Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Ccnl commercio e trasferimento dei lavoratori con qualifica di quadro
Risarcimento del danno esistenziale
Contratti di consulenza continuativa e rivendicazione lavoro subordinato
Licenziamento collettivo e accordi sindacali intesi al reimpiego dei lavoratori
Socio e amministratore di una società di capitali e lavoro subordinato


Ccnl commercio e trasferimento dei lavoratori con qualifica di quadro

Cass. Sez. Lav. 17 dicembre 2020, n. 29014

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; Ric. S.G.; P.M. Sanlorenzo; Controric. S.D.G. S.r.l.

Trasferimento – Quadro – CCNL Commercio – Obbligo di preavviso – Insussistenza

Il CCNL commercio non impone a carico del datore di lavoro un obbligo di preavviso in caso di trasferimento dei lavoratori con qualifica di Quadro che comporti un cambiamento di residenza.
NOTA
La Corte d'Appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, che aveva dichiarato, inter alia, la legittimità del trasferimento comunicato al lavoratore senza preavviso. In particolare, entrambi i giudici di merito ritenevano legittimo il comportamento datoriale sulla base della normativa contrattuale di settore, l'art. 112 del CCNL Commercio e Servizi 2007-2010.
Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo la violazione dell'art. 112 del CCNL (art. 127 del CCNL attualmente in vigore), nonché degli artt. 1362, 1363, 1367 e 1369 cod. civ. in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Il dipendente contestava il rilievo attribuito al significato letterale dell'art. 112 del CCNL, ai sensi del quale «il trasferimento dei Quadri che determini un cambiamento di residenza verrà di norma comunicato per iscritto agli interessati con preavviso di 45 giorni ovvero di 70 giorni per coloro che abbiano familiari a carico», rispetto agli altri canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ.
La Suprema Corte rigetta il motivo di ricorso, confermando il proprio orientamento consolidato secondo cui l'art. 1362 cod. civ., allorché prescrive agli interpreti di indagare sulla comune intenzione delle parti senza limitarsi al tenore letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale ma intende ribadire che non è ammissibile un'interpretazione diversa da quella letterale qualora non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione (in senso conforme, Cass. SS.UU. n. 20181 del 25 luglio 2019 e Cass. n. 21576 del 22 agosto 2019). In altre parole, l'interpretazione del contratto richiede l'applicazione di criteri logici, teleologici e sistematici – in aggiunta al criterio letterale – soltanto laddove il testo dell'accordo medesimo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa volontà dei contraenti.
Nella fattispecie in oggetto, i giudici di merito avevano applicato correttamente i suddetti criteri, confermando che – poiché l'art. 112 del CCNL non stabilisce che il trasferimento di un dipendente debba necessariamente essere preceduto da un preavviso – a carico del datore di lavoro non sussiste alcun obbligo in tal senso.

Risarcimento del danno esistenziale

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2021, n. 703

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; P.M. Sanlorenzo; Ric. C. S.p.a.; Controric. S.F.

Lavoro subordinato – Danno esistenziale – Nozione – Onere della prova – Presunzioni – Elementi indiziari – Sufficienza – Fattispecie: lavoratore con familiare disabile trasferito lontano da casa – Risarcimento del danno – Configurabilità

Il danno esistenziale, da intendere come ogni pregiudizio provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni. Ne consegue che è legittimo il risarcimento del danno riconosciuto al lavoratore attribuendo rilievo anche ad una ricostruzione in chiave presuntiva del danno laddove il giudice possa trarre il suo libero convincimento dall'apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza.
NOTA
La Corte d'appello, rigettando l'impugnazione proposta dalla società ha confermato la decisione del Tribunale che aveva parzialmente accolto la domanda avanzata dal lavoratore dichiarando l'illegittimità dell'assegnazione del ricorrente ad una diversa sede di lavoro e condannato la società al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno esistenziale.
Avverso la sentenza della Corte di appello ha proposto ricorso la società contestando, tra le altre cose, l'assenza di elementi probatori atti a dimostrare il danno liquidato. La Cassazione ha rigettato il ricorso.
Per la Suprema Corte, in tema di demansionamento e di dequalificazione, mentre il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, il danno esistenziale va dimostrato nel corso del giudizio con ogni mezzo consentito dall'ordinamento, assumendo particolare rilevanza anche la prova per presunzioni.
Nella specie è stato accertato il danno esistenziale del lavoratore che era stato trasferito benché avesse una moglie malata. Gli elementi del danno sono stati riscontrati nella notevole distanza chilometrica tra la sede assegnata e quella cui il lavoratore avrebbe avuto diritto, nel rilevante lasso di tempo occorrente per coprire tale distanza, pari a cinque ore giornaliere (sottratte al tempo da dedicare agli obblighi di assistenza del coniuge malato) nel notevole periodo temporale entro cui si è protratto l'inadempimento - pari ad oltre due anni - e nella natura della patologia sofferta dal coniuge convivente, tale da richiedere, come confermato dalle certificazioni mediche, controlli clinici periodici e sostegno assistenziale.

Contratti di consulenza continuativa e rivendicazione lavoro subordinato

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2021, n. 697

Pres. Blasutto; Rel. Cinque; Ric. A.C.; Contr. M. S.p.A.;

Fattispecie: consulente informatico - Contratti di consulenza continuativa - Rivendicazione lavoro subordinato - Continuità del rapporto - Rilevanza ma non sufficienza - Eterodirezione - Verifica - Necessità

Ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, la prolungata esecuzione della prestazione di collaborazione, pur essendo un elemento necessario di valutazione, non costituisce fattore assorbente, occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro. In tal senso, occorre aver riguardo all'articolazione effettiva e concreta del rapporto lavoro: il potere direttivo, l'ingerenza nell'esecuzione della prestazione, il potere disciplinare.
NOTA
La Corte di appello di Milano ha riformato la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio che aveva accolto il ricorso proposto da una lavoratrice per l'accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo all'azienda con cui aveva sottoscritto una serie di contratti di consulenza continuativa dal 2006 sino al 2012.
La Corte territoriale, infatti, ha ritenuto che le risultanze processuali in ordine alle concrete modalità di svolgimento della consulenza non fossero idonee ai fini del riconoscimento di un rapporto di lavoro di natura subordinata intercorso tra le parti.
Avverso tale decisione la lavoratrice ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
La Suprema Corte afferma che le doglianze della consulente non meritano accoglimento, sia perché intese alla sollecitazione della valutazione probatoria operata dalla Corte territoriale, con riferimento per esempio, a circostanze apprezzate e ritenute irrilevanti, quali la concertazione delle ferie, il coordinamento di lavoratori dipendenti della società ritenuto occasionale, la targa apposta sulla porta dell'ufficio assegnato alla lavoratrice, sia perché, con riferimento agli elementi sopra specificati, essi non si rivelano decisivi ai fini di una diversa qualificazione del rapporto di consulenza intercorso.
In particolare, la Cassazione – dopo aver ricordato che l'eterodirezione consiste nell'indefettibile assoggettamento al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro, con conseguente limitazione dell'autonomia del lavoratore – ritiene, con particolare riguardo al potere disciplinare, che la Corte di merito correttamente ha avuto riguardo all'aspetto funzionale del rapporto e non a quello genetico, risultante dal dato letterale del contratto.
Afferma la Suprema Corte che «ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro, la prolungata esecuzione ed il nomen iuris, pur essendo elementi necessari di valutazione, non costituiscono fattori assorbenti, occorrendo dare prevalenza alle concrete modalità di svolgimento del rapporto di lavoro».
Con riferimento al caso di specie, l'eterodirezione è stata ritenuta assente nell'articolazione effettiva e concreta del rapporto lavorativo instaurato tra le parti, il quale è stato considerato una collaborazione paritaria senza vincolo di subordinazione: sotto questo profilo è stata evidenziata, dalla Corte territoriale, proprio per avvalorare tale assunto, la mancanza di richieste di permessi o di ferie ovvero l'assegnazione di un badge. Tali circostanze non hanno consentito, a parere dei giudici di seconde cure, di intercettare in capo al datore di lavoro alcuna manifestazione del potere direttivo e di ingerenza nella esecuzione della prestazione della consulente.
Conclusivamente, la Corte di Cassazione respinge il ricorso della lavoratrice.

Licenziamento collettivo e accordi sindacali intesi al reimpiego dei lavoratori

Cass. Sez. Lav. 16 gennaio 2021 n. 701

Pres. Raimondi; Rel. Blasutto; Ric. S.G..; Controric. S. Spa

Licenziamento collettivo - Collocamento in mobilità - Accordi sindacali intesi al reimpiego dei lavoratori – Legittimità – Facoltà del dipendente

L'art. 4, comma 11, della legge n. 223 del 1991 statuendo che, nel corso delle procedure di mobilità, gli accordi sindacali, al fine di garantire il reimpiego almeno ad una parte dei lavoratori, possono stabilire che il datore di lavoro assegni, in deroga all'art. 2103 cod. civ., mansioni diverse da quelle svolte, non solo sottintende la possibilità di attribuzione di mansioni anche peggiorative, ma non pone alcuna preclusione nell'assegnazione delle mansioni inferiori; e ciò si spiega considerando che trattasi per un verso di un rimedio per evitare il licenziamento e per altro verso di una deroga che non vincola i lavoratori, i quali ben potrebbero rifiutare la dequalificazione, andando però incontro al rischio del licenziamento.
NOTA
La Corte di appello di Venezia confermava la sentenza primo grado che aveva rigettato la domanda proposta dal dipendente che aveva impugnato il licenziamento intimatogli all'esito di una procedura di mobilità, ai sensi della legge n. 223/1991. Il dipendente deduceva di essere stato licenziato, a seguito di una procedura di mobilità conclusasi con un accordo aziendale ove si prevedeva la facoltà dei lavoratori in esubero di chiedere di essere adibiti a mansioni inferiori, nonostante avesse fatto espresso ricorso a tale facoltà, rendendosi disponibile a svolgere mansioni non più di impiegato ma di operaio, con diminuzione della retribuzione percepita.
La Corte d'appello riteneva che l'uso del termine "facoltà" indicato nell'accordo aziendale per il lavoratore non implicasse che la società fosse nella posizione di subire l'esercizio di un diritto potestativo, trovandosi invece nella condizione di accettare o meno la richiesta del dipendente, a seconda delle necessità interne dell'azienda.
Avverso tale sentenza ricorreva il dipendente davanti la Corte di Cassazione, con venti motivi. Con il primo ed unico motivo analizzato dalla Corte di Cassazione, il ricorrente lamentava che l'interpretazione effettuata dalla Corte di appello della parola "facoltà" secondo la quale «veniva attribuita al datore di lavoro una incondizionata facoltà di aderire o meno alla richiesta del lavoratore» era sbagliata in quanto il significato della previsione doveva essere interpretato, ricostruendo l'effettiva volontà delle parti contrattuali di cui all'accordo sindacale «nel senso della costituzione, in capo al lavoratore, di un diritto potestativo incidente sul contenuto del rapporto di lavoro mediante l'esercizio della facoltà ivi prevista».
La Corte di legittimità accoglie il ricorso del dipendente e cassa la sentenza con rinvio ad altra sezione della CA di Trieste, ritenendo che l'articolo 4, comma 11 della legge n. 223/1991, che prevede la possibilità di siglare un accordo sindacale nell'ambito di una procedura di licenziamento collettivo che comporti il mantenimento in servizio di lavoratori in esubero adibendoli a mansioni inferiori e che è volto a tutelare l'interesse del lavoratore a conservare la posizione lavorativa rinunciando alle precedenti condizioni economiche e contrattuali, non è vincolante nei confronti dei lavoratori che possono, quindi, scegliere se essere demansionati o meno, essendo espressione di un diritto potestativo in capo ai lavoratori da cui deriva l'assunzione di un'obbligazione a carico del datore di lavoro.

Socio e amministratore di una società di capitali e lavoro subordinato

Cass. Sez. Lav. ord. 19 gennaio 2021 n. 813

Pres. Blasutto; Rel. Cinque; Ric. M.G.; Controric. M.A.M.A. S.r.l.

Qualità di socio e amministratore di società di capitali e di lavoratore subordinato - Compatibilità - Prova della subordinazione - Necessità - Contenuto.

La qualità di socio di una società di capitali (nella specie una società a responsabilità limitata) non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro con la società stessa purché colui che intenda fare valere il rapporto di lavoro subordinato ne provi in modo certo l'elemento tipico qualificante e, cioè, il requisito della subordinazione, il quale deve essere inteso come il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, caratterizzato dalla emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di una assidua attività di vigilanza e di controllo della esecuzione delle prestazioni lavorative.
NOTA
M.G., socio e amministratore unico di una società di capitali chiedeva e otteneva dal Tribunale di Foggia (ex Lucera) decreto ingiuntivo relativamente a somme pretese a titolo di retribuzione per lavoro subordinato svolto in favore della medesima società.
A seguito di opposizione proposta dalla società, il Tribunale revocava il decreto ingiuntivo, rilevando l'incompatibilità della carica di amministratore unico svolta dall'opposto con quella di lavoratore subordinato, nonché che dall'istruttoria svolta non erano emersi elementi di prova in senso contrario alla qualifica formale da lui rivestita.
La Corte di Appello territoriale confermava la sentenza del Tribunale di revoca del decreto ingiuntivo, rilevando, da un lato, che incombeva sul M.G. l'onere di dimostrare che, nonostante la formale qualifica di amministratore della società, fosse in realtà un lavoratore subordinato e, dall'altro, che dalle prove raccolte in primo grado era emerso che lo stesso non fosse sottoposto al potere disciplinare e gerarchico di alcuno ma, al contrario, all'interno dell'azienda avesse svolto un ruolo di predominanza sugli altri soci.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione M.G., che, tra le altre cose, lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. e dell'art. 4 del CCNL di settore, assumendo che la Corte di Appello territoriale non avesse tenuto conto della sussistenza del vincolo di subordinazione che caratterizzava la sua attività nonché dei poteri gerarchici e direttivi del consiglio di amministrazione della società.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondate le dedotte violazioni di legge, osservando che la qualità di socio di una società di capitali (nella specie una società a responsabilità limitata) non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro con la società stessa purché colui che intenda fare valere il rapporto di lavoro subordinato ne provi in modo certo l'elemento tipico qualificante e, cioè, il requisito della subordinazione, il quale deve essere inteso come il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, caratterizzato dalla emanazione di ordini specifici oltre che dall'esercizio di una assidua attività di vigilanza e di controllo della esecuzione delle prestazioni lavorative (cfr. Cass. 6827/1999; Cass. 24972/2013).
Nella fattispecie, era emerso dall'istruttoria che M.G. non solo non era sottoposto al potere gerarchico e disciplinare di alcuno ma, al contrario, all'interno dell'azienda svolgeva un ruolo di predominanza sugli altri soci.

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