Contenzioso

Reddito cittadinanza, doppio esame sul vincolo-residenza

di Enrico Traversa

La condizione di residenza da almeno dieci anni in Italia ai fini della concessione del reddito di cittadinanza finisce sui tavoli della Commisione Ue e davanti al Tribunale di Milano. L’Asgi (associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e altre tre associazioni di sostegno agli immigrati (Naga, Apn e L’altro diritto) hanno inviato una denuncia a Bruxelles per avviare contro lo Stato italiano un procedimento di infrazione. Gli avvocati dell’Asgi hanno inoltre adito il Tribunale di Milano con un ricorso contro la revoca del Rdc a sette cittadine rumene ex-lavoratrici con figli a carico, revoca motivata dalla circostanza che le ricorrenti risiedono in Italia da meno di dieci anni. Gli avvocati dell’Asgi hanno presentato anche un’istanza con la quale hanno chiesto ai giudici milanesi di rinviare alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale.

L’articolo 2, paragrafo 1.a) del Dl 4/19 prevede infatti fra i vari requisiti per avere accesso al Rdc, due condizioni cumulative: la prima, di cittadinanza – italiana, di uno Stato Ue o di un paese extra-Ue ma limitata ai titolari di un «permesso di soggiorno Ue di lungo periodo» – e la seconda, di residenza in Italia «da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo». È questo secondo requisito che per le associazioni firmatarie della denuncia costituisce una grave violazione di varie norme Ue. La prima norma violata è l’articollo 45 del Trattato Ue che vieta qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità fra lavoratori nazionali e lavoratori di altri Stati membri. Nella sua giurisprudenza la Corte di giustizia ha costantemente equiparato una condizione di residenza a una discriminazione indiretta sulla base della nazionalità in quanto «il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (C-224/97, punto 14). Nel caso delle prestazioni sociali come il Rdc i giudici europei hanno ritenuto che un requisito di residenza «semplice», senza durata minima, possa essere giustificato dall’esigenza di controllare la situazione professionale, di reddito e patrimoniale dei beneficiari (C-406/04, punto 41). Non può invece in alcun modo essere giustificata la condizione aggiuntiva consistente nella durata minima di 10 anni della residenza in Italia (C-90/97, punto 30), dato che «il lavoratore migrante, con le imposte e contributi che versa in relazione all’attività retribuita che esercita, contribuisce anche al finanziamento delle politiche sociali dello Stato membro di accoglienza» (C-342/09, punto 66). Da questo principio di equità fiscale consegue che i lavoratori comunitari acquisiscono il diritto alla parità di trattamento fin dal momento del loro primo accesso al mercato del lavoro italiano.

Quanto alla qualificazione giuridica del Rdc, i denuncianti propendono per la tesi secondo cui il Rdc costituisce una prestazione di natura assistenziale visto che il presupposto principale per la sua concessione risulta, in base all’articolo 2 del Dl 4/2019, una situazione di grave difficoltà economica del richiedente. In tal caso la norma europea direttamente violata è l’articolo 7, paragrafo 2 del regolamento Ue 492/2011 sulla libera circolazione dei lavoratori comunitari, che impone la parità di trattamento in materia di «vantaggi sociali» (sentenza 122/84 sull’analogo Minimex belga). Se invece il Rdc fosse da assimilare a un’indennità di disoccupazione, la condizione di residenza di dieci anni sarebbe incompatibile con il divieto di discriminazioni fra lavoratori nazionali e stranieri previsto dall’articolo 4 del regolamento Ue 883/2004. Discriminati dalla stessa condizione risultano inoltre anche gli emigrati italiani rientrati in Italia in condizioni di disagio economico. Anch’essi potranno tuttavia invocare contro l’articolo 2.1.a) del Dl 4/19 la stessa regola Ue sulla parità di trattamento, dato che la Corte di giustizia ha equiparato questi “returning workers” nazionali, ai lavoratori di altri Stati membri.

Illegittimamente discriminati dalla condizione di residenza di almeno dieci anni in Italia, sarebbero anche i cittadini di Stati terzi che beneficiano di una tutela specifica sulla base di atti legislativi dell’Unione. Si tratta in primo luogo degli stranieri extra-Ue «soggiornanti di lungo periodo» che possono acquisire un diritto permanente di soggiorno dopo aver risieduto cinque anni nello Stato membro di accoglienza, in questo caso l’Italia (articolo 4 direttiva 2003/109). In forza dell’articolo 11, paragrafo 1.d) di tale direttiva, questi lavoratori extracomunitari hanno diritto alla parità di trattamento rispetto agli italiani per quanto riguarda le «prestazioni sociali e l’assistenza sociale» (C-571/10). Ne consegue che il RdC non potrà essere loro negato qualora il solo motivo del rifiuto sia un periodo residenza in Italia compreso fra i cinque e i dieci anni. Il Dl 4/19 ha poi dimenticato i titolari dello status di rifugiato disciplinato dalla direttiva 2011/95, il cui articolo 29 impone a tutti gli Stati Ue di assicurare ai beneficiari di una protezione internazionale una «adeguata assistenza sociale» a parità di condizioni con i cittadini dello Stato membro che ha accordato tale medesima protezione (sent. C-443/16).

In conclusione, ciascun richiedente al quale è stato notificato un rifiuto o una revoca del Rdc potrà impugnare tale atto dinanzi al Tribunale del lavoro competente per territorio. Preso della denuncia alla Commissione Ue e il ricorso al Tribunale di Milano, l’articolo 2.1.a) del Dl 4/19 potrebbe avere i giorni contati.

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