Contenzioso

Buono pasto anche per il dipendente che non riesce a fare pausa

di Salvatore Servidio

La Corte di cassazione, con la sentenza 5547/2021 depositata il 1° marzo, ha stabilito che il buono pasto sostitutivo spetta anche al lavoratore che effettua un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore se non può usufruire del servizio mensa o se – per ragioni di servizio – non riesce a fare la pausa.

La Corte d'appello aveva confermato la sentenza di primo grado, che aveva accolto la domanda di un dipendente turnista di una azienda ospedaliera, accertando il suo diritto alla erogazione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le 6 ore, condannandola al risarcimento del danno. La Corte territoriale osservava che l'articolo 29, comma 2, Ccnl integrativo comparto sanità, del 20 settembre 2001, doveva essere interpretato in combinato disposto con l'articolo 8 del Dlgs 66/2003, e ne derivava che il diritto alla mensa doveva essere identificato con il diritto alla pausa. Il diritto alla mensa doveva, dunque, riconoscersi a tutti i dipendenti che effettuavano un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore.

Il lavoratore (i cui turni seguivano lo schema 7-13, 13-20, 20-7) svolgeva nel turno pomeridiano un orario di 7 ore e nel turno notturno un orario di 11 ore. Egli non avrebbe potuto usufruire del servizio di mensa perché non poteva essere sospeso il servizio di assistenza e non vi era un servizio di mensa serale. Pertanto, doveva riconoscersi il suo diritto ai buoni pasto, oltre al risarcimento del danno, per avere l'appellato provveduto a proprie spese al pasto.

Nel ricorso per Cassazione l'azienda ospedaliera deduce che, secondo la norma contrattuale, il criterio per riconoscere il diritto alla mensa è l'impossibilità, in relazione all'articolazione dell'orario di lavoro, di pranzare fuori dall'ambiente di lavoro. Quindi, il dipendente avrebbe potuto consumare il pasto prima di iniziare il turno pomeridiano o il turno notturno e l'articolo 8 del Dlgs 66/2003 non attribuiva diritto alla mensa, bensì disciplinava esclusivamente il diritto alla pausa, essendo soltanto una possibilità quella di consumare il pasto durante la pausa.

Nel decidere la vertenza, la Suprema Corte respinge il ricorso datoriale affermando che il buono pasto sostitutivo spetta anche al lavoratore che effettua un orario di lavoro giornaliero eccedente le 6 ore, se non può usufruire del servizio mensa o se – per ragioni di servizio – non riesce a fare la pausa. Al riguardo, per orientamento giurisprudenziale consolidato, il diritto alla fruizione del buono pasto non ha natura retributiva ma costituisce erogazione di carattere assistenziale, collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale, avente il fine di conciliare le esigenze di servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore (Cassazione 31137/2019); dunque, proprio per tale natura, il diritto al buono pasto è strettamente collegato alle disposizioni della contrattazione collettiva che lo prevedono (Cassazione 22985/2020).

Nel caso specifico viene in rilievo l'articolo 29 del Ccnl 20 settembre 2001: le aziende, in relazione al proprio assetto organizzativo e compatibilmente con le risorse disponibili, possono istituire mense di servizio o, in alternativa, garantire l'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive. In ogni caso l'organizzazione e la gestione dei suddetti servizi, rientrano nell'autonomia gestionale delle aziende, mentre resta ferma la competenza del Ccnl nella definizione delle regole in merito alla fruibilità e all'esercizio del diritto di mensa da parte dei lavoratori. Nel caso di erogazione dell'esercizio del diritto di mensa con modalità sostitutive, queste ultime non possono comunque avere un valore economico inferiore a quello in atto e il dipendente è tenuto a contribuire nella misura di un quinto del costo unitario del pasto. Il pasto non è monetizzabile.

La questione di causa consiste quindi nello stabilire quale sia la «particolare articolazione dell'orario» che, ai sensi del comma 2 dell'articolo 29, attribuisce il diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio. Un indice interpretativo deriva dalla disposizione del comma 3 dello stesso articolo 29, secondo cui il pasto va consumato al di fuori dell'orario di lavoro e il tempo a tal fine impiegato è rilevato con i normali strumenti di controllo dell'orario e non deve essere superiore a 30 minuti. Da tale norma si ricava che la fruizione del pasto, e il connesso diritto alla mensa o al buono pasto, è prevista nell'ambito di un intervallo non lavorato, diversamente, non potrebbe esercitarsi alcun controllo sulla sua durata.

Si conviene dunque sul fatto che la «particolare articolazione dell'orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo, di qui il rilievo dell'articolo 8 del Dlgs 66/2003, secondo cui il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di 6 ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto; le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro e, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo. Anche nel testo legislativo, quindi, la consumazione del pasto è collegata alla pausa di lavoro e avviene nel corso della stessa.

Il fatto che il diritto alla mensa oltre che a un'obbligatoria sosta lavorativa sia legato contrattualmente anche alla necessità che l'attività lavorativa sia prestata «nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto», sarebbe stato, in maniera chiara, espresso dalle parti sociali, con l'indicazione precisa di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa; fasce che, invece, non sono previste.I l giudice di merito, conclude la Cassazione, ha pertanto correttamente interpretato la disposizione contrattuale.

Si rileva da ultimo, per completezza, che, l'articolo 1, comma 677, della legge 160/2019, modificando l'articolo 51, comma 2, lettera c) del Tuir, prevede dal 1° gennaio 2020:
- per i buoni pasto cartacei l'esenzione da contributi Inps e tassazione Irpef per la parte che non eccede i 4 euro;
- per i buoni pasto in formato elettronico la soglia di esenzione passa invece a 8 euro.

Nel primo caso, quello dei buoni cartacei, la soglia è stata diminuita dai precedenti 5,29 euro. Per i buoni elettronici, invece, l'asticella si alza rispetto ai 7 euro previsti fino al 31 dicembre 2019. La norma ha il chiaro intento di favorire i buoni elettronici rendendoli doppiamente convenienti: da un lato ne aumenta l'esenzione, dall'altro rende meno appetibili i "concorrenti" cartacei.

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