Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute
Licenziamento collettivo e criteri di scelta
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Nozione di mobbing
Utilizzo di permessi sindacali per finalità diverse rispetto a quelle per le quali sono stati concessi


Indennità sostitutiva delle ferie maturate e non godute

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2021, n. 6493

Pres. Balestrieri; Rel. Garri; Ric. N.P.; Controric. F.I.I.N.D.T.

Ferie – Diritto all'indennità sostitutiva – Onere probatorio – Avvenuta prestazione lavorativa – Necessità

Il lavoratore che agisca in giudizio per chiedere la corresponsione dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha l'onere di provare l'avvenuta prestazione lavorativa nei giorni ad esse destinati, atteso che l'espletamento di attività lavorativa in eccedenza rispetto alla normale durata del periodo di effettivo lavoro annuale si pone come fatto costitutivo dell'indennità suddetta, mentre incombe al datore di lavoro l'onere di fornire la prova del relativo pagamento.
NOTA
Una dirigente medica conveniva in giudizio la datrice di lavoro chiedendo che venisse accertata e dichiarata l'illegittimità̀ della soppressione di 91 giorni di ferie maturate disposta unilateralmente dalla società. La dirigente chiedeva quindi che venisse ricostituito il proprio monte ferie ovvero in subordine di percepire l'indennità sostitutiva.
Il Tribunale di Milano accoglieva la domanda della dirigente di ricostituzione del monte ferie richiesto. La sentenza veniva appellata dalla datrice di lavoro, davanti alla Corte di appello di Milano, che, ritenendo che la dirigente non avesse dimostrato i fatti costituivi della domanda e di aver chiesto le ferie che assumeva esserle state negate dalla datrice di lavoro, accoglieva il ricorso.
La dirigente impugnava davanti alla Corte di Cassazione la sentenza di secondo grado che aveva affermato che «in difetto di richiesta del lavoratore, le ferie non consumate si sarebbero estinte deducendone, conseguentemente, che la loro mancata fruizione sarebbe dipesa dalla lavoratrice che non aveva provato di avere programmato le ferie e di non averne, poi, potuto godere per effetto del diniego».
La Corte di legittimità osserva che «l'art. 21, comma 13 del CCNL dell'area dirigenza medica e veterinaria, che dispone il pagamento delle ferie nel solo caso in cui, all'atto della cessazione del rapporto, risultino non fruite per esigenze di servizio o per cause indipendenti dalla volontà del dirigente, va interpretato in modo conforme al principio di irrinunciabilità̀ delle ferie, di cui all'art. 36 Cost., di guisa che si applica solo nei confronti dei dirigenti titolari del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza ingerenze da parte del datore di lavoro e non anche nei confronti dei dirigenti privi di tale potere». Secondo la Cassazione, quindi, la ricorrente, inquadrata come dirigente di primo livello, essendo in posizione sotto ordinata a quella dei dirigenti di secondo livello e alla direzione sanitaria responsabile dell'organizzazione della struttura ospedaliera, non aveva il potere di programmarsi le ferie e di auto attribuirsene il godimento.
Nel caso di specie, quindi, la Corte di Cassazione decide come da massima sopra riportata ritenendo che nel caso di specie non si applicasse «il principio secondo cui il dirigente che sia titolare del potere di attribuirsi il periodo di ferie senza alcuna ingerenza del datore di lavoro, ove non eserciti detto potere e non fruisca, quindi, del periodo di riposo, non ha il diritto all'indennità̀ sostitutiva, a meno che non provi la ricorrenza di necessità aziendali assolutamente eccezionali e obiettive, ostative alla suddetta fruizione».
Per l'effetto, la Corte di legittimità cassa la sentenza e rinvia alla Corte di appello, in diversa composizione.

Licenziamento collettivo e criteri di scelta

Cass. Sez. Lav. 2 marzo 2021, n. 5647

Pres. Raimondi; Rel. Amendola; P.M. Fresa; Ric. C.F. S.p.A.; Contr. B.L.

Licenziamento collettivo – Lavoratori da licenziare – Criteri di scelta – Professionalità fungibili – Comparazione – Necessità

In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, il doppio richiamo operato dall'art. 5, comma 1, L. 223/1991, alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale comporta che la riduzione del personale debba – in linea generale – interessare l'intero organico aziendale, potendo essere limitata a specifici rami o reparti soltanto qualora caratterizzati da autonomia e specificità delle professionalità utilizzate, infungibili rispetto alle altre. È, di conseguenza, illegittimo il licenziamento intimato in assenza di confronto tra tutti i dipendenti aventi professionalità omogenea.
Licenziamento collettivo – Violazioni sostanziali – Errata applicazione dei criteri di scelta – Annullamento del licenziamento –Reintegrazione
L'omessa o carente indicazione delle modalità di applicazione dei criteri di scelta nella comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/1991, che abbia comportato un'illegittima applicazione dei criteri medesimi, comporta l'annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità.
NOTA
La Corte d'appello di Milano, confermando la sentenza del Tribunale, dichiarava l'illegittimità del licenziamento intimato all'esito di una procedura di riduzione del personale, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria di cui all'art. 18, comma 4, L. 300/1970. In particolare, la Corte riteneva sussistente una violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5, L. 223/1991 poiché – nel valutare quali lavoratori licenziare – la società non aveva posto in comparazione la lavoratrice licenziata con il resto del personale avente professionalità fungibili.
La società proponeva ricorso per Cassazione avverso tale pronuncia, eccependo innanzitutto la nullità della sentenza, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., in relazione agli artt. 115 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ., nella parte in cui i giudici di merito avevano ritenuto provato che la lavoratrice, prima del licenziamento, avesse svolto la propria attività lavorativa in vari reparti aziendali e avesse quindi una professionalità fungibile rispetto a quella di altri dipendenti. Inoltre, sempre a parere della società, la lavoratrice non aveva provato che, se paragonata agli altri colleghi con professionalità fungibile, avrebbe evitato il licenziamento.
La Corte di cassazione ritiene il motivo infondato.
Dopo aver premesso che la valutazione circa la fungibilità tra le mansioni svolte da vari lavoratori costituisce un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non è quindi censurabile in sede di legittimità, la Suprema Corte ribadisce il proprio consolidato orientamento secondo cui il doppio richiamo operato dall'art. 5, comma 1, L. 223/1991, alle esigenze tecnico-produttive e organizzative del complesso aziendale, implica che la riduzione del personale deve coinvolgere l'intero complesso aziendale, potendo essere limitata ad un ramo o settore soltanto se esso sia caratterizzato da professionalità talmente specifiche da essere infungibili rispetto alle altre. Di conseguenza – come regola generale – il datore di lavoro dovrà prendere in considerazione i profili di tutti i dipendenti potenzialmente interessati dagli esuberi e tra di essi dovrà scegliere, sulla base dei criteri di legge o di quelli concordati con i sindacati, i lavoratori da licenziare. L'eventuale dimostrazione dell'esistenza di specifiche professionalità non fungibili costituisce onere probatorio a carico del datore di lavoro (in senso conforme, Cass. 14612/2006, Cass. 22824/2009, Cass. 22825/2009, Cass. 203/2015, Cass. 19105/2017).
Quale secondo motivo di ricorso, la società lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi in relazione all'art. 4, comma 9, L. 223/1991, all'art. 5, L. 300/1970 ed all'art. 18, L. 300/1970.
La Suprema Corte rigetta anche questo motivo, ribadendo la differenza tra "vizio formale" della procedura e "vizio sostanziale" della stessa, nozioni rilevanti ai fini della determinazione del regime sanzionatorio applicabile. In particolare, la violazione dei criteri di scelta costituisce un "vizio sostanziale", che comporta la reintegrazione del dipendente, e si ha quando i criteri di scelta sono illegittimi perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati perché attuati in difformità alle previsioni legali o collettive (in senso conforme, Cass. 12095/2016, Cass. 19320/2016, Cass. 2587/2018). Viceversa, la tutela reintegratoria non è applicabile in caso di "vizio formale" della procedura, che si ha in caso di inadeguatezza o incompletezza della comunicazione di chiusura del licenziamento collettivo. Ciò detto, qualora la comunicazione ex art. 4, comma 9, L. 223/1991, – già carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta – abbia altresì comportato l'illegittima applicazione dei criteri medesimi, vi sarà annullamento del licenziamento con condanna alla reintegrazione del lavoratore e pagamento di un'indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (in senso conforme, Cass. 19010/2018).
Nel caso in esame, i giudici di merito avevano correttamente applicato i suddetti principi, disponendo la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, L. 300/1970, non per una mera violazione formale ma in ragione dell'errata applicazione dei criteri di scelta giacché la dipendente licenziata non era stata in alcun modo comparata con gli altri dipendenti aventi professionalità fungibili.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Cass. Sez. Lav. 4 marzo 2021, n. 6083

Pres. Raimondi; Rel. Balestrieri; P.M. Sanlorenzo; Ric. I.G.; Controric. U.S. S.r.l.

Lavoro subordinato - Licenziamento individuale - Giustificato motivo oggettivo - Manifesta insussistenza del fatto - Nozione - Prova insufficiente – Reintegrazione - Esclusione

In tema di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, il requisito della "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento", è da intendersi come chiara, evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente.
NOTA
Un dipendente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo e proponeva ricorso deducendo l'insussistenza dei motivi del licenziamento e la violazione dei principi di correttezza e buona fede nella scelta del lavoratore da licenziare.
All'esito del procedimento Fornero, il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda, negando la tutela reintegratoria in ragione della ritenuta esistenza del giustificato motivo oggettivo, e accertava invece la violazione dei criteri di buona fede e correttezza nella scelta dei lavoratori da licenziare, conseguentemente dichiarando risolto il rapporto di lavoro e condannando la società al pagamento di una indennità. Per il Tribunale, se, da una parte, il calo di commesse, la crisi del mercato e la riduzione della produttività aziendale risultante dai bilanci costituivano effettivo motivo del licenziamento, d'altra parte, erano da ritenere violati i canoni di correttezza e buona fede nella scelta del dipendente come lavoratore da licenziare.
In sede di opposizione e reclamo, entrambe promossi dal dipendente, veniva confermato il provvedimento del Tribunale.
Avverso la sentenza della Corte di appello proponeva infine ricorso il dipendente ma la Cassazione lo ha rigettato.
Per la Suprema Corte la "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento", di cui all'art. 18, comma 7 Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, e la conseguente applicazione della tutela reintegratoria, trovano spazio solo laddove risulti chiara, evidente e facilmente verificabile l'assenza dei presupposti di legittimità del recesso, cui non può essere equiparata una prova meramente insufficiente oppure caratterizzata da elementi di per sé opinabili o non univoci. Con riferimento al caso di specie, per la Cassazione, nei precedenti gradi di giudizio era stata correttamente esclusa la tutela reintegratoria dal momento che la manifesta insussistenza del fatto non era stata provata rispettando i requisiti sopra delineati.

Nozione di mobbing

Cass. Sez. Lav. ord. 4 marzo 2021, n. 6079

Pres. Di Paolantonio; Rel. Tricomi; Ric. F.F.; Controric. C.di C.

Lavoro subordinato – Art. 2087 c.c. – Mobbing – Nozione – Requisiti – Intento persecutorio o vessatorio – Necessità – Art. 2967 c.c. – Onere della prova

Il mobbing designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano i seguenti elementi, la cui prova è a carico del lavoratore: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
NOTA
Nel caso di specie, la lavoratrice adiva il Tribunale di Milano al fine di accertare l'illegittimità delle multiple sanzioni disciplinari irrogate dall'ente datore di lavoro, l'intervenuto demansionamento a seguito della perdita della posizione organizzativa di responsabile del servizio di polizia municipale e l'integrazione della fattispecie del mobbing.
Il giudice di prime cure accoglieva le domande della dipendente limitatamente ad alcune delle sanzioni disciplinari irrogate dall'ente, mentre rigettava le domande relative a demansionamento e mobbing.
Tale decisione veniva parzialmente confermata dalla Corte d'appello di Milano, che accoglieva altresì in parte l'appello incidentale dell'ente, accertando la legittimità di alcune sanzioni disciplinari ritenute illegittime in primo grado e affermava, con riferimento alla fattispecie del mobbing, che «non era emersa alcuna strategia di attacco mirato nei confronti della lavoratrice caratterizzata da intento persecutorio ed esplicitata attraverso condotte vessatorie sistematiche e reiterate».
Contro la decisione della Corte d'Appello proponeva ricorso in Cassazione la lavoratrice sostenendo, per quel che qui interessa, che la Corte territoriale avesse errato nel ritenere il mobbing insussistente in virtù della prova fornita in merito alla condotta vessatoria, dimostrata dalla privazione degli incarichi e dalla persecuzione disciplinare.
La Suprema Corte ha respinto le censure di cui sopra, dichiarando il ricorso inammissibile.
In particolare la Corte ha rilevato che affinché possa dirsi sussistente il cd. mobbing è necessaria la sussistenza di plurimi requisiti quali «a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio».
Requisiti che, peraltro, ribadisce la Corte, è onere del lavoratore dimostrare.
La Cassazione conferma altresì l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che individua nell'intento persecutorio l'elemento qualificante del mobbing e nel caso di specie, correttamente, la Corte d'Appello aveva posto tale elemento soggettivo a fondamento del rigetto della domanda della lavoratrice. In particolare, si specifica con riferimento alle sanzioni disciplinari irrogate dall'ente datore di lavoro, che la legittimità di tali provvedimenti può rilevare in quanto sintomatica della mancanza dell'intenzione persecutoria necessaria per l'integrazione della fattispecie in esame, così come la conflittualità delle relazioni personali all'interno dell'ufficio.

U tilizzo di permessi sindacali per finalità diverse rispetto a quelle per le quali sono stati concessi

Cass. Sez. Lav. 9 marzo 2021, n. 6495

Pres. Balestrieri; Rel. Garri; P.M. Fresa; Ric. S. S.r.l.; Contr. D. A.

Art. 30 L. 300/1970 - Permessi sindacali - Riunione sindacale - Mancata partecipazione - Svolgimento di altre attività sindacali - Rilevanza disciplinare - Sussistenza - Assenza ingiustificata - Condotta tipizzata dal CCNL - Licenziamento per giusta causa - Sproporzionatezza

La fruizione del permesso sindacale previsto dall'art. 30 Stat. Lav. per un fine diverso da quello normativamente previsto, pur integrando in astratto una condotta disciplinarmente rilevante, non integra ex ante una giusta causa di recesso.
Invero, sarà onere del giudice di merito formulare un giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva, sulla base dell'integrazione della clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., verificando, in concreto, la gravità della condotta del lavoratore.
NOTA
La Corte d'Appello di Campobasso ha accolto il reclamo proposto da un lavoratore annullando, con reintegrazione nel posto di lavoro, il licenziamento irrogatogli dal datore di lavoro per un comportamento contrario a correttezza e buona fede, fedeltà e diligenza.
In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che la condotta contestata al lavoratore – il quale aveva richiesto di fruire del permesso retribuito previsto dall'art. 30 della L.300/1970 per i componenti degli organi direttivi delle organizzazioni sindacali, assentandosi dal posto di lavoro, pur non partecipando ad alcuna riunione sindacale – non integrava una giusta causa di licenziamento.
La Corte di merito ha osservato, da un lato, che le attività svolte dal lavoratore durante i permessi, pur non riconducibili allo schema della riunione sindacale, rientravano comunque nell'ambito di quelle proprie dell'incarico sindacale ricoperto, dall'altro lato, che, conseguentemente, la condotta che rilevava nel caso di specie era l'ingiustificata assenza dal servizio, punita dal contratto collettivo e dalla normativa di riferimento con una sanzione conservativa.
Avverso tale decisione la società datrice ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili.
In particolare, la società ricorrente sostiene che i permessi retribuiti di cui all'art. 30 sopra citato possono essere concessi dal datore di lavoro per la partecipazione alle riunioni degli organi sindacali, non per fini diversi e che l'indebito utilizzo di tali permessi ha un disvalore sociale rilevante che giustifica il recesso per giusta causa, incidendo sull'elemento fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro.
La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ha ritenuto infondato il ricorso del datore di lavoro ritenendo che la fruizione del permesso sindacale previsto dall'art. 30 Stat. Lav. per un fine diverso da quello normativamente previsto, pur integrando in astratto una condotta disciplinarmente rilevante, stante la mancanza della prestazione lavorativa per una causa imputabile allo stesso lavoratore, non integri ex ante una giusta causa di recesso.
Ed infatti – ritiene la Suprema Corte – "la astratta rilevanza disciplinare della condotta, contestata nello specifico in termini di assenza arbitraria dal lavoro, non esonera però dal verificare in concreto la gravità della condotta contestata e la sua sussumibilità nella giusta causa di licenziamento ritenuta sussistente dalla datrice di lavoro. Si rende necessario perciò un giudizio di proporzionalità che è demandato al giudice di merito".
La Suprema Corte ritiene dunque che la Corte d'Appello, pur non escludendo il disvalore della condotta, abbia correttamente formulato un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla nozione di giusta causa e alle ipotesi sanzionate dal contratto collettivo applicato.
Prosegue la Corte affermando che l'operazione svolta dalla Corte territoriale è coerente con la giurisprudenza di legittimità, la quale ha chiarito che giusta causa di licenziamento e proporzionalità della sanzione disciplinare sono nozioni che la legge, "allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con disposizioni, ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali, di limitato contenuto e delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama".
In questa prospettiva, la giurisprudenza di Cassazione ha sottolineato il rilievo che assume, nell'individuazione delle ipotesi disciplinarmente rilevanti, la scala valoriale espressa nel contratto collettivo e la relativa graduazione delle sanzioni.
Per tali ragioni, con riferimento al caso di specie, la Suprema Corte ritiene che l'operazione di sussunzione e verifica della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta contestata sia stata svolta dalla Corte territoriale correttamente e non risulta validamente inficiata dalle deduzioni della società ricorrente in tema di configurabilità di un'ipotesi di abuso del diritto nel comportamento del lavoratore.
Conseguentemente, il ricorso del datore di lavoro viene respinto.

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