Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per gmo e onere della prova
Licenziamento per gmo e andamento economico negativo
Requisiti per la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro
Diritto al trasferimento ad una sede vicina al domicilio del parente portatore di handicap
Straining e ristrutturazione aziendale


Licenziamento per giustificato motivo oggettivo/1

Cass. Sez. Lav. 25 gennaio 2021, n. 1508

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; P.M. Sanlorenzo; Ric. M.B.; Controric. S.W.S. S.r.l.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Ragioni organizzative - Onere della prova del datore di lavoro - Sussistenza - Verifica al momento della comunicazione del recesso - Sufficienza

In materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo grava sul datore di lavoro l'onere di provare, tra l'altro, le ragioni inerenti alle attività produttive che rendono impossibile impiegare il dipendente nella organizzazione aziendale, da accertare in base agli elementi di fatto sussistenti alla data della comunicazione del recesso, spettando al giudice di verificarne l'effettiva ricorrenza attraverso un apprezzamento delle prove incensurabile in sede di legittimità, se effettuato con una motivazione coerente e completa.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Riduzione dei costi - Obbligo di repêchage - Limiti
L'obbligo che grava sul datore di dimostrare l'impossibilità di adibire il dipendente da licenziare in altri posti di lavoro non è violato quando l'ipotetica ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale è incompatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale. In tal senso siffatto obbligo (cd. obbligo di repêchage) deve ritenersi incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale in quanto, in tal caso, il mantenimento in servizio del dipendente, seppure in altre mansioni, contrasterebbe con tale esigenza.
NOTA
Un dipendente impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo dal proprio datore di lavoro, lamentando l'insussistenza del giustificato motivo addotto, la mancata indicazione dei motivi del licenziamento, nonché la violazione dei principi di correttezza e buona fede nella scelta dei dipendenti da licenziare.
Il giudice della fase sommaria riteneva legittimo il licenziamento, mentre sia il giudice della fase di opposizione che la Corte d'Appello di Reggio Calabria nella successiva fase del reclamo, pur non ritenendo manifestamente insussistente il giustificato motivo addotto, in considerazione delle perdite subìte dalla società e della situazione di crisi generale economica che stava attraversando il settore portuale, ritenevano comunque illegittimo il licenziamento, in quanto la scelta di licenziare il dipendente era avvenuta in violazione dei canoni di correttezza e buona fede. In favore del lavoratore era stata dunque riconosciuta la sola indennità risarcitoria di cui all'art. 18, commi 5 e 7 L. 300/1970.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione il lavoratore, lamentando che la Corte territoriale avesse erroneamente negato la tutela reintegratoria e non considerato la possibilità di una sua ricollocazione in azienda.
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
La Suprema Corte, dopo aver ricordato che in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo grava sul datore di lavoro l'obbligo di provare, tra le altre cose, «le ragioni inerenti alle attività produttive che rendono impossibile impiegare il dipendente nella organizzazione aziendale», il cui accertamento va condotto sulla base degli elementi di fatto «sussistenti alla data della comunicazione del recesso», ha osservato che la Corte territoriale aveva correttamente fatto applicazione di tale principio, avendo la stessa valutato le circostanze realmente esistenti al momento del licenziamento (il calo di fatturato della società negli anni, i bilanci in perdita dell'azienda, la situazione di crisi del settore portuale, gli analoghi licenziamenti disposti da parte di altre due società, che confermavano la generale crisi economica del settore). Dunque, nel caso di specie, non vi era stato alcun «uso indebito di vicende extragiudiziali» successive al licenziamento del lavoratore, bensì «una valutazione complessiva ed analitica di tutto il contesto probatorio» diretto alla verifica della sussistenza del giustificato motivo oggettivo, che la società aveva individuato sia nella riduzione dei costi aziendali, che in ragioni inerenti la propria attività produttiva.
Quanto all'obbligo di repêchage, la Suprema Corte ha ricordato che il datore di lavoro è tenuto a provare l'impossibilità di adibire il dipendente da licenziare in altri posti di lavoro rispetto a quelli da sopprimere, e che ciò è «incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale». D'altra parte, prosegue la Corte, tale obbligo «non può ritenersi violato quando l'ipotetica ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale non è compatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale» (Cass. n. 21715/2018).
Riguardo a tale aspetto, la Suprema Corte ha ritenuto che la Corte territoriale avesse correttamente valutato il profilo della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, avuto riguardo alle mansioni espletate e, dunque, riconosciuto in favore del dipendente licenziato la spettanza dell'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, commi 5 e 7 L. 300/1070, dovendosi escludere la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso.
Conclusivamente, il ricorso del lavoratore è stato rigettato.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, andamento economico negativo

Cass. Sez. Lav. 25 gennaio 2021, n. 1514

Pres. Raimondi; Rel. Boghetich; Ric. P.M.; Controric. C.R.

Licenziamento - Giustificato motivo oggettivo - Ragioni - Situazioni economiche negative o crisi aziendali - Non necessità - Riorganizzazione aziendale - Incremento della redditività - Sufficienza
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo l'andamento economico negativo dell'azienda ovvero situazioni economiche sfavorevoli o di crisi non costituiscono presupposti fattuali che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa.
NOTA
La Corte d'Appello di Cagliari ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad una lavoratrice per giustificato motivo oggettivo da parte di una Congregazione religiosa in considerazione dell'andamento economico negativo delle strutture gestite dalla congregazione che aveva imposto la riduzione dei costi e la rimodulazione dell'organizzazione di lavoro, con conseguente soppressione del posto di lavoro della dipendente ed attribuzione delle relative mansioni ad una suora, che prestava la sua opera senza corresponsione di retribuzione.
La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione lamentando tra il resto «la violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, avendo, la Corte distrettuale, valutato la sussistenza del giustificato motivo di recesso con riguardo ad un motivo diverso da quello addotto nella lettera di licenziamento ossia con riguardo alla crisi economica della Congregazione nel suo complesso in luogo dell'andamento economico della specifica struttura diretta dalla lavoratrice, nonostante, sin dal ricorso introduttivo del giudizio, era stato sottolineato che il bilancio della struttura cui era adibita la lavoratrice era assolutamente positivo fin dal 2015 e la situazione di crisi era da imputare ad altre strutture gestite dalla Congregazione».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ricordando un principio ormai consolidato secondo cui «la ragione inerente all'attività produttiva di cui all'art. 3 della legge 604/1966 è quella che determina un effettivo ridimensionamento riferito alle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali». Pertanto, la modifica della struttura organizzativa che legittima l'irrogazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo può essere colta sia nella esternalizzazione a terzi dell'attività a cui è addetto il lavoratore licenziato, sia nella soppressione della funzione cui il lavoratore è adibito, sia nella ripartizione delle mansioni di questi tra più dipendenti già in forze, sia nella innovazione tecnologica che rende superfluo il suo apporto, sia nel perseguimento della migliore efficienza gestionale o produttiva o dell'incremento della redditività, fermo restando, da una parte, la non sindacabilità dei profili di congruità ed opportunità delle scelte datoriali, e, dall'altra, il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall'imprenditore a giustificazione del recesso nonché sul nesso causale tra l'accertata ragione e l'intimato licenziamento. La Corte ha anche precisato che per la legittimità del recesso è sufficiente che le addotte ragioni inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, causalmente determinino un effettivo mutamento dell'assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa, non essendo la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità.
I giudici di legittimità hanno quindi rigettato il ricorso rilevando che nel caso di specie la Corte territoriale ha accertato la ricorrenza di una ristrutturazione organizzativa determinata dall'esigenza di ridurre i costi delle attività gestite dalla Congregazione. Il riscontro di effettività ha correttamente riguardato la scelta aziendale di sopprimere il posto di lavoro occupato dalla lavoratrice e la verifica del nesso causale tra soppressione del posto e le ragioni dell'organizzazione aziendale addotte a sostegno del recesso e cioè l'adibizione di una religiosa appartenente alla Comunità con conseguente soppressione di costi del lavoro e consistenti risparmi annuali al fine di ripianare una situazione economica compromessa.

Requisiti per la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav. 25 gennaio 2021, n. 1507

Pres. Raimondi; Rel. Cinque; Ric. S.S.P.A.; Controric. M.S.R.L.I.L.+1;

Lavoro subordinato – Unico centro di imputazione del rapporto – Collegamento economico-funzionale – Ulteriori elementi costitutivi – Unicità struttura organizzativa e produttiva – Coordinamento tecnico amministrativo – Utilizzo contemporaneo della prestazione – Necessità

In ordine alla individuazione degli elementi per ravvisare, tra due soggetti, un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro - mascherando quindi una simulazione o una preordinazione in frode alla legge del frazionamento di un'unica attività fra i vari soggetti del collegamento economico-funzionale - occorre accertare: a) l'univocità della struttura organizzativa e produttiva; b) l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle single imprese verso uno scopo comune; d) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori.
NOTA
Nel caso di specie il Tribunale di Brescia aveva respinto la domanda del lavoratore volta ad ottenere l'accertamento dell'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro tra la formale datrice di lavoro e altra società di cui lo stesso era stato dipendente in precedenza per alcuni anni.
Tale decisione veniva ribaltata dalla Corte d'Appello competente secondo la quale erano emersi, in corso di istruttoria, elementi tali da ritenere che la distinzione tra i due datori di lavoro fosse esclusivamente formale e che, pertanto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato al lavoratore, fondato sulla cessazione dell'attività aziendale della formale datrice di lavoro, fosse illegittimo. Ciò in considerazione del fatto che l'attività della società che per prima aveva impiegato il lavoratore era proseguita dopo la cessazione dell'attività della formale datrice di lavoro (peraltro con commercializzazione di prodotti che recavano il marchio della società cessata).
In conseguenza di ciò al lavoratore veniva riconosciuta un'indennità risarcitoria pari a venti mensilità della retribuzione globale di fatto.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponevano ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro e la S.S.P.A. sostenendo, in sintesi e per quanto qui interessa, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere la sussistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro in capo alle due società. Tra le argomentazioni a sostegno di tale tesi il fatto che il rapporto con la società datrice di lavoro avesse avuto durata superiore ai due anni, con ciò dovendosi escludere una ipotesi di preordinazione dell'operazione nel suo complesso in frode al lavoratore.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, rigettando il ricorso.
In particolare la Cassazione ha rilevato che la Corte territoriale si era correttamente attenuta ai principi della giurisprudenza in materia di accertamento dell'esistenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro avendo rilevato, sulla base di un esame completo del materiale probatorio, la non autonomia dei due datori di lavoro alla luce dei seguenti requisiti: «a) l'univocità della struttura organizzativa e produttiva; b) l'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo ed il correlativo interesse comune; c) il coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) l'utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori». In particolare secondo la Suprema Corte era stata correttamente ravvista nel corso rapporto con la società formale datrice di lavoro una commistione nella titolarità giuridica, nella effettiva operatività e nella gestione amministrativo-contabile delle due società.

Diritto al trasferimento ad una sede vicina al domicilio del parente portatore di handicap

Cass. Sez. Lav. 18 gennaio 2021, n. 704

Pres. Raimondi; Rel. Piccone; Ric. P.I. s.p.a.; Controric. P.C.; P.M. Sanlorenzo

Trasferimento del dipendente - Assistenza familiare disabile - Diritto alla sede più vicina ex art. 33 L. 104/92 - Limite - Esigenze aziendali - Onere della prova a carico del datore -Configurabilità

Il diritto ex art. 33 l. 104/92 del dipendente a essere assegnato alla sede più vicina al domicilio del familiare disabile e a non essere trasferito senza il proprio consenso trova un limite solo ove il suo esercizio leda in misura significativa le esigenze produttive e organizzative del datore traducendosi in un danno per l'attività. La prova circa la sussistenza di queste esigenze ostative grava sul datore di lavoro.
NOTA
Una lavoratrice chiedeva al proprio datore di lavoro di essere trasferita alla sede di lavoro più vicina al domicilio della madre e del fratello, entrambi disabili, in base di quanto previsto dall'art. 33 l. 104/1992. Di fronte al rifiuto datoriale la lavoratrice adiva l'autorità giudiziaria competente, ottenendo il trasferimento per via giudiziaria, in sede di gravame. La Corte d'appello di Roma, infatti, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava la sussistenza del diritto della lavoratrice ad essere trasferita presso la sede richiesta, ordinando alla società appellata di procedere alla relativa assegnazione oltre che alla rifusione delle spese di lite. Secondo la Corte territoriale, infatti, il diritto al trasferimento sussiste non solo all'inizio ma anche nel corso del rapporto ed esso è subordinato esclusivamente all'esistenza di un posto vacante, spettando alla parte datoriale la prova dell'esistenza di ragioni ostative all'assegnazione
Avverso questa decisione, la società datrice ricorreva per Cassazione, con due distinti motivi.
In primo luogo, secondo la ricorrente, il Collegio di secondo grado avrebbe omesso il giusto bilanciamento fra gli interessi contrapposti, del dipendente da una parte e della società dall'altra, avendo reputato "disponibili" posti di lavoro, in realtà, assegnati ad altri dipendenti e con ciò determinando una violazione della L. n. 104 del 1992, art. 33.
Inoltre la Corte, non avrebbe tenuto in debito conto la circostanza pacifica che, per la provincia richiesta dalla dipendente, la società datrice avesse già provveduto al trasferimento di un numero cospicuo di dipendenti, in ottemperanza ad un accordo in materia di trasferimenti volontari concordato anni prima, rispetto alla richiesta della dipendente.
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte considera questi motivi del tutto infondati. E infatti, secondo gli Ermellini, innanzitutto i giudici del gravame, richiamando la pronunzia delle Sezioni Unite n. 7945/2008, avrebbero ben posto in risalto che il diritto soggettivo del dipendente che assista con continuità un familiare portatore di handicap di scegliere la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e a non essere trasferito senza il proprio consenso, sussiste solo ove ciò sia "possibile" e cioè qualora, in un bilanciamento tra gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera significativa le esigenze economiche, organizzative e produttive del datore di lavoro, traducendosi in un danno per l'attività della parte datoriale. Inoltre, il Collegio territoriale avrebbe anche correttamente evidenziato che è sul datore di lavoro privato o pubblico che esso sia, l'onere della prova di siffatte circostanze ostative all'esercizio di quel diritto del dipendente.
Ebbene, nella specie, secondo la S.C., è stata la stessa società appellata a dedurre, nella memoria di costituzione depositata nel giudizio di primo grado, che nell'anno 2012 erano state trasferite 70 risorse verso la provincia richiesta dalla lavoratrice e che, nell'anno 2013, erano state trasferite da tutta Italia 24 risorse part time e 113 full time.
Tali allegazioni, secondo la Corte, evidenziano come l'esistenza di un consistente numero di posti vacanti fosse stata ammessa dalla stessa società datrice, anche per il periodo del 2013, durante il quale la dipendente non solo aveva formalizzato la richiesta di cui all'art. 33, ma l'aveva coltivata con l'instaurazione del giudizio. Del tutto correttamente, dunque, la Corte territoriale ha escluso, a fronte di una accertata vacanza di posti e della decisione della società di coprirli, la sussistenza di una esigenza organizzativa datoriale prevalente ed insindacabile di fronte alla quale potesse validamente ipotizzarsi una retrocessione del diritto della dipendente ad assistere i familiari disabili, diritto, peraltro, mai contestato nel suo nucleo, da parte datoriale.
In altre parole, secondo la S.C., il Collegio territoriale avrebbe correttamente rilevato come la società ricorrente non abbia in alcun modo dedotto e dimostrato, come era suo onere, le esigenze economiche, produttive od organizzative che potessero in qualche modo ostacolare il trasferimento della richiedente.
Anzi, proprio l'allegazione della società di aver già provveduto negli anni precedenti, e anche nel 2013, al trasferimento di un numero cospicuo di dipendenti, avrebbe dimostrato la sussistenza di numerosi posti vacanti, uno dei quali avrebbe potuto agevolmente essere destinato alle esigenze della ricorrente. Sulla base di queste argomentazioni, la S.C. decide, quindi, di rigettare il ricorso della società.

Straining e ristrutturazione aziendale

Cass. Sez. Lav. 4 febbraio 2021, n. 2676

Pres. Berrino; Rel. Cinque; Ric. principale e Controric. nel ricorso incidentale E.F.; Controric. e Ric. incidentale B. S.p.A.

Straining - Definizione - Demansionamento - Ristrutturazione aziendale - Esclusione
Il cd. "straining" è ravvisabile allorquando il datore adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative "stressogene" e non quando, invece, la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione
NOTA
La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della pronuncia del giudice di prime cure, aveva accertato il demansionamento del lavoratore sino al giugno del 2007 e, per l'effetto, aveva condannato l'istituto bancario al risarcimento del danno alla professionalità subito dal lavoratore, quantificandolo nella misura del 25% della retribuzione mensile percepita, oltre accessori, e per il resto aveva confermato la decisione del Tribunale di Bergamo, che, in parziale accoglimento del ricorso presentato dal dipendente aveva accertato il demansionamento dello stesso a far tempo dal febbraio del 2003 al febbraio del 2005, con condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità quantificandolo nella misura del 25% della retribuzione mensile percepita, oltre accessori.
La Corte territoriale riteneva altresì, che "d) le due proposte di mutamento delle mansioni erano assolutamente confacenti al suo inquadramento e soprattutto al bagaglio professionale e alle capacità acquisite nella sua lunga carriera presso la B. nonché idonei a colmare quell'impoverimento di mansioni che sino a quel momento aveva caratterizzato la sua posizione (post 2003); e) le negazioni opposte dal dipendente erano del tutto prive di giustificazioni per cui doveva ritenersi venuta meno ogni responsabilità della B. per l'eventuale successiva assegnazione di mansioni inferiori; f) il demansionamento patito andava, quindi, rimodulato fino al giugno del 2007 g) il danno alla professionalità, quantificato nel 25% della retribuzione, in relazione alla sotto-utilizzazione, al comportamento di parte datoriale, alle modalità dei nuovi incarichi svolti e la natura transeunte della dequalificazione, doveva ritenersi correttamente dimostrato e determinato; h) non era stato provato un danno all'immagine né una situazione stressante, patita dal lavoratore e imputabile alla Banca, così come non era stato dimostrato l'asserito danno patrimoniale".
Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili, e il datore di lavoro ha resistito con controricorso, formulando ricorso incidentale sulla base di due motivi cui ha resistito, a sua volta, con controricorso lo stesso lavoratore.
In particolare, per quanto qui rileva, la Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte di Appello di Brescia in quanto coerente con i criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto in tema di ipotesi di straining.
Nel caso in esame la Corte territoriale escludeva che fossero emersi elementi utili a dimostrare "un intento vessatorio o punitivo del datore di lavoro nell'assegnazione della mansioni in questione", e, quindi, anche di ipotesi di straining come invece ipotizzate dal consulente del lavoratore, in quanto "le modifiche di ruolo che avevano riguardato il dipendente si erano inserite nell'ambito di processi di riorganizzazione e ristrutturazione generale che avevano caratterizzato l'istituto bancario e perché gli altri dati che erano stati dedotti a riprova dell'ostilità dell'ambiente di lavoro, non avevano trovato alcun riscontro in causa: infatti, non era risultata processualmente acquisita la circostanza che l'E. fosse stato escluso dalle attività formative ovvero dalle riunioni indette dai superiori gerarchici, né che l'originario ricorrente fosse stato privato di subdeleghe o del suo ufficio senza valida ragione".
Secondo la Cassazione le argomentazioni della sentenza di secondo grado in tema di configurabilità del risarcimento del danno per straining erano conformi alle statuizioni della nota pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte n. 23291 del 2016, che hanno escluso il diritto a tale risarcimento in presenza di mutamento di mansioni del lavoratore (da capo filiale a specialista) subito nell'ambito di una riorganizzazione aziendale.
Conclusivamente sia il ricorso principale del lavoratore che quello incidentale del datore di lavoro vengono respinti.

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