Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Retribuzione, prospetti paga e onere del datore
Mobbing orizzontale e responsabilità del datore
Malattia professionale e onere della prova
Demansionamento e onere della prova
Clausola penale contenuta in un regolamento aziendale

Retribuzione, prospetti paga e onere del datore

Cass. Sez. Lav. 3 dicembre 2020, n. 27749

Pres. Berrino; Rel. Leo; Ric. G.R.; Controric. F.C. - L.s.r.l.- P.C.

Retribuzione - Prospetti paga - Firma per ricevuta/quietanza - Non corrispondenza tra annotazioni e retribuzione corrisposta - Onere della prova del lavoratore – Sussiste
Retribuzione - Prospetti paga - Firma per ricevuta/quietanza - Clausola inserita nelle condizioni generali di contratto - Assimilazione - Esclusione

È onere del datore di lavoro consegnare ai propri dipendenti i prospetti contenenti tutti gli elementi della retribuzione. Laddove si sia, però, in presenza di prospetti paga contenenti tutti gli elementi della retribuzione, ed altresì di una regolare dichiarazione autografa di quietanza del lavoratore (come nella fattispecie, in cui, tra l'altro, la firma non è mai stata contestata dal prestatore d'opera), l'onere della prova della non corrispondenza tra le annotazioni della busta paga e la retribuzione effettivamente erogata grava sul dipendente.
La dicitura "per ricevuta/quietanza" da far sottoscrivere al lavoratore al momento della consegna del prospetto paga non è assimilabile ad una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto che, ai sensi dell'art. 1370 c.c., si interpreta, nel dubbio, contro chi ha predisposto la clausola. Tale regola, infatti, non vale nelle ipotesi di contratti stipulati individualmente, ma solo in quella di contratto concluso mediante moduli o formulari, predisposti da uno dei contraenti e da sottoporre ad una pluralità di eventuali controparti, le quali non hanno alcun potere di influenzare il contenuto del contratto (nella specie, invece, si tratta di una ipotesi di contratto individuale di lavoro in cui il dipendente ha la possibilità di annullare la parte della dicitura "per quietanza", laddove non corrispondente alla situazione di fatto).
NOTA
Un lavoratore (G.), con mansioni di cuoco, barista e cameriere presso una società che gestisce un bar in una stazione ferroviaria, ricorre al Tribunale di Torino chiedendo la condanna della società al pagamento della somma di Euro 97.890,59 a titolo di retribuzioni non corrisposte a partire dal 24.12.2011.
Il Tribunale prima e la Corte territoriale poi, con motivazioni solo parzialmente coincidenti, respingono la domanda attorea, ritenendo provato il pagamento delle retribuzioni stanti le buste paga prodotte dalla società, che recavano la firma del lavoratore per ricevuta/quietanza.
Secondo la Corte di merito in particolare e per quanto di rilievo in questa sede, «La decisione del Tribunale non è fondata su un mero giudizio di verosimiglianza dell'avvenuto pagamento delle retribuzioni ma è ancorata alla valutazione degli elementi probatori disponibili...Le buste paga prodotte dalla società per il periodo in contestazione sono tutte sottoscritte dal G..." per ricevuta/quietanza"; il G. non contesta l'avvenuta sottoscrizione, ma sostiene che la stessa sarebbe stata unicamente apposta per ricevuta del documento e non anche per quietanza». Ma, secondo i Giudici del gravame «è evidente che la sottoscrizione è apposta per entrambe le causali, considerato anche il fatto che, se così non fosse stato, il G. avrebbe potuto e dovuto annullare la parte della dicitura "quietanza" non corrispondente alla situazione di fatto».
Avverso questa decisione il lavoratore ricorre per Cassazione, censurando la sentenza, per quel che qui rileva, sotto il seguente profilo.
In particolare, secondo il ricorrente, i giudici di seconda istanza avrebbero erroneamente desunto dalla dicitura "per ricevuta/quietanza" presente nelle buste paga, che la sottoscrizione era stata apposta per entrambe le causali, quando al contrario il lavoratore aveva solo attestato con la sua firma la ricezione della busta paga, ma non l'avvenuto pagamento. D'altronde, secondo il lavoratore, in presenza di una dicitura ambigua quale "per ricevuta/quietanza" sulla busta paga prestampata dal datore di lavoro, l'art. 1370 c.c. impone di interpretare la sottoscrizione del lavoratore sotto di essa in senso favorevole al medesimo e, quindi, nel senso che la sottoscrizione è apposta per ricevuta della busta paga e non anche per quietanza del pagamento.
Con l'ordinanza in epigrafe la S.C. rigetta il ricorso e conferma la sentenza impugnata.
Ed invero, secondo la S.C., non vi è dubbio che sia onere del datore di lavoro consegnare ai propri dipendenti i prospetti contenenti tutti gli elementi della retribuzione (e ciò, in conformità del disposto anche della L. n. 4 del 1953, artt. 1 e 3) e che i detti prospetti, se eventualmente sottoscritti dal prestatore d'opera con la formula "per ricevuta", non sono sufficienti per ritenere delibato l'effettivo pagamento, potendo gli stessi costituire prova solo dell'avvenuta consegna della busta paga e restando onerato il datore di lavoro, in caso di contestazione, della dimostrazione di tale evento. Ma quando, invece, si sia in presenza di prospetti paga contenenti tutti gli elementi della retribuzione, ed altresì di una regolare dichiarazione autografa di quietanza del lavoratore (come nella fattispecie, in cui, tra l'altro, la firma non è mai stata contestata dal prestatore d'opera), l'onere della prova della non corrispondenza tra le annotazioni della busta paga e la retribuzione effettivamente erogata grava sul dipendente e non sul datore di lavoro (cfr., Cass. nn. 9503/2015; 7310/2001; 1150/1994, citt.); prova che, nel caso di cui si tratta, come motivatamente affermato dai giudici di secondo grado, non è stata fornita dal lavoratore, con la conseguenza che le retribuzioni devono ritenersi tutte corrisposte correttamente.
Peraltro, secondo i Giudici di legittimità, il principio desumibile dall'art. 1370 c.c., per cui le clausole contrattuali che pongono in essere condizioni generali di contratto (ovvero inserite in moduli o formulari) si interpretano, nel dubbio, contro chi ha predisposto tale clausola, ossia a favore del contraente più debole (interpretazione contro il predisponente), non vale nelle ipotesi di contratti stipulati individualmente, ma solo in quella di contratto concluso mediante moduli o formulari, predisposti da uno dei contraenti e da sottoporre ad una pluralità di eventuali controparti, le quali non hanno alcun potere di influenzare il contenuto del contratto (cfr., tra le altre, Cass. n. 3392/2001).
Di contro quando, come nel caso di cui si discute, ci si trovi innanzi ad un contratto individuale di lavoro, non si versa in una delle ipotesi previste dall'art. 1370 c.c., poiché la dicitura "per ricevuta/quietanza" da fare sottoscrivere al lavoratore non è assimilabile ad una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto, o in moduli o formulari, ai sensi degli artt. 1341 e 1342 c.c. - che disciplinano i c.d. contratti per adesione. D'altronde, trattandosi, di una ipotesi di contratto individuale di lavoro ben poteva, come sottolineato dai giudici di merito, il dipendente annullare la parte della dicitura "per quietanza", laddove non corrispondente alla situazione di fatto.
Per tutte le ragioni suesposte la S.C. ritiene la decisione dei giudici territoriali scevra dagli errores in iudicando che la parte ricorrente lamenta, in quanto supportata da correttezza di metodo ed adeguata motivazione delle risultanze in fatto, come emerse dalle prove assunte.

Mobbing orizzontale e responsabilità del datore

Cass. Sez. Lav. 4 dicembre 2020, n. 27913

Pres. Patti; Rel. Leo; P.M. Mastroberardino; Ric. F.M.A.G. S.r.l.; Controric. R. M.

Mobbing orizzontale - Fattispecie: condotte vessatorie poste in essere dai colleghi - Conoscenza da parte del datore di lavoro - Responsabilità ex art. 2087 c.c. - Sussiste - Ratio

La responsabilità datoriale per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psico-fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, avuto anche riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psico-fisica dei lavoratori
NOTA
La Corte di Appello di Ancona, in parziale accoglimento dell'appello incidentale proposto dalla lavoratrice avverso la pronuncia del giudice di prime cure, condannava la società datrice di lavoro al pagamento in favore della stessa dell'importo Euro 5.422,50, a titolo di risarcimento del danno da invalidità temporanea conseguente al mobbing posto in essere nei suoi confronti da altri colleghi, confermando, nel resto, la sentenza impugnata, che, in parziale accoglimento del ricorso proposto dalla lavoratrice, aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato a quest'ultima e disposto la sua reintegrazione nel luogo di lavoro, con condanna della datrice al pagamento dell'indennità risarcitoria dal licenziamento sino alla sua effettiva reintegra, oltre al versamento dei contributi maturati e maturandi.
La Corte d'Appello rilevava che "assume rilievo il fatto che A. G., rappresentante legale della società datrice, sia stato messo al corrente dei reiterati episodi mobizzanti posti in essere nei confronti della dipendente, ma non abbia voluto indagare a fondo la questione, né attuare provvedimenti disciplinari idonei a tutelare la situazione problematica prospettatagli dalla R.; che gli atteggiamenti e i comportamenti tenuti dai dipendenti nei confronti della R. appaiono idonei ad integrare la fattispecie di mobbing, nei termini sintetizzati dall'ormai costante giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. n. 24358/2017) ... sussistendo, nel caso di specie, tanto il requisito oggettivo, quanto quello soggettivo. Il primo, costituito dalla pluralità di atti o fatti, caratterizzati da sistematicità, si è concretizzato con tutta evidenza, data la quotidianità delle offese e dei rimproveri ingiustificati con cui i dipendenti, in particolare la I. e la R., mortificavano la R.. L'elemento soggettivo risulta provato, invece, dall'offensività dei termini utilizzati e delle accuse assolutamente infondate dirette alla lavoratrice, suscettibili di evidenziare la volontà di prevaricazione dei suddetti dipendenti nei confronti della stessa".
La Corte territoriale riteneva dunque che "sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla R., tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall'art. 2087 c.c..".
Avverso tale decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili.
La Suprema Corte ritiene immune da vizi logico-giuridici l'iter argomentativo della Corte di Appello di Ancona, in quanto "i giudici di seconda istanza si sono del tutto attenuti alla consolidata giurisprudenza di legittimità nella materia".
In particolare, per quanto qui rileva, la società datrice impugnava la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2697 c.c. e dell'art.115 c.p.c. "per avere la Corte d'Appello ritenuto esistente la fattispecie di mobbing in assenza degli elementi costitutivi ed avere ravvisato nella fattispecie un intento persecutorio in assenza di elementi probatori a sostegno" e "per avere la Corte d'Appello omesso di considerare la mancata comunicazione al datore di lavoro dei comportamenti assunti come mobizzanti".
La Suprema Corte dichiara non meritevoli di accoglimento tali motivi di ricorso della società, ritenendo che "la Corte di merito ha esaminato e valutato il fatto che il datore di lavoro fosse o meno al corrente dei comportamenti assunti come mobizzanti … ed al riguardo ha osservato che nel caso in esame, sebbene il datore di lavoro non si sia reso protagonista diretto delle condotte vessatorie subite dalla R., tuttavia lo stesso non può andare esente da responsabilità rispetto ai propri obblighi di tutela previsti dall'art. 2087 c.c.. …….. apparendo inverosimile che lo stesso non fosse a conoscenza dei comportamenti tenuti dalla dipendente I in quanto molte circostanze gli sono state riferite direttamente dalla R.".
La Suprema Corte ritiene, altresì, che "l'attività produttiva - anch'essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all'iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma, Cost.) - è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità".
Sul punto la Cassazione rileva, infine, che "……….l'art. 2087 c.c. che, imponendo la tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore da parte del datore di lavoro prevede un obbligo da parte di quest'ultimo, non si esaurisce "nell'adozione e nel mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o antinfortunistico", ma attiene anche -e soprattutto- alla predisposizione "di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione di quella integrità nell'ambiente o in costanza di lavoro anche in relazione ad eventi, pur se allo stesso non collegati direttamente ed alla probabilità di concretizzazione del conseguente rischio", precisando che "la violazione del dovere del neminem laedere può consistere anche in un comportamento omissivo e che l'obbligo giuridico di impedire l'evento può discendere, oltre che da una norma di legge o da una clausola contrattuale, anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui, è da considerare responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo cui è esposto l'altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l'evento dannoso".
Conclusivamente il ricorso della società datrice di lavoro viene respinto.

Malattia professionale e onere della prova

Cass. Sez. Lav. ord. 2 dicembre 2020, n. 27556

Pres. Manna; Rel. Cavallaro; Ric. S. G.; Controric. INAIL;

Malattia professionale - Esposizione ad amianto - Fattispecie: dipendente contrae tumore ai polmoni - Accertamento nesso causale - Criterio del "più probabile che non" - Esposizione per breve periodo di tempo - Dipendente fumatore da 50 anni - Eziologia professionale - Esclusione

Il nesso di causalità tra esposizione ad amianto e insorgenza di patologie tumorali deve accertarsi in materia civile secondo il criterio del "più probabile che non" che indica la misura della relazione probabilistica concreta tra condotta ed evento dannoso e richiede un apprezzamento non isolato bensì complessivo ed organico dei singoli elementi indiziari o presuntivi a disposizione. Ne consegue che va escluso il nesso causale nel caso in cui sia accertato che l'esposizione all'amianto sia avvenuta per un periodo di tempo relativamente limitato e che il dipendente fosse un fumatore incallito da almeno 50 anni, fortissimo fattore di rischio.
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Genova aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dall'erede di un lavoratore volta a conseguire le prestazioni previdenziali dovutele per il decesso del proprio coniuge a causa dell'esposizione dello stesso ad inadeguato rischio professionale.
L'erede ha proposto ricorso per cassazione lamentando la violazione del T.U. 1124/1965, e dell'art. 2697 c.c., «per avere la Corte di merito ritenuto che non fosse stata in specie raggiunta la prova del nesso di causalità tra l'attività lavorativa espletata dal suo dante causa e il di lui decesso per inadeguata esposizione a rischio professionale» nonché per «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per essersi la Corte territoriale discostata dai canoni della scienza medica, avendo valutato insufficiente l'esposizione a rischio».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ribadendo in primo luogo il principio secondo il quale «dall'inclusione nelle apposite tabelle sia della lavorazione che della malattia (purché́ insorta entro il periodo massimo di indennizzabilità) deriva l'applicabilità della presunzione di eziologia professionale della patologia sofferta dall'assicurato essendo conseguentemente onere dell'INAIL dimostrare la dipendenza dell'infermità da una causa extralavorativa oppure che la lavorazione non abbia avuto idoneità sufficiente a cagionare la malattia e fermo restando che, in caso di malattia - come quella tumorale - ad eziologia multifattoriale, la prova del nesso causale non può consistere in semplici presunzioni desunte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma deve consistere nella concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di probabilità, della inidoneità dell'esposizione al rischio a causare l'evento morboso, con la precisazione che, in presenza di forme tumorali che hanno o possono avere, secondo la scienza medica, un'origine professionale, la presunzione legale quanto a tale origine torna ad operare, sicché I'INAIL può solo dimostrare che la patologia tumorale non è ricollegabile all'esposizione a rischio».
Ciò premesso, i giudici di legittimità hanno rilevato che, la Corte territoriale, pur dando atto che nella tabella delle malattie professionali dell'industria sia stato inserito il carcinoma polmonare tra le malattie neoplastiche "derivanti da lavorazioni che espongono all'azione delle fibre di asbesto", ha reputato che la valutazione dell'esposizione a rischio effettuata dalla CTU ambientale fosse stata sovrastimata in rapporto alle effettive risultanze documentali, da cui emergeva che l'esposizione all'amianto fosse pari a soli mesi 36 e giorni 135, e ha pertanto escluso che l'esposizione all'amianto potesse ritenersi sufficiente a determinare l'insorgere della malattia, valorizzando, per contro, un «fortissimo fattore di rischio nella protratta abitudine del fumo di sigaretta [...], posto che il de cuius ha fumato, per circa cinquant'anni, sessanta sigarette al giorno" e "ha contratto una forma di tumore al polmone che può considerarsi 'tipica' dei soggetti fumatori».
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso rilevando che la Corte territoriale si fosse attenuta, nel proprio giudizio, ai medesimi criteri internazionali indicati nella CTU, che fissano in una certa esposizione cumulativa all'amianto il presupposto di fatto per inferirne l'efficacia causale nell'insorgenza di patologie tumorali e che non può considerarsi violato l'art. 2697 c.c., avendo la Corte di merito deciso non già in funzione della regola di giudizio derivante dai criteri di ripartizione dell'onere probatorio, ma sulla base della prova positiva dell'insussistenza in specie di alcun nesso causale tra l'esposizione all'amianto e la patologia tumorale che ha portato alla morte del de cuius.

Demansionamento e onere della prova

Cass. Sez. Lav. 26 novembre 2020, n. 27078

Pres. Negri Della Torre; Rel. Piccone; Ric. R.R.I.S.p.A.; Controric. L.F.;

Lavoro subordinato – Rapporto di lavoro dirigenziale – Demansionamento – Art. 2103 c.c. (versione precedente alla novella del 2015) – Onere della prova della insussistenza del demansionamento in capo al datore di lavoro – Sussiste

Qualora da parte di un lavoratore sia allegata una dequalificazione o venga dedotto un demansionamento riconducibili ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto di qualsiasi dequalificazione o demansionamento, ovvero attraverso la prova che l'una o l'altro siano stati giustificati dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari o, comunque, in base al principio generale risultante dall'art. 1218 cod. civ., da un'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Roma aveva respinto l'appello proposto contro la sentenza di primo grado che aveva riconosciuto integrato il demansionamento ai danni del ricorrente, dirigente di società radiotelevisiva, a partire dall'anno 2001, e condannato il datore di lavoro al risarcimento del relativo danno. La Corte territoriale, in particolare, aveva escluso la sussistenza del danno morale ma ritenuto fondate le accuse di demansionamento e la necessità di risarcire il danno alla professionalità del dirigente, sulla base delle allegazioni di quest'ultimo e della mancanza di prova contraria da parte della società datrice di lavoro.
La Corte aveva ritenuto, infatti, la sussistenza del demansionamento sia in base all'assenza totale, o comunque all'attribuzione soltanto sporadica, di incarichi direttivi al ricorrente, sia in relazione al concreto esercizio dei poteri di delega in ordine ai quali non era risultato, dall'istruttoria espletata, l'esercizio di effettivi poteri direttivi.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, in sintesi, da una parte che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere violato l'art. 2103 c.c. attuandone una lettura «inidonea a cogliere la necessità di un'interpretazione evolutiva con riguardo alla peculiarità della categoria dirigenziale.»; dall'altra che la Corte avesse violato la ripartizione dell'onere probatorio in merito all'asserito demansionamento che – in ossequio all'art. 2697 c.c. – avrebbe dovuto essere in capo al ricorrente.
La Suprema Corte ha respinto le censure, rigettando il ricorso.
In particolare la Corte ha rilevato, quanto al primo profilo, che la proposta interpretazione evolutiva dell'art. 2103 c.c. non fosse rilevante, posto che - in corso di istruttoria - era stata riscontrata più una vera e propria inattività del ricorrente che non un diverso rapporto con i vertici aziendali come sostenuto dalla società. Una interpretazione evolutiva dell'art 2103 c.c. non era, inoltre, attuabile nel caso di specie non potendo la stessa trovare appiglio nella novella dello stesso articolo contenuta nel D.Lgs. 81/2015, non applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis. Quanto poi al secondo profilo la Corte di Cassazione ha confermato la correttezza della ripartizione degli oneri probatori effettuata dalla Corte territoriale. Secondo la Suprema Corte, infatti, in caso di allegazione di un demansionamento o di una dequalificazione da parte del lavoratore, spetta al datore di lavoro dimostrare in giudizio che gli stessi non sussistono o che integrano un'espressione di legittimi poteri imprenditoriali oppure, ancora, che sono stati determinati da un'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al datore medesimo.

Clausola penale contenuta in un regolamento aziendale

Cass. Sez. Lav. ord. 1° dicembre 2020, n. 27422

Pres. Raimondi; Rel. Garri; Ric. T. S.p.A.; Controric. P.T.;

Lavoro subordinato - Clausola penale contenuta in un regolamento aziendale - Specifica approvazione del lavoratore - Necessità

Qualora in un regolamento aziendale sia prevista una clausola penale, il presupposto indispensabile per la sua esistenza è che essa sia stata oggetto di specifica contrattazione e comunque approvazione poiché la previsione di clausole penali accessorie al contratto di lavoro non si sottrae alla regola comune della necessità del consenso e non rientra tra i poteri unilaterali di conformazione della prestazione di lavoro rimessi alla parte datoriale.
NOTA
Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado che, pur ritenendo legittima la sanzione della multa irrogata ad un capotreno per l'incauta custodia di 56 biglietti ferroviari sottrattigli in occasione del furto del borsello agganciato al trolley mentre si recava al treno, aveva però escluso la sussistenza di un obbligo risarcitorio in capo al dipendente, in quanto la circolare Divisionale n. 1 del 13 ottobre 2009, al cui interno era stato stabilito il valore convenzionale del singolo biglietto, costituiva una «disposizione unilaterale», non vincolante per il lavoratore.
Con riferimento al possibile utilizzo fraudolento dei biglietti sottratti, la Corte territoriale ha inoltre osservato che «il danno, per essere risarcito, doveva essere provato, ben potendo accadere che dallo smarrimento non ne derivasse alla società alcuno».
La società ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia.
In particolare, ha ritenuto che la circolare Divisionale del 2009 che conteneva la clausola penale che obbligava al risarcimento del danno in caso di smarrimento dei biglietti, andasse considerata alla stregua di un regolamento interno, e che detto regolamento era stato accettato dal dipendente, in quanto era stata a questi inviata nel dicembre del 2009.
Inoltre, sempre ad avviso della società, l'art. 51 del CCNL delle Attività Ferroviarie, nel prevedere un generale dovere di diligenza del dipendente nello svolgimento delle proprie mansioni, lo obbligava espressamente ad osservare «le disposizioni del presente contratto e i regolamenti interni dell'azienda».
Pertanto, secondo la tesi della società ricorrente, «accertato che il regolamento interno era stato inviato ai dipendenti, esso, per espressa previsione contrattuale - collettiva, sarebbe già fonte obbligatoria per il dipendente, senza necessità di una sua esplicita adesione o di una successiva ratifica di carattere collettivo», obbligando il lavoratore al rispetto di quanto previsto nel regolamento, ivi comprese le conseguenze economiche dei suoi inadempimenti per effetto della clausola penale stabilita.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il suddetto motivo di ricorso, rilevando che la Corte territoriale aveva correttamente escluso che l'art. 51 del contratto collettivo, in uno con la circolare del 2009 comunicata al dipendente, integrassero una valida clausola penale.
Infatti, secondo la Suprema Corte, l'accettazione del valore convenzionale dei biglietti «non implica automaticamente l'accettazione di un obbligo di risarcire ogni biglietto smarrito con l'importo ivi definito senza che si sia accertato preventivamente il danno».
La Corte ricorda che la cd "clausola penale", nel configurarsi quale mezzo rafforzativo del vincolo contrattuale sul piano degli effetti dell'eventuale successivo inadempimento del lavoratore, costituisce una liquidazione anticipata del danno derivatone, indipendentemente dalla prova della sua effettiva esistenza. È però d'altra parte necessario che la clausola penale sia stata oggetto di specifica contrattazione e, comunque, approvazione, essendo necessario il consenso delle parti, non rientrando «tra i poteri unilaterali di conformazione della prestazione di lavoro rimessi alla parte datoriale» (Cass. n. 8726 del 2019).
Nel caso in esame, la circolare Divisionale del 2009 andava considerata quale «atto unilaterale del datore di lavoro che conteneva direttive ma non era stato oggetto di contrattazione, accordo con le organizzazioni sindacali, né era stato accettato dal lavoratore al quale era stato solo comunicato». Non vi era dunque stata alcuna espressa accettazione da parte del lavoratore.
La Suprema Corte ha dunque concluso per il rigetto del ricorso della società e, così, per l'esclusione della sussistenza di una clausola penale nel caso di specie, «in mancanza di "un incontro di volontà" formalizzato in un atto».

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