Contenzioso

Il trasferimento non è mobbing se dovuto a incompatibilità ambientale

di Alberto De Luca e Raffaele Di Vuolo

Con sentenza 12632/2021, la Corte di cassazione ha affrontato la questione del trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale sul luogo di lavoro, escludendo che lo stesso integri la fattispecie di mobbing qualora l'intento dello spostamento non sia quello di perseguire il dipendente ma di ripristinare serenità sul luogo di lavoro.

La pronuncia trae origine dal giudizio promosso da un comandante dei vigili di un Comune che aveva ricorso in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito delle condotte persecutorie poste in essere dall'amministrazione che, da ultimo, aveva trasferito il dirigente presso un diverso ufficio. La Corte di appello, nel confermare la decisione di primo grado, aveva ritenuto infondate le richieste del ricorrente, in particolare, con riferimento al trasferimento rilevando che questo fosse intervenuto «in un contesto di difficoltà nei rapporti interpersonali che acuivano tensioni e problematiche tanto da costituire certamente una condizione di incompatibilità ambientale».

A fronte di tale decisione il ricorrente proponeva ricorso in Cassazione. La Corte, con ordinanza 26684/2017, aveva accolto parzialmente il ricorso rinviando il giudizio alla Corte di appello la quale, in considerazione delle rilevate carenze motivazionali, avrebbe dovuto procedere a un nuovo esame della vicenda attenendosi ai principi di diritto richiamati dalla Cassazione secondo cui «l’elemento qualificante della condotta mobbizzante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto».

La Corte di appello confermava la decisione cassata dal momento che anche alla conclusione della nuova disamina dei fatti non riteneva sussistente alcun intento persecutorio alla base azioni poste in essere dal Comune. Avverso tale decisione, il dirigente proponeva nuovamente ricorso in Cassazione.

La Suprema corte ha confermato la decisione di secondo grado, sottolineando che la stessa era stata adottata in conformità ai principi espressi dalla Cassazione nell'ordinanza rescindente. In particolare, è stato rilevato che:
- non vi era prova in merito agli elementi costitutivi del mobbing e in particolare dell'intento persecutorio;
- il lamentato demansionamento non era stato provato in giudizio, tanto che il lavoratore aveva continuato a occupare un ruolo dirigenziale e nessun cambiamento di area professionale era stato lamentato;
- il trasferimento impugnato traeva origine da una incompatibilità ambientale emersa dagli atti di causa.

Pertanto la Cassazione, in ossequio al principio espresso con ordinanza 26684/2017, ha confermato il principio di diritto secondo cui non può ravvisarsi intento persecutorio laddove parte datoriale disponga un trasferimento – legittimo o meno che sia – solo al fine di ripristinare all'interno del luogo di lavoro un clima di proficua tranquillità.

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