Contenzioso

Aggressione verbale e licenziamento per giusta causa

di Enrico De Luca e Antonella Iacobellis

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 553 del 14 gennaio 2021, ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice che aveva proferito frasi offensive e minacciose nei confronti dell'amministratore giudiziario della società.
La vicenda giudiziaria trae per l'appunto origine dal licenziamento per giusta causa di una lavoratrice che, ritenendo illegittimo il provvedimento espulsivo, aveva depositato ricorso dinnanzi al competente tribunale del lavoro di Bari, che aveva rigettato la doglianza.
La decisione del giudice di prime cure era confermata dalla Corte di Appello di Bari.
Le corti territoriali nel componimento della loro decisione avevano ritenuto dirimente:
– la relazione depositata dall'amministratore giudiziario sull'accaduto, attribuendo al documento valore di piena prova (cfr. art. 2700 c.c. secondo cui: "L'atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti. in quanto fornita da un pubblico ufficiale."), in quanto fornita da un pubblico ufficiale, restando del tutto irrilevante che nel caso di specie si desumeva l'assenza della posizione di terzietà dell'amministratore giudiziario in quanto rappresentante della società;
– quanto emerso dall'escussione testimoniale.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Bari, la lavoratrice depositava ricorso in Cassazione avvalorato da otto motivi con cui in sintesi, argomentava quanto segue.
Innanzitutto, la lavoratrice sosteneva che la relazione dell'amministratore giudiziario:
– non poteva avere il valore di piena prova, in quanto considerato il ruolo assunto dallo stesso nel caso di specie non poteva attribuirsi la qualifica di pubblico ufficiale;
– aveva impropriamente assunto il valore di fede privilegiata pur contenendo dichiarazioni delle parti;
– nel merito, presentava profili contradditori.
Se ciò non bastasse, la lavoratrice rivendicava che la corte territoriale di secondo grado aveva dato valore alle dichiarazioni testimoniali:
- seppure dalla stessa corte erano state ritenute ultronee rispetto alla dichiarazione qualificata come facente fede privilegiata;
- che risultavano, altresì, contradditorie rispetto al contenuto delle dichiarazioni del medesimo teste rilasciate all'amministratore giudiziario.
Da ultimo, la corte territoriale di secondo grado, a dire della lavoratrice:
– aveva omesso di motivare il proprio convincimento desunto dalla prova;
– aveva assunto la decisione valutando la condotta della lavoratrice in sé senza relazionarla alla ragione – collocamento forzoso in ferie – che la aveva indotta a tenere quel comportamento.
La Suprema Corte ha considerato in maniera unitaria tutti gli 8 motivi di ricorso.
Nella sentenza della Cassazione in esame si sostiene che la decisione della Corte di Appello di Bari che aveva dichiarato la legittimità del licenziamento era basata non tanto sul valore probatorio della relazione rilasciata dall'amministratore giudiziario quanto sulle risultanze istruttorie orali da cui erano emersi i profili di gravità della condotta posta in essere dalla lavoratrice, tali dall'essere incompatibili con la prosecuzione anche temporanea del rapporto di lavoro.
Non solo, la Corte di Cassazione precisa che anche sotto i profili della proporzionalità e della ragionevolezza, la massima sanzione espulsiva si deve ritenere pienamente congrua rispetto alla condotta imputata alla lavoratrice.
A fronte di tutto quanto sopra, la Suprema Corte oltre a rigettare il ricorso principale, dichiarandolo inammissibile, ha condannato la lavoratrice al pagamento delle spese di lite e al rimborso del contributo unificato.

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