Contenzioso

Jobs act e licenziamenti, sì al rimedio del solo indennizzo

di Giampiero Falasca

La distinzione tra “vecchi assunti” e “nuovi assunti” contenuta nelle norme sul contratto a tutele crescenti (Dlgs n. 23/2015), e l’inclusione in questa seconda categoria dei rapporti convertiti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 - data di entrata in vigore del provvedimento - sono compatibili con il diritto comunitario, in quanto tali regole mirano a incentivare la stabilizzazione dei rapporti a termine.

Con questa importante conclusione la Corte di giustizia europea riconosce la compatibilità con le norme comunitarie di una delle riforme più importanti scaturite dal Jobs Act, la riforma dei licenziamenti approvata nel corso del 2015.

Una conclusione che può sorprendere solo chi è meno avvezzo all’analisi delle decisioni del Giudice comunitario, il quale molto spesso, in passato, ha “promosso” le norme nazionali che, per promuovere l’occupazione di specifiche categorie di lavorato, introducono percorsi differenziati rispetto a quelli ordinari. Un approccio molto attento alla capacità delle norme di creare nuova occupazione e poco arroccato dietro anacronistiche difese di principi astratti che tutelano solo in apparenza i lavoratori. mentre in realtà innalzano solide barriere all’ingresso nel mercato del lavoro.

La controversia che ha dato origine alla decisione che ha portato alla sentenza nella causa C-652/19 è nata nel 2017, quando una società ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che ha interessato 350 lavoratori. I dipendenti hanno ottenuto l’accertamento della illegittimità della procedura e la conseguente reintegrazione nell’impresa, tranne uno, nei confronti del quale il Tribunale di Milano ha applicato la semplice tutela risarcitoria, in quanto era stato assunto tempo indeterminato tramite la conversione di un rapporto a termine avvenuta dopo il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Dlgs n. 23/2015.

Il Tribunale di Milano, preso atto dell’esistenza di due regimi sanzionatori differenti in caso di licenziamento collettivo illegittimo (quello riservato ai vecchi assunti, imperniato sulla reintegrazione nel posto di lavoro, e quello destinato ai nuovi assunti, che ha come misura principale l’indennità risarcitoria), ha chiesto alla Corte di giustizia se il diritto dell’Unione osti a una simile differenza di trattamento, ricevendo dal Giudice comunitario una risposta negativa.

Secondo la Corte Ue, la direttiva n. 98/59 sui licenziamenti collettivi, richiamata dal Tribunale di Milano, non è pertinente in quanto disciplina soltanto la procedura da seguire nel caso di tali licenziamenti, mentre nel caso di specie non è in discussione la procedura, ma la possibile violazione dei criteri per determinare i lavoratori sottoposti a tale procedura.

Neppure il richiamo alla Carta dei diritti fondamentali (e ai principi di uguaglianza e di tutela in caso di licenziamento ingiustificato che vi trovano posto) viene giudicato pertinente: secondo la Corte, la questione deve essere esaminata ai sensi dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che costituisce un’applicazione del principio di non discriminazione.

In tale prospettiva, la Corte di giustizia osserva che la regola contenuta nel Dlgs n. 23/2015, che assimila a una nuova assunzione la conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato, assoggettando i lavoratori interessati al regime delle “tutele crescenti”, può essere giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio di un regime di tutela meno forte, una forma di stabilità dell’impiego. Si tratta di un incentivo volto a favorire la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato che costituisce un obiettivo legittimo di politica sociale e di occupazione, la cui scelta rientra nell’ampio margine di discrezionalità degli Stati membri.

Pertanto, la Corte di giustizia esclude che le eventuali differenze di trattamento tra determinate categorie di personale a tempo indeterminato possano violare il principio di non discriminazione, in quanto l’obiettivo di incrementare l’occupazione legittima e giustifica l’adozione di regole speciali.

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