Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Licenziamento per g.m.o. e obbligo di repêchage
Licenziamento per g.m.o.
Il corrispettivo del patto di non concorrenza
Licenziamento collettivo, procedura
La temporanea sottoutilizzazione del dipendente non configura mobbing

Licenziamento per g.m.o. e obbligo di repêchage

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2021, n. 6085

Pres. Raimondi; Rel. Garri; P.M. Sanlorenzo; Ric. M. Z.; Controric. F.N.G S.r.l.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo - Obbligo di repêchage - Applicabilità - Medesima categoria legale e professionale del lavoratore licenziato - Legittimità

Nel valutare le possibilità di ricollocazione del lavoratore il datore di lavoro, pur nella vigenza dell'art. 2103 cod.civ. come modificato dalla legge n. 81 del 2015, non può certo giungere al punto di considerare come posizione utile ai fini del repêchage quella che in nessun modo è riferibile alla professionalità posseduta.
NOTA
Il Tribunale di Roma riteneva, all'esito della fase sommaria, che il licenziamento intimato al lavoratore per giustificato motivo oggettivo avesse carattere ritorsivo, mentre, all'esito della fase di opposizione, ne accertava l'illegittimità e, dichiarato risolto il rapporto di lavoro, condannava la società datrice al pagamento di una indennità risarcitoria ai sensi dell'art. 18, comma 5, della Legge n. 300/1970, quantificata in diciotto mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.
La Corte d'Appello di Roma, decidendo sul reclamo principale proposto dalla datrice di lavoro e su quello incidentale proposto dal lavoratore, accoglieva, in riforma della pronuncia del Tribunale di Roma, il reclamo principale, respingendo quello incidentale e rigettando la domanda originariamente proposta dal lavoratore.
La Corte d'Appello riteneva che "era risultato dimostrato il progressivo deterioramento della situazione economica della società nell'ambito del quale si era inserita la rimodulazione della convenzione da parte della Regione Lazio, con una drastica riduzione del budget che aveva portato alla soppressione di posti letto nel reparto di assegnazione del dott. Z. ed alle riduzioni di personale, medico e non, assegnato alle stesse. A compromettere la situazione economica della società era poi sopravvenuta la richiesta della Regione di pagamento delle somme oggetto della sentenza della Corte dei Conti n. 13 del 2013 per un importo di € 7.612.037,18".
Secondo la Corte territoriale, inoltre, era escluso che "la società nell'individuare i soggetti da licenziare fosse tenuta ad applicare in via analogica i criteri fissati dall'art. 5 della legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi estendendo l'ambito di valutazione anche al personale non medico. Inoltre è stata ritenuta insindacabile, perché ragionevole e rispondente a criteri di correttezza e buona fede, la scelta di trattenere in servizio tra i medici solo un chirurgo ed un'anestesista, addetti anche al
blocco operatorio, preferiti rispetto al dott. Z. che non era specializzato e perciò non poteva operare in sala".
In ultimo la Corte d'Appello di Roma, quanto all'obbligo di repêchage, respingeva la tesi del Tribunale di Roma ritenendo che "l'assunzione a distanza di tre mesi dal licenziamento e con contratto a termine di un assistente sanitario, qualifica inferiore rispetto a quella rivestita dal dott. Z., non fosse rilevante per accertare la concreta possibilità di reimpiego del lavoratore. Da un canto il modello contrattuale era differente (contratto a termine in luogo del contratto a tempo indeterminato e richiama Cass. 21715 del 2018); dall'altro il profilo di assunzione (assistente socio sanitario livello B2, personale non medico di supporto all'infermiere) era del tutto diverso da quello del medico, di cui non costituisce una "mansione inferiore" valutabile, in ipotesi, anche in relazione al nuovo testo dell'art. 2113 cod. civ. e, se ritenuto applicabile, anche al repêchage", ed escludeva che "la società fosse tenuta a considerare la possibilità di ricollocarlo presso la M. s.r.l. evidenziando che non vi era alcuna prova di un rapporto di codatorialità e che comunque non era stata neppure allegata, dal lavoratore che ne era onerato, l'esistenza di un medesimo centro d'imputazione".
Il lavoratore impugnava, quindi, la sentenza di secondo grado deducendo, tra gli altri motivi di ricorso, la violazione e falsa applicazione dell'art. 3 della Legge n. 604/1966 e dell'art. 7 del C.C.N.L. del personale delle case di cura e IRCCS in relazione all'inadempimento dell'obbligo di repêchage.
La Suprema Corte rigetta il ricorso del lavoratore ricordando che la Corte d'Appello di Roma accertava che "le mansioni oggetto del contratto stipulato dalla società successivamente al licenziamento dell'odierno ricorrente oltre a non essere paragonabile a quello che legava il dott. Z. alla F. s.r.l. (contratto a termine il primo e a tempo indeterminato il secondo) non era riferibile alla medesima categoria professionale", ed evidenziando che la pronuncia della Corte Territoriale "analizzate le mansioni e le declaratorie contrattuali ha posto in rilievo l'estraneità dei compiti affidati all'assistente sanitario (funzione di supporto all'infermiere) con quelle di medico, per quanto non specializzato", trattandosi in sostanza di "figure che non appartengono alla medesima categoria legale e dunque non sono suscettibili di essere prese in esame laddove per effetto di una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore questo non possa, ai fini della salvaguardia della sua posizione lavorativa, che essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore".
Pertanto, la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte Territoriale, che ha ritenuto che, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovuto ad una generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, la scelta del dipendente (o dei dipendenti) da licenziare per la datrice di lavoro non è totalmente libera ma comunque limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza ex artt. 1175 e 1375 cod. civ., potendo farsi riferimento, a tal fine, ai criteri di cui all'art. 5 della Legge n. 223/1991, quali standard particolarmente idonei a consentire alla datrice di lavoro di esercitare il suo potere selettivo coerentemente con gli interessi del lavoratore e con quello aziendale. Tuttavia, ove sia accertato in fatto che l'ambito in cui eseguire la riduzione sia stato ragionevolmente individuato tra le professionalità omogenee la scelta appartiene al datore di lavoro cui compete in via esclusiva l'individuazione delle modalità organizzative dell'attività.

Licenziamento per g.m.o. e soppressione della posizione

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2021, n. 6084

Pres. Raimondi; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. S.G.; Contr. C.F. S.r.l.;

Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Soppressione della posizione - Obbligo di repêchage - Onere di allegazione - Onere probatorio - A carico del datore - Sussiste
In materia di repêchage non sussiste alcun onere di collaborazione da parte del lavoratore, questo gravando esclusivamente sul datore di lavoro. L'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse, elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale, non può essere condizionata da finalità espulsive legate alla persona del lavoratore. L'onere probatorio in ordine alla sussistenza di tale presupposto è a carico del datore di lavoro, che può assolverlo anche mediante ricorso a presunzioni, restando escluso tuttavia che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili.
NOTA
La Corte d'Appello di Catania, confermando la sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento per soppressione della posizione irrogato dalla società datrice di lavoro ad un dipendente, in quanto dalla documentazione in atti era emersa la sussistenza di una effettiva riduzione del fatturato e delle vendite della società, tali da giustificare la necessità di ridurre il numero dei dipendenti e, così, di sopprimere la mansione del lavoratore, con redistribuzione della stessa tra gli altri dipendenti. La Corte territoriale aveva peraltro ritenuto, con riferimento all'obbligo di repêchage, che in capo all'azienda non fosse sorto alcun onere probatorio, non avendo il lavoratore allegato l'esistenza di posti di lavoro nei quali avrebbe potuto essere utilmente ricollocato.
Avverso tale decisione il dipendente ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto vari profili.
In particolare, e per quanto di interesse, con il quarto motivo di ricorso il lavoratore sostiene che la Corte d'Appello di Catania abbia errato nel ritenere posto a carico dello stesso l'onere di dimostrare la sussistenza di posti di lavoro disponibili.
Sul punto, la Suprema Corte ritiene che la soluzione prospettata dalla Corte territoriale contrasti con i principi elaborati dalla più recente giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Cass. n. 5592/2016; Cass. n. 12101/2016; Cass. n. 160/2017 e Cass. n. 24882/2017).
Infatti, secondo l'orientamento di legittimità oramai consolidato, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, incombono sul datore di lavoro gli oneri di allegazione e di prova dell'esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l'impossibilità del c.d. repêchage, ossia dell'inesistenza di altri posti di lavoro in cui utilmente ricollocare il lavoratore, da provarsi anche mediante il ricorso a presunzioni.
Sul datore di lavoro - spiega la Corte - incombe l'onere di allegare e dimostrare il fatto che rende legittimo l'esercizio del potere di recesso, ossia l'effettiva sussistenza di una ragione inerente all'attività produttiva, all'organizzazione o al funzionamento dell'azienda nonché l'impossibilità di una differente utilizzazione del lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte.
La Corte di Cassazione ha pertanto cassato con rinvio la sentenza impugnata, rinviandola alla Corte d'Appello di Catania, in diversa composizione, per l'ulteriore esame della vicenda, alla luce del motivo di ricorso accolto.

Il corrispettivo del patto di non concorrenza

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2021, n. 5540

Pres. Negri Della Torre; Rel. Amendola; Ric. I.S.P.P.B.S.P.A.; Controric. V.E.M.;

Lavoro subordinato – Patto di non concorrenza – Corrispettivo – Non previsione del minimo garantito – Determinabilità del corrispettivo per relationem – Legittimità – Indeterminatezza – Esclusione

In tema di patto di non concorrenza e di determinatezza del relativo corrispettivo, dire che un corrispettivo è variabile in relazione alla durata del rapporto di lavoro, non significa affatto che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi, atteso che si ha determinabilità quando sono indicati, anche per relationem, i criteri in base ai quali si fissa la prestazione, così sottratta al mero arbitrio
NOTA
Nel caso di specie la Corte d'Appello di Milano aveva rilevato la nullità del patto di non concorrenza post-contrattuale stipulato con una lavoratrice per mancanza di determinatezza o determinabilità del corrispettivo a fronte delle limitazioni professionali imposte, essendo lo stesso legato alla durata del rapporto di lavoro (Euro 6.000 l'anno, per tre anni dalla sottoscrizione) e senza la previsione di un corrispettivo minimo garantito in caso di cessazione del rapporto di lavoro precedente alla completa maturazione del corrispettivo da parte della dipendente (circostanza, peraltro, verificatasi in concreto). Siffatto assetto ha determinato, secondo la Corte territoriale, uno sbilanciamento a favore del datore di lavoro e la conseguente nullità del patto.
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la società datrice di lavoro sostenendo, in sintesi, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere indeterminato il corrispettivo del patto di non concorrenza avendo lo stesso patto chiaramente individuato una durata definita (tre anni) e un corrispettivo determinato da versarsi annualmente (Euro 6.000).
La Suprema Corte ha accolto le censure e cassato la sentenza.
In particolare la Corte ha rilevato, in primo luogo, che l'art. 2125 c.c. prevede - all'interno del nostro ordinamento - una tutela del lavoratore più stringente rispetto a quella di tutti gli altri soggetti destinatari di patti limitativi della concorrenza, essendo la validità di tale patto sottoposta ad una serie di limiti, tra cui appunto la determinatezza o determinabilità del corrispettivo, volti ad evitare che la libertà del lavoratore venga limitata al punto tale da compromettere l'esplicazione della concreta professionalità̀ del lavoratore. In secondo luogo la Suprema Corte ha operato un excursus normativo all'esito del quale ha sottolineato che il corrispettivo del patto non solo deve essere determinato ma anche congruo e proporzionato rispetto alle limitazioni imposte al lavoratore. Ciò posto, la Cassazione ha evidenziato che le due nullità sono però distinte l'una dall'altra e non sovrapponibili: pertanto la nullità del patto di non concorrenza per indeterminatezza del corrispettivo è cosa ben diversa da quella dovuta alla non presenza o non congruità dello stesso. Da questo punto di vista, ha rilevato la Cassazione, la Corte territoriale ha realizzato – invece – una illegittima commistione dei due profili, finendo con il creare una motivazione del tutto contraddittoria affermando, da un lato, la mancata determinazione o determinabilità del corrispettivo e dall'altra che «"in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro", al dipendente spetti "quanto maturato in ragione d'anno o frazione" sulla base di un corrispettivo pattuito in 6.000,00 euro su base annua e, quindi, comunque determinabile». In sostanza, per la Suprema Corte, l'errore della Corte territoriale starebbe nell'aver, da un lato, affermato la nullità per indeterminatezza del corrispettivo, dall'altro aver invece argomentato la decisione sulla base di una serie di elementi che sembrerebbero riferibili al diverso profilo della congruità dello stesso, come la mancata presenza di un «importo minimo garantito» e di un «durata minima». Ciò avrebbe determinato, sempre secondo la Cassazione, una evidente contraddizione laddove la Corte d'Appello ha rilevato che il corrispettivo sarebbe indeterminato perché non fisso ma legato ad una variabile connessa alla durata del rapporto: secondo la Cassazione, al contrario, «dire che un corrispettivo è variabile in relazione alla durata del rapporto di lavoro, non significa affatto che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi, atteso che si ha determinabilità quando sono indicati, anche per relationem, i criteri in base ai quali si fissa la prestazione, così sottratta al mero arbitrio».
Per un ulteriore commento si veda anche Guida al Lavoro n. 13/2021

Licenziamento collettivo, procedura

Cass. Sez. Lav. 1° marzo 2021, n. 5553

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; Ric. I.L. S.p.a.; Controric. P.A.; P.M. Fresa
Licenziamento collettivo - Comunicazione finale ex art. 4, comma 9, l. 223/91 - Modalità di applicazione dei criteri di scelta - Indicazione puntuale – Necessità

In tema di licenziamenti collettivi nella comunicazione di cui all'art. 4, comma 9 della L. n. 223 del 1991 il datore di lavoro deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori licenziati o posti in mobilità e le modalità applicative dei criteri stessi; anche laddove il criterio di scelta sia unico, occorre comunque specificarne le modalità di applicazione affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a far comprendere al lavoratore per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato posto in mobilità o licenziato. Il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, ma deve operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione.
NOTA
Un lavoratore veniva licenziato all'esito di una complessa procedura di licenziamento collettivo. Impugnato il licenziamento e adita l'autorità giudiziaria, il lavoratore otteneva la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del recesso a quello dell'effettiva reintegrazione. Secondo i Giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio, infatti, sia la comunicazione preventiva di apertura della procedura di riduzione del personale sia la comunicazione finale, previste entrambe dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, non avevano soddisfatto la necessaria esigenza di specificità e precisione, con riferimento ai profili professionali e ai livelli di inquadramento degli addetti all'area territoriale di coordinamento (in tesi interessata dalla riorganizzazione aziendale) da sopprimere e, soprattutto, ai criteri di scelta dei lavoratori direttamente interessati dalla procedura di mobilità, inficiando quindi la legittimità del provvedimento finale di recesso.
Avverso la decisione della Corte di appello, la società proponeva ricorso per cassazione lamentando la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 2 nonché art. 4, comma 9. Secondo la società ricorrente, infatti, entrambe le comunicazioni (quella di apertura della procedura e quella conclusiva) erano state redatte in modo sufficientemente specifico, ed era solo a causa di un'erronea interpretazione del principio di specificità che la Corte aveva affermato l'illegittimità del recesso. In particolare, avuto riguardo alla comunicazione di apertura della procedura di mobilità la società evidenziava come la Corte territoriale non avesse tenuto conto che la ratio legis della norma che la prevede sarebbe quella di consentire il controllo da parte del sindacato e dei lavoratori, controllo che era avvenuto, come risultava da copiosa documentazione allegata agli atti e che quindi delegittimava qualsiasi censura di genericità.
Quanto poi alla comunicazione prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, la società evidenziava che, sebbene non tenuta per legge, avrebbe motivato le ragioni del licenziamento irrogato al lavoratore anche nella lettera di recesso a lui inviata, con la conseguenza che quest'ultimo era pienamente nelle condizioni di comprendere le ragioni del suo licenziamento.
Con la sentenza in epigrafe la S.C. rigetta il ricorso.
Secondo il Collegio infatti nella comunicazione scritta di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, il datore di lavoro deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori licenziati o posti in mobilità e le modalità applicative dei criteri stessi. E, anche qualora il criterio di scelta sia unico, il datore deve comunque specificarne le modalità di applicazione affinché la comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a far comprendere al lavoratore per quale ragione egli, e non altri colleghi, sia stato posto in mobilità. Ciò significa che il datore di lavoro non può limitarsi alla mera indicazione di formule generiche, ripetitive dei principi dettati in astratto dalla disciplina contrattuale e legislativa, ma deve operare una valutazione comparativa delle posizioni dei dipendenti potenzialmente interessati al provvedimento, quanto meno con riguardo alle situazioni raffrontabili per livello di specializzazione.
Ebbene, proprio sulla base di questi principi, la Corte territoriale, ha giustamente ritenuto che la comunicazione finale ex art. 4, comma 9 non fosse sufficientemente specifica, dal momento che, nell'enunciare le "dettagliate" (testualmente) modalità di applicazione dei criteri di scelta ai sensi dell' art. 5, comma 1 della legge, si sarebbe limitata, piuttosto, a dichiarare, apoditticamente, che "sono stati individuati i lavoratori eccedenti nel rispetto dei criteri fissati dalla L. n. 223 del 1991, art. 24", senza alcuna minima specificazione dei criteri di scelta in concreto utilizzati, così precludendo in radice la possibilità di valutare perché taluni lavoratori e non altri fossero stati destinatari del licenziamento.
Al cospetto di tali rilievi del tutto condivisibili, secondo la S.C., non colgono nel segno e quindi devono essere rigettate le repliche, peraltro laconiche della società, secondo cui detta comunicazione avrebbe comunque raggiunto il suo scopo (ma non si comprende come) e l'azienda avrebbe addirittura motivato le ragioni del licenziamento al lavoratore nella lettera di licenziamento a lui inviata, essendo quest'ultima circostanza del tutto inidonea a sanare la palese violazione dell'art. 4, comma 9 della legge 223/91.

La temporanea sottoutilizzazione del dipendente non configura mobbing

Cass. Sez. Lav., ord. 26 febbraio 2021, n. 5472

Pres. Di Paolantonio; Rel. Bellè; Ric. S.A.C; Controric. M.D.

Mobbing - Sottutilizzazione del dipendente per esigenze organizzative –Condotta vessatoria - Esclusione

Non è configurabile il mobbing in presenza di una mera "sottoutilizzazione" del dipendente motivata dalla necessità di attendere che l'ufficio di assegnazione sia dotato di adeguati strumenti informatici e che siano specificati i compiti inerenti alle funzioni normativamente assegnate all'ufficio. In tal caso, infatti, dai tempi tecnici necessari per l'avvio delle attività del nuovo ufficio può desumersi l'assenza di un intento doloso.
NOTA
La Corte d'Appello di Lecce, in riforma della sentenza del Tribunale di Taranto, ha respinto il ricorso di un lavoratore che aveva chiesto la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito per comportamenti mobbizzanti sul luogo di lavoro. I giudici di secondo grado hanno escluso che dalle risultanze istruttorie emergesse la prova della denunciata condotta vessatoria ed hanno aggiunto che non poteva dirsi certo il nesso causale fra gli eventi verificatisi e l'insorgenza della patologia psichica.
Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione «per violazione degli artt. 2087 e 2043 c.c, per la contraddittoria motivazione rispetto ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, sottolineando come la stessa Corte avesse individuato una sottoutilizzazione del lavoratore, senza però trarne le debite conseguenze in merito al danno psico-fisico che da esso era derivato».
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso evidenziando che la Corte di merito aveva analizzato gli elementi che avevano caratterizzato il presunto mobbing rilevando che «poteva ritenersi ricorrere al più una sottoutilizzazione del lavoratore presso l'ufficio (ma non solo di lui, bensì anche delle restanti unità di personale assegnate a quell'ufficio, a dimostrazione dell'assenza di personalizzazioni a detrimento del ricorrente) in attesa che fosse dotato di adeguate dotazioni informatiche, poi via via installate e in attesa di sufficiente specificazione attuativa dei compiti inerenti alle funzioni normativamente assegnate a detto ufficio, poi man mano individuati e attribuiti». I giudici di legittimità hanno quindi rilevato che il senso della motivazione della Corte di merito era quello di una esclusione, espressamente manifestata e comunque desumibile dal contesto argomentativo, sia di un intento doloso verso il ricorrente, sia di una responsabilità del datore di lavoro per la sottoutilizzazione del ricorrente, per il fatto che quella minore utilizzazione della professionalità era da collegare all'esigenza di attendere le dotazioni informatiche e per dare avvio ad un sistema in sé nuovo.
I giudici di legittimità hanno quindi rigettato il ricorso, confermando la valutazione della Corte d'Appello nell'intendere la sottoutilizzazione, non come mobbing, ma come minore utilizzazione quantitativa delle professionalità messe a disposizione, in concomitanza con una fase riorganizzativa, pur prolungata, ravvisando sufficienti ragioni giustificative, dovendosi altrimenti pensare a misure ancora più drastiche come la soppressione temporanea del posto, che certamente non va nell'interesse del lavoratore o il trasferimento ad altre posizioni vacanti.

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