Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

I contratti collettivi aziendali, efficacia erga omnes
Base di calcolo della retribuzione
Malattia professionale e responsabilità del datore
Congedo parentale biennale per assistenza al figlio con grave handicap
L'appalto è genuino quando la società appaltatrice esercita il potere direttivo ed organizzativo ed assume il rischio d'impresa

I contratti collettivi aziendali, efficacia erga omnes

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2020, n. 26509

Pres. Berrino; Rel. Leo; P.M. Celeste; Ric. M.M. + 3; Controric. B.T. S.p.A.

Contratti collettivi aziendali – Efficacia erga omnes – Lavoratori non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti – Sussiste – Lavoratori iscritti ad organizzazioni sindacali dissenzienti – Non sussiste

I contratti collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori della società, ancorché non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con l'unica eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa, ne condividono l'esplicito dissenso. Tale efficacia soggettiva erga omnes è giustificata dalla tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale e, talora, dalla inscindibilità della disciplina che risulta dai contratti medesimi.
NOTA
La Corte d'Appello di Brescia rigettava il gravame interposto da alcuni lavoratori avverso la sentenza del Tribunale di Mantova che aveva respinto il loro ricorso volto ad ottenere differenze retributive per lavoro straordinario calcolate sulla base delle maggiorazioni previste dal CCNL di categoria invece che secondo i criteri stabiliti dal contratto integrativo aziendale (che aveva introdotto un sistema di forfettizzazione). In particolare, i Giudici di merito ritenevano che quest'ultimo contratto, sottoscritto dalle organizzazioni sindacali e dalle RSU aziendali, fosse applicabile – per espressa previsione contrattuale – a tutto il personale dipendente della società firmataria, e quindi anche ai ricorrenti, senza necessità di firma per adesione.
I lavoratori proponevano ricorso per Cassazione avverso la pronuncia della Corte d'Appello, lamentando, inter alia, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e 11 del CCNL Trasporti, nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322 e 1372 c.c., dell'art. 39 Cost. e dell'art. 112 c.p.c., avendo la Corte d'Appello ritenuto applicabili gli accordi integrativi aziendali nonostante l'espresso dissenso dei ricorrenti e senza considerare che tali accordi avrebbero introdotto una drastica riduzione del trattamento retributivo dei lavoratori.
La Suprema Corte ritiene i motivi di censura infondati, ribadendo il proprio orientamento ormai consolidato secondo cui i contratti collettivi aziendali sarebbero applicabili a tutti i lavoratori della società, anche se non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, con la sola eccezione di quei lavoratori che, aderendo ad una organizzazione sindacale diversa da quelle firmatarie, condividano il dissenso espresso dall'organizzazione sindacale medesima (in senso conforme, Cass. 12272/2013, Cass. 6044/2012, Cass. 10353/2004, Cass. 17674/2002, Cass. 5953/1999). Infatti, la tutela di interessi collettivi della comunità di lavoro aziendale, nonché la inscindibilità della disciplina che sovente risulta dai contratti collettivi aziendali, concorrono a giustificare l'efficacia erga omnes di questi ultimi (in senso conforme, Cass. 12272/2013).
In applicazione di questo principio, prosegue la Corte, i Giudici di merito hanno correttamente ritenuto che ai ricorrenti dovesse essere applicata la disciplina in materia di forfettizzazione dello straordinario di cui al contratto integrativo aziendale in oggetto, non essendo stato neppure dedotto che tali lavoratori fossero iscritti ad una organizzazione sindacale diversa da quelle firmatarie dell'accordo.

Base di calcolo della retribuzione

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2020, n. 26510

Pres. Negri Della Torre; Rel. Leo; P.M. Cimmino; Ric. L. S.r.l.; Contr. G.G.;

Retribuzione – Principio di onnicomprensività – Assegno ad personam – Incidenza sugli istituti indiretti – Contratto collettivo – Rilevanza – Mancata previsione del computo – Esclusione

In tema di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità aggiuntive, ferie, malattia ed infortunio), non esiste nel nostro ordinamento un principio generale e inderogabile di onnicomprensività della stessa; assume, dunque, rilievo decisivo l'autonomia collettiva cui è riservato il compito di individuare le voci da includere nella base di calcolo.
Conseguentemente, in mancanza di una previsione espressa di legge o di contratto collettivo, un determinato emolumento non può essere incluso nella base di calcolo di altri istituti retributivi, non essendo sufficiente, a tal fine, il silenzio della normativa collettiva sul punto.
NOTA
La Corte di appello di Firenze dichiarava l'inammissibilità ai sensi dell'art. 348bis c.p.c. del gravame interposto dalla società datore di lavoro nei confronti di un proprio dipendente avverso la sentenza del Tribunale di Livorno con la quale – in parziale accoglimento della domanda avanzata dal lavoratore – la società era stata condannata al pagamento di differenze retributive derivanti dall'omesso inserimento dell'assegno ad personam, corrisposto annualmente dalla società, nella base di calcolo di tutti gli istituti contrattuali, ed altresì, al pagamento delle differenze retributive derivanti dal ricalcolo degli istituti contrattuali indiretti considerando il predetto assegno come elemento fisso della retribuzione, sino alla data dell'effettivo ripristino.
La Corte territoriale riteneva preliminarmente che l'appello della società non avesse ragionevoli probabilità di essere accolto, avendo la medesima Corte già pronunciato in tal senso in numerose analoghe controversie e confermando il ragionamento del giudice di primo grado che aveva ritenuto che la fonte del diritto azionato dal lavoratore risiedesse nel contratto individuale di lavoro.
Avverso tale decisione il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte, ritiene viziato il ragionamento delle corti di merito in quanto non in linea con i consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità in punto di «necessaria previsione, ai fini della determinazione della base di calcolo delle voci retributive da includere nei cc.dd. istituti indiretti, di specifiche norme (oltre che di legge) di contratto collettivo».
La Cassazione precisa, altresì, che, con riferimento al caso di specie, il contratto individuale si limitava a prevedere, nell'ambito delle voci retributive, l'assegno ad personam con indicazione del relativo importo senza nulla dire sul suo regime di computabilità negli istituti retributivi indiretti.
Il ragionamento del Tribunale, avallato dalla Corte territoriale non ha, dunque, tenuto conto dei principi enunciati, nella materia, dalla Corte di legittimità, secondo i quali, «in riferimento al concetto di retribuzione normale, assume rilievo decisivo l'autonomia collettiva, a cui è riservato il compito di individuare le voci da includere nella base di calcolo. Con la conseguenza che, appunto, in mancanza di una previsione espressa di legge o di contratto collettivo, un determinato emolumento non può essere incluso nella base di calcolo di altri istituti retributivi, non essendo sufficiente, a tal fine, il silenzio della normativa collettiva sul punto».
Conclusivamente, la Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione.

Malattia professionale e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 20 novembre 2020, n. 26512

Pres. Negri della Torre; Rel. Leo; Ric. U.C.; Contr. G.N.;

Lavoro subordinato - Malattia professionale - Responsabilità 2087 c.c. - Fase dinamica del lavoro - Prevenzione dei rischi interni ed esterni all'ambiente di lavoro - Necessità - Fattispecie

Gli obblighi che l'art. 2087 c.c. impone all'imprenditore in tema di tutela delle condizioni di lavoro non si riferiscono solo alle attrezzature, ai macchinari ed ai servizi che egli fornisce o deve fornire, ma si estendono alla fase dinamica dell'espletamento del lavoro ed all'ambiente lavorativo, in relazione al quale, le misure e le cautele da adottare devono prevenire sia i rischi insiti in quell'ambiente, sia i rischi derivanti dall'azione di fattori ad esso esterno ed inerenti al luogo in cui tale ambiente si trova. E ciò a maggior ragione nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa peculiare, come quella medica (come nella fattispecie), a causa del rischio di contagio che può derivare dalla manipolazione del sangue ed altro materiale di natura biologica e dal contatto continuo con i pazienti.
NOTA
Un dipendente, medico specialista, ha proposto ricorso al fine di ottenere l'accertamento della responsabilità dell'università per aver contratto una malattia infettiva durante lo svolgimento del proprio lavoro. Secondo il dipendente, la sua patologia sarebbe stata conseguenza della mancata predisposizione, da parte della datrice di lavoro, di tutte le misure di sicurezza idonee ad evitare che il contagio si verificasse, con conseguente responsabilità della medesima per i danni lamentati, ai sensi dell'art. 2087 c.c.
Il Tribunale ha respinto le domande del dipendente ma la Corte di Appello, ha dichiarato la responsabilità - ai sensi dell'art. 2087 c.c. - del datore di lavoro risultando provato il nesso eziologico tra l'infermità e l'attività di servizio prestata.
Avverso la sentenza della Corte di Appello ha proposto ricorso l'università ma la Suprema Corte lo ha rigettato.
Per la Cassazione la responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori. Il datore di lavoro, quale garante ultimo della incolumità psico-fisica dei lavoratori, non deve limitarsi a predisporre le misure di sicurezza ritenute necessarie e ad informare i dipendenti delle stesse, ma deve, altresì, attivarsi e controllarne, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservazione delle condizioni di lavoro. Con riferimento al caso di specie, a causa del rischio di contagio che può derivare dalla "manipolazione del sangue ed altro materiale di natura biologica" e dal "contatto continuo con i pazienti", la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell'art. 2087 c.c. non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, come nella presente vicenda, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.

Congedo parentale biennale per assistenza al figlio con grave handicap

Cass. Sez. Lav., 23 novembre 2020, n. 26605

Pres. Manna; Rel. Calafiore; P.M. Visonà; Ric. I.N.P.S.; Controric. N.Y.

Congedi per figli portatori di handicap - Durata biennale - Attribuzione per ciascun soggetto nella situazione di bisogno – Sussistenza

Il limite dei due anni – in effetti non superabile nell'arco della vita lavorativa anche nel caso di godimento cumulativo di entrambi i genitori – si riferisce a ciascun figlio che si trovi nella prevista situazione di bisogno, in modo da non lasciarne alcuno privo della necessaria assistenza che la legge è protesa ad assicurare.
NOTA
Un lavoratore dipendente, avendo già fruito di due anni del congedo ex art. 4, comma 2, L. 53/2000 per assistere la figlia secondogenita portatrice di handicap grave, ha richiesto al Tribunale il riconoscimento del proprio diritto di beneficiare di ulteriori due anni di congedo, ai sensi dell'art. 42 comma 5 D.Lgs. 151/2001, per assistere il terzo figlio, pure portatore di handicap.
La domanda veniva accolta dal Tribunale di Primo Grado.
L'INPS proponeva appello avverso tale sentenza, che tuttavia veniva confermata dalla Corte Territoriale, la quale ha ritenuto che l'interpretazione corretta della norma citata sia quella che privilegia il diritto dei bambini portatori di handicap ad ottenere la maggior tutela del proprio diritto allo sviluppo ed alla salute, richiamando le pronunce della Suprema Corte in tema di permessi giornalieri ex art. 33 L. 104/1992.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione l'INPS lamentando la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell' artt. 42, secondo comma, D.Lgs. 151/2001, nel testo vigente ratione temporis, e dell'art. 4, secondo comma, L. 53/2000 e art. 2, secondo comma, D.M. 278/2000, affermando che non sarebbe possibile fruire più di una volta del congedo biennale nell'arco della vita lavorativa, in quanto il citato articolo 4 dispone espressamente "periodo di congedo, continuativo o frazionato, non superiore a due anni".
Tale scelta legislativa, a dire del ricorrente, costituirebbe frutto del bilanciamento tra la tutela di situazioni familiari gravose e l'interesse alla produttività nazionale ex art. 41 Cost., considerato che, in caso di necessità, potrebbe fruire del congedo biennale l'altro genitore che non ne abbia usufruito.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso.
Osserva infatti la Corte, richiamati i propri precedenti n. 11031/2017 e 4623/2010 (in materia di fruizione dei permessi di cui all'art. 42 D.Lgs. 165/2001), che nessuna delle disposizioni legislative richiamate dall'INPS intende riferirsi letteralmente alla durata complessiva dei possibili congedi fruibili dall'avente diritto, nell'ipotesi in cui i soggetti da assistere fossero più di uno.
Le stesse norme, invece, secondo una interpretazione costituzionalmente orientata ai sensi degli articoli 2, 3 e 32 Cost., possono essere intese soltanto nel senso che il limite dei due anni – in effetti non superabile nell'arco della vita lavorativa anche nel caso di godimento cumulativo di entrambi i genitori – si riferisce a ciascun figlio che si trovi nella prevista situazione di bisogno, in modo da non lasciarne alcuno privo della necessaria assistenza che la legge è protesa ad assicurare.
La Corte richiama la propria pronuncia a Sezioni Unite n. 16102/2009, che ha precisato che la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla L. 104/1992, va individuata alla luce dei numerosi interventi della Corte Costituzionale, che colloca le agevolazioni in esame all'interno di una sfera di applicazione della legge diretta ad assicurare, in termini il più possibile soddisfacenti, la tutela dei soggetti svantaggiati.
Il destinatario, infatti, della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo familiare in sé, ovvero il lavoratore onerato dell'assistenza, bensì la persona portatrice di handicap (cfr. Corte Cost. 19/2009).
D'altra parte, nei medesimi termini si esprime oggi l'art. 42 D.Lgs. 151/2001, come modificato dall'art. 4 D.Lgs. 119/2011, che ha introdotto il comma 5-bis: "il congedo fruito ai sensi del comma 5 non può superare la durata complessiva di due anni per ciascuna persona portatrice di handicap e nell'arco della vita lavorativa".
Ritiene la Corte che tale esplicitazione normativa deve ritenersi confermativa del tenore della legge precedente (anche ai sensi delle Circolari INPDAP 2/002 e 31/2004) e pertanto il ricorso deve essere respinto.

L'appalto è genuino quando la società appaltatrice esercita il potere direttivo ed organizzativo ed assume il rischio d'impresa

Cass. Sez. Lav. 9 novembre 2020, n. 25053

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; Ric. C.D.; Controric. G.R. S.r.l.

Appalto - Genuinità - Requisiti - Potere organizzativo e direttivo e rischio d'impresa in capo all'appaltatore - Necessità - Fattispecie: fornitura di un servizio di handling, movimentazione, ricevimento e spedizione di merci

Il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa.
NOTA
La Corte di appello di Torino confermava la sentenza primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dal dipendente di una cooperativa volta ad accertare la non genuinità del contratto di appalto stipulato tra la società committente e la cooperativa datrice di lavoro avente ad oggetto la fornitura, da parte della cooperativa, di un servizio di handling, movimentazione, ricevimento e spedizione di merci presso il magazzino di Rivoli della committente e, quindi, la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato in capo a quest'ultima.
Avverso tale sentenza ricorreva il dipendente davanti la Corte di Cassazione lamentando che la propria datrice di lavoro non aveva esercitato alcun potere direttivo e organizzativo, in quanto di fatto questo era esercitato da dipendenti della committente, essendovi, nel magazzino di Rivoli, mezzi e strumenti prevalentemente di proprietà di quest'ultima e che in capo all'appaltatore vi era solo la gestione amministrativa del rapporto.
La Corte di legittimità rigetta il ricorso del dipendente affermando che, dall'attività istruttoria espletata in primo grado, era emerso che la committente non aveva mai organizzato l'attività dei dipendenti della cooperativa presso il magazzino ma si era limitata a dare disposizioni inerenti unicamente al risultato, nonché a manifestare al coordinatore della cooperativa esigenze particolari che poi il ricorrente riferiva alla propria datrice di lavoro, la quale provvedeva di conseguenza decidendo se e quanto personale inviare per far fronte alla prestazione oggetto di appalto. La Corte di Cassazione osserva poi che, nel precedente grado di giudizio, «non era emerso che permessi e ferie dei dipendenti della cooperativa fossero gestiti dalla committente, che l'assunzione del rischio era a carico dell'impresa appaltatrice, come rilevabile dalla diversa unità di misura adottata per il corrispettivo dell'appalto (un tot a lavorazione) rispetto a quella per le retribuzioni dei dipendenti (un tot all'ora), con alea gravante sull'appaltatore rispetto alla copertura di costi di lavoro e di capitali con il ricavato dell'appalto in relazione a periodi dell'anno in cui il mercato delle ruote subiva una naturale flessione».
Per tutte queste motivazioni, quindi, la Corte di legittimità conclude che sono, pertanto, «sussistenti i caratteri distintivi di un appalto genuino, in coerenza con i principi giurisprudenziali che hanno valorizzato anche la sussistenza del solo potere direttivo ed organizzativo dell'appaltatore e la sussistenza del rischio d'impresa, ritenuti sicuramente presenti nella fattispecie esaminata». Ed ancora, specifica che «è conforme alla fattispecie legale anche l'appalto di opere o servizi espletato con mere prestazioni di manodopera, la cui liceità è ritenuta sussistente purché il requisito della "organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore", previsto dall'art. 29 del d.lgs. n. 276 del 2003, costituisca un servizio in sé, svolto con organizzazione e gestione autonoma dell'appaltatore, senza che l'appaltante, al di là del mero coordinamento necessario per la confezione del prodotto, eserciti diretti interventi dispositivi e di controllo sui dipendenti dell'appaltatore».

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