Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Rivendicazione di inquadramento superiore
Dequalificazione professionale e danno non patrimoniale
Mansioni promiscue e diritto al superiore inquadramento
Sospensione in Cigs e altra attività lavorativa
Disdetta da un contratto collettivo aziendale


Rivendicazione di inquadramento superiore

Cass. Sez. Lav. ord. 8 febbraio 2021 n. 2970

Pres. Berrino; Rel. Lorito; Ric. P.C.R.I. S.p.a.; Controric. V.F.

Mansioni superiori - Accertamento trifasico - Accertamento di fatto delle attività - Individuazione qualifiche e gradi - Confronto con contrattazione collettiva – Necessità - Sequenza rigida e formalizzata delle azioni - Esclusione

Il percorso trifasico costituisce il momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell'inquadramento del lavoratore subordinato. Detto procedimento logico giuridico si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.
L'osservanza del cd. criterio "trifasico" non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.
NOTA
La Corte di Appello di Roma, riformando la sentenza del Tribunale di prime cure, accoglieva la domanda proposta dal lavoratore V.F. nei confronti della società P.C.R.I. S.p.a., avente ad oggetto il diritto all'inquadramento superiore (secondo livello del CCNL di settore) con decorrenza dal 18.5.2004 e il pagamento delle conseguenti differenze retributive.
La Corte di Appello territoriale, richiamate le declaratorie del CCNL di settore, osservava che l'istruttoria esperita nel giudizio di primo grado consentiva di accertare la fondatezza della domanda proposta dal lavoratore, anche con riferimento al rivendicato profilo di "accertatore collaudatore", rimarcando a tal proposito la circostanza che il ricorrente era stato assunto nel 2003 con contratto di formazione finalizzato all'acquisizione della predetta qualifica.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione P.C.R.I. S.p.a., che, tra le altre cose, lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 2967 c.c. e e dell'art. 97 CCNL Commercio, assumendo che la Corte di Appello territoriale non avesse confrontato gli accertamenti in fatto risultanti dalle testimonianze con entrambe le declaratorie contrattuali di riferimento, con ciò omettendo di seguire il procedimento logico-giuridico trifasico proprio dei giudizi in materia di rivendicazione di qualifica superiore.
La Corte di Cassazione ha ritenuto infondato il ricorso, osservando che lo svolgimento del c.d. percorso trifasico costituisce il momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell'inquadramento del lavoratore subordinato e che detto procedimento si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell'individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda (cfr. Cass. n. 20272/2010, Cass. n. 8589/2015, Cass. n. 30580/2019).
Tuttavia, l'osservanza di tale criterio "trifasico" non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni (cfr. Cass. 18943/2016).
Nello specifico, la Corte ha ritenuto adeguatamente svolto, dalla Corte territoriale, detto procedimento "trifasico" posto che la stessa ha, innanzitutto, analizzato le disposizioni del livello III della contrattazione collettiva (riservato ai lavoratori che svolgono mansioni di concetto o prevalentemente tali, che comportino particolari conoscenze tecniche e adeguata esperienza, ed ai lavoratori specializzati provetti che operano in condizioni di autonomia nell'ambito delle proprie mansioni), in godimento al lavoratore, nonché quelle del livello II (cui appartengono i lavoratori di concetto che svolgono compiti operativamente autonomi e/o con funzioni di coordinamento e controllo), oggetto della domanda di rivendicazione.
Ha quindi rimarcato che gli esiti della prova testimoniale avevano suffragato il disimpegno, da parte del lavoratore, di compiti operativamente autonomi e, specificamente, delle attività di accertatore, specifico profilo riconducibile alla qualifica superiore rivendicata, rilevando altresì che egli era stato assunto con contratto di formazione finalizzato proprio all'acquisizione della qualifica di accertatore.

Dequalificazione professionale e danno non patrimoniale

Cass. Sez. Lav. ord. 3 febbraio 2021, n. 2472

Pres. Berrino; Rel. Cinque; Ric. R. S.p.A.; Contr. S.C.

Dequalificazione professionale – Danno non patrimoniale – Danno alla professionalità – Danno emergente - Sussiste - Reddito da lavoro dipendente - Esclusione

Il danno non patrimoniale alla professionalità, quale pregiudizio derivante da una grave violazione dei diritti del lavoratore, rientra nell'alveo del danno emergente e non del lucro cessante, conseguentemente, la relativa indennità risarcitoria non costituisce reddito soggetto a tassazione.
NOTA
La Corte d'Appello di Roma ha confermato la sentenza resa in primo grado dal Tribunale di Roma che aveva condannato la società datrice di lavoro al pagamento, nei confronti di una lavoratrice, di una somma a titolo di risarcimento del danno alla professionalità conseguente all'accertata dequalificazione professionale subìta dalla dipendente.
In particolare, la Corte d'Appello ha ritenuto che la somma da corrispondere alla lavoratrice, stante la natura risarcitoria della stessa (quale danno emergente), non fosse riconducibile a reddito da lavoro dipendente con esclusione, pertanto, dall'applicazione della relativa tassazione.
Avverso tale decisione, la società ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto due diversi profili.
Con entrambi i motivi di ricorso, seppur con diverse argomentazioni, il datore di lavoro sostiene che la Corte territoriale abbia errato nel ritenere che il danno non patrimoniale alla professionalità costituisca danno emergente e non lucro cessante.
In particolare, ritiene la società ricorrente che tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli da invalidità permanente o da morte, costituiscano redditi da lavoro dipendente, salva la possibilità del lavoratore di dimostrare che l'indennità si riferisca a voci di risarcimento puro, prova che – ritiene la società – nel caso di specie la lavoratrice non aveva fornito.
La Suprema Corte, in continuità con l'orientamento consolidatosi sul punto, afferma che "in tema di dequalificazione professionale, è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti", da ciò ne consegue che "tale tipologia di pregiudizio determina la sua appartenenza alla fattispecie del danno emergente, e non di lucro cessante ravvisabile nelle ipotesi di perdita derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti, per cui non è considerata reddito soggetto a tassazione".
La Corte di Cassazione ritiene, dunque, che la Corte territoriale abbia fatto corretta applicazione dei principi sopra indicati concludendo nel senso che il danno non patrimoniale alla professionalità rientra nell'alveo del danno emergente e non del lucro cessante, conseguentemente il risarcimento di tale tipologia di danno non è considerato reddito soggetto a tassazione.
Sulla base di tali argomentazioni, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso della società.

Mansioni promiscue e diritto al superiore inquadramento

Cass. Sez. Lav. 8 febbraio 2021, n. 2969

Pres. Berrino; Rel. Lorito; P.M. Sanlorenzo; Ric. T.G.; Controric. T.S.p.a.

Lavoro subordinato - Mansioni promiscue (mansioni proprie e mansioni superiori) - Diritto al superiore inquadramento - Giudizio di prevalenza - Comparazione qualitativa e non quantitativa - Necessità

In caso di mansioni promiscue, ove la contrattazione collettiva non preveda una regola specifica per l'individuazione della categoria di appartenenza del lavoratore, la prevalenza non va determinata sulla base di una mera contrapposizione quantitativa delle mansioni svolte, bensì tenendo conto, in base alla reciproca analisi qualitativa, della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non espletata in via sporadica o occasionale.
NOTA
Nel caso di specie un dipendente aveva agito in giudizio per richiedere l'inquadramento superiore e le conseguenti differenze retributive. Il Tribunale prima e la Corte di appello poi, avevano rigettato i ricorsi proposti sostenendo che il presupposto per il riconoscimento della qualifica superiore fosse quello della prevalenza quantitativa delle mansioni svolte, non riscontrabile nella specie.
Avverso la sentenza di secondo grado proponeva ricorso il dipendente e la Suprema Corte lo ha accolto.
Per la Cassazione la Corte di appello, nel proprio ragionamento, aveva omesso di considerare le declaratorie contrattuali, gli elementi distintivi di ciascun inquadramento, le attività lavorative concretamente svolte e il raffronto tra i risultati di tali due indagini. Ciascuno dei suddetti momenti di ricognizione e valutazione deve, infatti, trovare ingresso nel ragionamento decisorio, sia pur implicitamente. Tale sequenza non era stata presa in considerazione dalla Corte, né risultavano esplicate le ragioni per le quali era stato ritenuto legittimo l'inquadramento del lavoratore nel livello posseduto, sia pure in base alla nozione di preminenza, giacché anche l'adozione di tale criterio valutativo presuppone comunque la compiuta enunciazione delle mansioni contrattualmente previste nelle declaratorie dei singoli inquadramenti, cui raffrontare le mansioni in concreto espletate.
Per la Suprema Corte nel caso di specie doveva inoltre considerarsi applicabile l'orientamento secondo cui in caso di mansioni promiscue, laddove non vi siano previsioni specifiche nel contratto collettivo applicato, la mansione prevalente non va determinata a seguito di una sola analisi quantitativa delle mansioni, ma piuttosto tenendo conto della mansione maggiormente significativa sul piano professionale, purché non esercitata sporadicamente.
Per le ragioni di cui sopra la sentenza della Corte distrettuale è stata cassata rendendosi necessario verificare le qualifiche previste dal contratto collettivo di categoria, individuare le mansioni svolte dal lavoratore e raffrontare i risultati di tali due indagini, modulando l'eventuale giudizio sulla prevalenza in tema di promiscuità di mansioni, alla stregua dei summenzionati principi.

Sospensione in Cigs e altra attività lavorativa

Cass. Sez. Lav. 9 febbraio 2021, n. 3122

Pres. Balestrieri; Rel. Boghetich; Ric. A. I. S.p.A.; Controric. F.S.

Sospensione in CIGS – Altra attività lavorativa – Obbligo di comunicazione preventiva – Sussiste – Cumulo redditi con integrazione CIGS – Divieto – Fattispecie: addestramento strumentale finalizzate al rinnovo delle abilitazioni di volo in scadenza

Lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa remunerata durante il periodo di sospensione del lavoro con diritto all'integrazione salariale comporta non la perdita del diritto alla reintegrazione per l'intero periodo predetto ma una riduzione dell'integrazione medesima in proporzione ai proventi dell'altra attività lavorativa, sempre che l'ente previdenziale sia informato preventivamente dell'avvio dell'attività lavorativa presso altro datore di lavoro, pena la decadenza dal diritto all'integrazione salariale.
NOTA
Il dipendente di una compagnia aerea, con mansioni di pilota, veniva posto dalla propria datrice di lavoro in Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria (CIGS). Durante tale periodo, il pilota svolgeva un'attività remunerata a favore di un'altra compagnia aerea e, solo due mesi dopo l'inizio di queste attività, lo comunicava alla propria datrice di lavoro oltre che all'INPS.
La datrice di lavoro, pertanto, contestava al dipendente l'omessa comunicazione tempestiva dello svolgimento della predetta attività e lo licenziava per giusta causa. Il ricorrente impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Busto Arsizio, la cui sentenza veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello di Milano che dichiarava illegittimo il licenziamento, condannando la compagnia aerea a reintegrare il pilota nel posto di lavoro oltre che ad un risarcimento del danno pari a 12 mensilità della retribuzione globale di fatto.
Difatti, secondo la ricostruzione della Corte di appello l'attività remunerata esercitata dal pilota a favore dell'altra compagnia aerea era esclusivamente finalizzata al mantenimento delle licenze e abilitazioni al volo, per le quali quindi non era sorto un obbligo informativo del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, in quanto, alla luce delle circolari Inps in materia (in particolare la n. 94 del 2011), le fasi di addestramento strumentale su simulatore e in linea, finalizzate al rinnovo delle abilitazioni in scadenza andavano ricomprese nel c.d. "periodo neutro,", ai fini della interruzione della prestazione e l'eventuale mancanza della preventiva comunicazione non dava luogo a decadenza dalle prestazioni, non trattandosi di attività prettamente lavorativa.
La compagnia aerea impugnava la sentenza avanti la Corte di Cassazione ritenendo che la Corte territoriale avesse sottovalutato il comportamento del lavoratore che, posto in cassa integrazione, aveva percepito - dal 1° aprile al 31 maggio 2014 - l'indennità di sostegno al reddito cumulandola con la retribuzione percepita da un altro datore di lavoro, senza comunicare alcunché, in violazione delle disposizioni dell'art. 8 del d. l. n. 86.
La Corte di Cassazione nell'accogliere il ricorso della compagnia aerea, afferma che: «L'ambito delle attività soggette alla comunicazione preventiva è individuato da questa Corte nel suo significato più ampio: l'attività lavorativa è intesa come insieme di condotte umane caratterizzate dall'utilizzo di cognizioni tecniche (anche se del genere più vario e della più diversa complessità), che siano obiettivamente idonee a produrre reddito. Vi rientrano, pertanto, tutte le attività qualificabili come lavorative nel senso sopra precisato (implicanti l'impiego di una professionalità, per quanto minima, e potenzialmente redditizie), senza che assuma rilievo la forma negoziale nella quale esse siano svolte». Pertanto, la Corte di legittimità, interpretando in maniera rigorosa gli obblighi informativi previsti dall'art. 8, comma 5, del d.l. n. 86 del 1988 e individuando nell'ambito delle attività soggette alla comunicazione preventiva all'INPS tutte le condotte umane caratterizzate dall'utilizzo di cognizioni tecniche che siano obiettivamente idonee a produrre reddito, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Milano.

Disdetta da un contratto collettivo aziendale

Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 2021, n. 3542

Pres. Balestrieri; Rel. Arienzo; P.M. Fresa; Ric. B.A.; Controric. C.G. + 1
Contratto collettivo aziendale – Libertà di forma – Disdetta in forma orale – Ammissibilità – Prova testimoniale – Ammissibilità

In assenza di una norma di legge che imponga una specifica forma ai fini della validità dei contratti collettivi aziendali, essi sono validi anche se non stipulati per iscritto. Di conseguenza, la medesima libertà di forma deve essere riconosciuta agli atti risolutori di tali accordi, quali il recesso unilaterale. La disdetta comunicata in forma orale – nonché il rispetto dei termini previsti dalla contrattazione aziendale – potranno essere provati per testimoni.
NOTA
La Corte d'Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto dovute le somme a titolo di premio aziendale in ragione della tardiva disdetta della società dal contratto collettivo aziendale. In particolare, il Tribunale prendeva in considerazione la disdetta comunicata per iscritto dopo la scadenza del termine di cui al contratto e non, invece, il recesso in forma orale avvenuto nel rispetto del termine medesimo.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo l'omesso esame dell'avvenuta disdetta dall'accordo collettivo aziendale formulata oralmente in occasione di un incontro sindacale, nonché la violazione degli artt. 2729 e 1350 cod. civ. con riferimento al mancato accoglimento delle istanze istruttorie riguardanti l'avvenuta disdetta, in violazione del principio di libertà di forma.
La Suprema Corte ritiene entrambi i motivi di censura fondati.
Quanto al primo, la questione va risolta in conformità al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in mancanza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta, e in applicazione del principio generale della libertà di forma (secondo cui le norme che prescrivono forme peculiari per determinati contratti o atti unilaterali non sono suscettibili di interpretazione analogica), un accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto (in senso conforme, Cass., SS.UU., 3318/1995; Cass., Sez. Lav., 11111/1997; Cass., Sez. Lav., 2600/2018; Cass., Sez. Lav., 2601/2018; Cass., Sez. Lav., 5601/2018). Dal suddetto principio deriva che la medesima libertà deve essere riconosciuta anche agli atti che siano risolutori del contratto medesimo, quale il mutuo dissenso o il recesso unilaterale.
Da ciò discende, inoltre, la fondatezza dell'altro motivo di ricorso, avente ad oggetto la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta dalla società ricorrente, onerata ex art. 2697, comma 2, cod. civ. di dimostrare l'esistenza della disdetta comunicata in forma orale nei termini previsti dall'accordo aziendale nonché il carattere meramente confermativo (e non innovativo) della dichiarazione scritta intervenuta in un momento successivo.

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