessa al servizio.
Proposta azione risarcitoria contro l'Amministrazione, per violazione dell'art. 2087 c.c., il lavoratore vedeva respinta in primo grado la sua domanda. Secondo il Tribunale infatti il ricorrente, assicurato presso l'INAIL, aveva erroneamente proposto una domanda risarcitoria "globale" e non limitata al solo danno differenziale e soprattutto non aveva richiesto all'Istituto previdenziale l'indennizzo del danno biologico previsto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, applicabile ratione temporis.
In riforma di questa decisione, la Corte d'appello di Roma, invece, accoglieva la domanda di risarcimento del danno proposta ex art. 2087 c.c., nei confronti dell'Amministrazione appellata, e condannava quest'ultima al pagamento della somma di Euro 75.005,03 liquidata a titolo di risarcimento del danno differenziale.
Secondo la Corte d'Appello, infatti, innanzitutto l'indennizzo previsto dal D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13, coesiste con il risarcimento del danno biologico, nel senso che non esclude la possibilità per il danneggiato di ottenere l'integrale ristoro del danno subito secondo i criteri civilistici e pertanto il lavoratore, pur nella pacifica vigenza del richiamato D.Lgs., era legittimato a domandare il cosiddetto danno differenziale. In secondo luogo, secondo la corte territoriale, il D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, comma 7, costituisce un precetto di necessaria applicazione e pertanto, anche in caso di azione contrattuale "globale", formulata per le ipotesi di responsabilità ex art. 2087 c.c., la domanda proposta nei confronti del datore di lavoro senza ulteriori specifiche indicazioni non potrà che essere qualificata di risarcimento del danno differenziale, con la conseguenza che il lavoratore potrà limitarsi ad allegare l'esistenza del rapporto di lavoro, la violazione da parte del datore degli obblighi di natura prevenzionale, specifici o generici, l'esistenza del danno ed il nesso causale con la denunciata violazione
Avverso questa sentenza, l'Amministrazione ricorreva per Cassazione, prospettando, per quel che qui rileva, due diversi motivi di impugnazione.
In particolare, con il primo motivo di ricorso, l'Amministrazione denunciava la sentenza di appello per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato in quanto la domanda introduttiva del giudizio era diretta ad ottenere il danno integrale, mentre la Corte d'Appello aveva riconosciuto al lavoratore il danno differenziale.
Dopo aver richiamato la sentenza di primo grado, che aveva rigettato la domanda del lavoratore, il ricorrente osservava che l'azione di danno differenziale è caratterizzata, rispetto alla ordinaria azione risarcitoria da petitum e causa petendi diversi, di talché nella specie il giudice d'appello avrebbe dovuto confermare la sentenza del Tribunale, in quanto la specifica domanda di danno differenziale non era stata proposta e non era stata presentata dal lavoratore domanda amministrativa nei confronti dell'INAIL.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, il ricorrente censurava la statuizione con cui la Corte d'Appello aveva escluso la sussistenza di litisconsorzio necessario tra il datore di lavoro e l'INAIL in ragione della assoluta diversità delle cause, aventi ad oggetto, da un lato, l'indennizzo, e dall'altro il danno differenziale.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. rigetta entrambi i motivi di ricorso e conferma, di conseguenza, la decisione della Corte di Appello.
E, infatti, richiamando nella sua motivazione principi già enunciati da Cass. n. 9166 del 2017 (cui adde Cass., n. 12041 del 2020), la S.C. ribadisce che ai fini dell'accertamento del danno differenziale, non vi è alcuna necessità che il ricorso presenti una puntuale e formale qualificazione dei fatti in termini di illiceità penale, risultando sufficiente che siano dedotte in fatto dal lavoratore circostanze che possano integrare gli estremi di un reato perseguibile d'ufficio, soprattutto in virtù del fatto che anche la mera violazione delle regole di cui all'art. 2087 c.c. è idonea a concretare la responsabilità penale.
Inoltre, non occorre neppure, come requisito indefettibile per fondare la pretesa risarcitoria nei riguardi del datore, che il ricorso contenga la specifica deduzione del preteso quantum in termini differenziali rispetto all'indennizzo INAIL, liquidato o liquidabile. E, infatti, la richiesta del lavoratore di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, derivanti dall'inadempimento datoriale, è già idonea, a fondare un petitum rispetto al quale il giudice dovrà applicare il meccanismo legale previsto dal D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 10, anche ex officio, pur dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all'indennizzo, atteso che, rappresentando il differenziale normalmente un minus rispetto al danno integrale preteso, non può essere considerata incompleta al punto da essere rigettata una domanda in cui si richieda l'intero danno.
Infine, ricorda la S.C., la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale è una domanda di carattere onnicomprensivo e l'unitarietà del diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta; con la conseguenza che, laddove nell'atto introduttivo siano indicate specifiche voci di danno, a tale specificazione deve darsi valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di escludere dal petitum le voci non menzionate.
Ebbene, secondo la S.C., la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, dando ingresso alla domanda di danno differenziale nonostante l'assenza di una specifica deduzione sul punto, atteso che il lavoratore ha agito in giudizio per l'accertamento, della responsabilità del datore di lavoro per la violazione delle norme antinfortunistiche e del dovere di prevenzione ex art. 2087 c.c., con la conseguente condanna al risarcimento dei danni. Altresì del tutto corretta è la statuizione della Corte territoriale secondo cui non sussiste alcun litisconsorzio necessario con l'INAIL, proprio in ragione dell'autonomia della domanda risarcitoria civilistica rispetto a quella amministrativa volta ad ottenere il riconoscimento dell'indennizzo.

Trasferimento d'azienda e diritto alla conservazione dell'elemento distinto della retribuzione

Cass. Sez. Lav. 30 ottobre 2020, n. 24145

Pres. Raimondi; Rel. Negri Della Torre; Ric. F.S.r.l.; Controric. C.V.

Lavoro subordinato – Trasferimento d'azienda – Art. 2112 c.c. – Diritto alla conservazione dell'elemento distinto della retribuzione – Sussistenza – Requisiti – Previsione da parte del contratto individuale – Mancata correlazione con entità prestazione

Il compenso forfettario della prestazione resa oltre l'orario normale di lavoro accordato al lavoratore per lungo tempo, ove non sia correlato all'entità presumibile della prestazione straordinaria resa, costituisce attribuzione patrimoniale che, con il tempo, assume funzione diversa da quella originaria, tipica del compenso dello straordinario, e diviene un superminimo che fa parte della retribuzione ordinaria e non è riducibile unilateralmente dal datore di lavoro.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Catanzaro in accoglimento della richiesta del lavoratore, transitato a seguito di cessione d'azienda da una società a quella convenuta, aveva confermato il diritto di questo a conservare l'elemento distinto della retribuzione (EDAPR), attribuitogli contrattualmente dall'azienda cedente e ricevuto per oltre un decennio, anche a seguito del trasferimento. Conseguentemente ha condannato l'azienda cessionaria al pagamento delle somme dovute a tale titolo (oltre interessi e rivalutazione monetaria).
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società cessionaria sostenendo, in sintesi, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere violato l'articolo 2112 c.c. per effetto della mancata erogazione dell'EDAPR. Il giudice di appello avrebbe trascurato di considerare che tale elemento della retribuzione era stato inserito in contratto dalla cedente quale corrispettivo forfettizzato per eventuali prestazioni a titolo di straordinario e che, successivamente alla cessione di azienda, la cessionaria non aveva avuto più necessità di avvalersi dell'opera del lavoratore per le particolari esigenze ulteriori rispetto all'orario normale. Conseguentemente, essendosi modificate le condizioni della prestazione di lavoro, il compenso in esame non era più dovuto.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, rigettando il ricorso.
In particolare la Corte ha rilevato che, in primo luogo, l'art. 2112 c.c. prevede «a favore dei dipendenti dell'imprenditore che trasferisce l'azienda o un suo ramo la garanzia della conservazione di tutti i diritti derivanti dal rapporto lavorativo con l'impresa cedente e mira alla tutela dei crediti già maturati dal lavoratore ed al rispetto dei trattamenti in vigore». In secondo luogo la Suprema Corte ha affermato che l'emolumento in esame era stato correttamente identificato dalla Corte territoriale come funzionale alla prestazione nel suo complesso e, essendo stato erogato per lungo tempo senza correlazione con l'entità presumibile della prestazione straordinaria resa, lo stesso aveva assunto funzione differente da quella tipica del compenso per lo straordinario, divenendo così «un superminimo che fa parte della retribuzione ordinaria e non è riducibile unilateralmente dal datore di lavoro».

Inidoneità alla mansione e demansionamento

Cass. Sez. Lav. 11 novembre 2020, n. 25394

Pres. Raimondo; Rel. Pagetta; Ric. principale e Controric. incidentale S. S.p.A.; Controric. e Ric. incidentale M.V.

Inidoneità alla mansione – Reperimento di mansioni corrispondenti al livello di inquadramento – Onere della prova del datore di lavoro – Sussiste

L'accertamento della possibilità di reperimento nell'ambito della società, di mansioni corrispondenti al livello di inquadramento e compatibili con lo stato di salute della lavoratrice non è validamente censurato dal riferimento alle deposizioni testimoniali inteso a sollecitare direttamente un diverso apprezzamento delle emergenze istruttorie, accertamento precluso al giudice di legittimità.
NOTA
Il lavoratore, dedotta l'illegittimità della condotta della datrice di lavoro, "condotta concretatasi nella mancata adibizione alle mansioni di 3° livello del c.c.n.l. applicabile, formalmente attribuitele a decorrere dal 1.10.1998, e nella intenzionale emarginazione ed isolamento dall'organizzazione aziendale", adiva il giudice di prime cure chiedendo di "ordinarsi alla società datrice di lavoro la adibizione a mansioni corrispondenti al livello di inquadramento e la condanna della stessa al risarcimento del danno alla professionalità, alla dignità, biologico ed esistenziale".
Il giudice di primo grado, con sentenza non definitiva, accertava l'illegittimità del demansionamento ed ordinava alla società di adibire la lavoratrice alle mansioni di competenza di cui al 3° livello del c.c.n.l applicabile, respingendo la domanda di condanna al risarcimento del danno alla professionalità e per comportamento illegittimo/persecutorio della datrice di lavoro e disponendo la prosecuzione della causa per l'accertamento dell'esistenza del nesso causale fra il dedotto danno biologico (comprensivo del danno esistenziale) ed il demansionamento.
Il giudice di prime cure, successivamente, con sentenza definitiva, respingeva la domanda di risarcimento del danno per l'illegittimo demansionamento.
La Corte di Appello di Venezia si pronunciava sull'appello principale proposto dalla lavoratrice e sull'appello incidentale proposto dalla società e, in parziale riforma della sentenza non definitiva ed in totale riforma della sentenza definitiva, "confermata la illegittimità del demansionamento della lavoratrice a far data dal 1.10.1998 (con esclusione del periodo dal 1.7.2002 al 19.9.2002)", condannava la società a corrispondere alla lavoratrice, "a titolo di danno non patrimoniale, la somma capitale di € 11.885,00 oltre interessi legali".
La Corte territoriale riteneva "a) le mansioni pacificamente svolte dalla dipendente pur dopo l'inquadramento nel 3° livello erano riconducibili, salvo che per il periodo 1.7.2002/19.9.2002, all'inferiore 2° livello contrattuale in precedenza rivestito; b) non era configurabile in relazione all'accertato demansionamento il dedotto danno alla professionalità non avendo la lavoratrice formulato concrete allegazioni destinate a dimostrare il pregiudizio lamentato e non essendo emersi in giudizio elementi che consentivano di ricostruire detto pregiudizio in via presuntiva; c) era rimasto indimostrato il danno all'immagine ed alla vita di relazione quale conseguenza dell'asserita umiliazione subita di fronte ad altri colleghi per effetto del demansionamento; d) la consulenza tecnica d'ufficio di primo grado, che aveva accertato in capo alla lavoratrice una invalidità complessiva pari al 28/30% (tenuto conto anche di pregressa patologia), aveva affermato il nesso causale tra la patologia sofferta dalla ricorrente e le vicende lavorative che la avevano coinvolta e quantificato il relativo danno in una percentuale pari al 18/20%; tale valutazione percentuale non poteva essere integralmente recepita posto che era frutto, oltre che della considerazione del demansionamento, della considerazione di asserite difficoltà relazionali con il capo reparto ed i colleghi – difficoltà rimaste prive di riscontro probatorio – nonché della delusione derivante dl cambio di mansioni nell'anno 2005 per non avere la lavoratrice potuto utilizzare le conoscenze acquisite nel corso del curriculum di studi (laurea in architettura), e cioè per attività pacificamente ricomprese in un livello superiore (4° livello Super del c.c.n.l.) a quello di formale inquadramento. Tanto induceva a rideterminare nel 7%, in via equitativa, la percentuale di invalidità collegabile al demansionamento con relativa quantificazione nell'attualità del danno non patrimoniale, sulla base delle tabelle utilizzate presso il Tribunale di Milano, in € 11.885,00".
Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
La lavoratrice ha resistito con controricorso e ricorso incidentale affidato a due motivi, e la società ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Venezia, in primo luogo in quanto la Corte territoriale osservava che "in atti non vi era documentazione medica dalla quale risultava la inidoneità della lavoratrice alla svolgimento di mansioni di 3° livello per le quali la declaratoria contrattuale richiedeva "generiche conoscenze professionali" e nell'ambito della quale rientravano, a titolo esemplificativo, tra le varie ipotesi, anche gli addetti a servizi di segreteria e/o a lavori di ufficio con conoscenza e utilizzo di strumenti informatici, ai servizi contabili ed amministrativi semplici, al centralino ad operazioni di satinatura/lucidatura/sabbiatura, collaudo/registrazioni occhiali, di tranciatura astucci con autonomia operativa".
In sostanza, la Corte di merito osservava che non vi era prova dell'impossibilità di adibire la lavoratrice in mansioni confacenti al livello posseduto, anche in considerazione delle dimensioni della datrice di lavoro, "azienda che annoverava ben 1300 dipendenti".
La Cassazione ritiene, dunque, condivisibile il decisum della Corte di merito, anche con riguardo alle argomentazioni svolte in tema di "possibilità di adibire la lavoratrice a mansioni di 3° livello, compatibili con lo stato di salute della stessa". In particolare, la Suprema Corte afferma che "l'accertamento del giudice di merito … non è incrinato dal riferimento alla documentazione medica versata in atti dalla società in quanto … deve ritenersi che il giudice di merito abbia alla stessa fatto implicito riferimento" e "in ogni caso dal prospetto non è in alcun modo dato evincere la inidoneità alla svolgimento di tutte le mansioni riconducibili al terzo livello, posto che le valutazioni mediche riportare si riferiscono a singole tipologie di mansioni che non esauriscono la complessiva gamma delle mansioni ricomprese nel livello di inquadramento".
Conclusivamente il ricorso principale della datrice di lavoro ed il ricorso incidentale della lavoratrice vengono respinti.

Controlli difensivi e licenziamento per giusta causa

Cass. Sez. Lav. 16 novembre 2020, n. 25977

Pres. Nobile; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. B.G.; Controric. C.I.B. S.r.l.

Art. 4 L. 300/1970 (vecchia formulazione) - Controllo del pc del dipendente per verifica potenziale reato - Controllo difensivo - Configurabilità - Licenziamento per giusta causa - Legittimità - Fattispecie: accesso con il pc aziendale al conto corrente del marito di una collega riferendone il contenuto

La condotta della società che consista nell'aver verificato il pc del dipendente che lo ha utilizzato per accedere al conto corrente di un terzo (nella specie, il marito della collega), riferendone il contenuto, rientra nella categoria dei c.d. "controlli difensivi" che, in quanto tali, esulano dall'ambito applicativo dell'art. 4, comma 2, L. 300/1970, nella versione ratione temporis applicabile prima della nuova formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 185/2016. Si tratta, infatti, di verifiche dirette ad accertare comportamenti lesivi dell'immagine aziendale e astrattamente costituenti reato, che sono state effettuate successivamente all'attuazione del comportamento addebitato al dipendente e, dunque, a prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione.
NOTA
Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa per aver pronunciato frasi ingiuriose nei confronti di alcune colleghe, aver posto in essere molestie in ufficio ai danni di una di loro e aver effettuato accessi non autorizzati sul conto corrente del marito di quest'ultima.
La Corte d'Appello di Bologna, in riforma della sentenza resa in sede di opposizione, aveva rigettato il ricorso del lavoratore, ritenendo accertata la sussistenza degli addebiti contestati, la giusta causa di recesso e la proporzionalità della sanzione espulsiva.
In particolare, con riferimento alla eccepita violazione dell'art. 4, L. 300/1970 (nella versione antecedente la nuova formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 185/2016), la Corte territoriale aveva ritenuto che, anche sotto il profilo formale, «il licenziamento doveva considerarsi legittimo in quanto è consentito al datore di lavoro verificare se i propri dipendenti utilizzino indebitamente gli strumenti messi a loro disposizione per fini esclusivamente personali».
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, contestando la decisione sotto vari profili.
Nello specifico, per quanto qui di interesse, con il quinto motivo di ricorso il lavoratore lamentava la falsa applicazione dell'art. 4, L. 300/1970 (in vigore all'epoca dei fatti di causa, ai sensi del quale era vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori), per avere la Corte territoriale errato nel ritenere che il datore di lavoro sia tenuto a verificare l'uso esclusivamente professionale dei mezzi messi a disposizione dei propri dipendenti.
La Suprema Corte ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.
Come evidenziato dalla Corte di Cassazione, la condotta contestata al lavoratore era stata rilevata dalla società a seguito di una richiesta di chiarimenti da parte del titolare del conto corrente, sicché gli accertamenti effettuati dalla datrice di lavoro rientravano nella categoria dei c.d. "controlli difensivi", che esulavano dall'ambito applicativo dell'art. 4, comma 2, L. 300/1970. Si trattava, infatti di «verifiche dirette ad accertare comportamenti illeciti e lesivi dell'immagine aziendale e costituenti, astrattamente, reato» (Cass. n. 2722/2012; Cass. n. 10955/2015).
Il datore di lavoro, nel mettere in atto i controlli dopo l'accesso non autorizzato del dipendente al conto corrente del marito della collega, non aveva dunque leso in alcun modo la dignità e la riservatezza del dipendente, «atteso che non corrisponde ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore, in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con sanzione espulsiva, una tutela maggiore di quella riconosciuta a terzi estranei all'impresa» (Cass. n. 10636/2017).
Inoltre, osservava la Suprema Corte, in base ad un accordo sindacale del 2014 volto a disciplinare le modalità di svolgimento dei controlli ex art. 4, L. 300/1970, la società era legittimata ad eseguire i controlli e ad utilizzare le informazioni estratte anche solo in presenza di indizi di reato, sussistenti nel caso di specie.
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore è stato respinto.

Rivendicazione della categoria dirigenziale

Cass. Sez. Lav., ord. 29 ottobre 2020, n. 23927

Pres. Nobile; Rel. Patti; Ric. S.G.; Controric. F.G.

Rivendicazione della categoria dirigenziale – Fattispecie di cd subordinazione attenuata - Indici rivelatori - Direttive dei vertici aziendali - Coordinamento funzionale con obiettivi aziendali - Necessità

Patto di prova - Licenziamento – Impugnazione – Prova del positivo superamento in capo al dipendente – Sussiste

Ai fini della configurazione del lavoro dirigenziale (nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia e il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell'emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente), il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l'esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell'organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell'ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata.
In caso di licenziamento avvenuto durante il periodo di prova incombe sul lavoratore l'onere, ai sensi dell'art. 2967 c.c., di dimostrare il positivo superamento del periodo di prova o che il recesso sia stato determinato da motivo illecito, estraneo alla funzione del patto di prova.
NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Torino aveva rigettato l'opposizione proposta da un lavoratore avverso lo stato passivo del fallimento della Società sua datrice di lavoro, da cui erano stati esclusi i crediti insinuati in via privilegiata. A motivo della decisione il Tribunale escludeva la prova del loro presupposto e cioè della prestazione lavorativa subordinata dirigenziale, in particolare contemplante un periodo di prova di sei mesi, di cui il lavoratore aveva richiesto in via incidentale l'accertamento della nullità e dell'illegittimità del licenziamento intimato per suo mancato superamento.
Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso lamentando, tra il resto, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale l'identità delle mansioni dirigenziali svolte, nonché «il difetto di motivazione in ordine all'inidoneità dei fatti indicati a smentita della fondatezza della comunicazione di non superamento del patto di prova».
La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso per non avere assolto, il lavoratore, l'onere della prova su di lui incombente. Da un lato, infatti, secondo la Corte, il ricorrente non ha dimostrato la sussistenza, seppur nella forma attenuata, della subordinazione caratterizzante la natura dirigenziale dell'attività asseritamente prestata. Dall'altro lato, con riferimento alla censura relativa al periodo di prova e al suo superamento, la Corte di legittimità ha affermato che «non ricorre l'omissione di esame di alcun fatto storico, tanto meno decisivo, essendo stata anzi ritenuta la mancata assoluzione, adeguatamente argomentata, dell'onere probatorio a carico del lavoratore ricorrente; ed infatti, in caso di licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova (che, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore), incombe al lavoratore stesso, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l'onere di provare, secondo la regola generale stabilita dall'art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova».

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©