Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Infortunio sul lavoro: computo del danno differenziale per poste omogenee
Art. 2087 c.c. e responsabilità del committente in caso di infortunio
Interposizione fittizia di manodopera e retribuzione
Codatorialità e gruppo d'imprese

Infortunio sul lavoro: computo del danno differenziale per poste omogenee

Cass. Sez. Lav., 23 giugno 2021, n. 17967

Pres. Frasca; Rel. Positano; P.M. Sanlorenzo; Ric. INAIL; Intimati V.A S.p.A., A.P.M. e M.S.

Infortunio sul lavoro – Risarcimento civilistico del danno – Indennizzo INAIL – Danno differenziale – Regime ante 2019 – Computo per poste omogenee – Necessità – Modalità

In tema di danno cd. differenziale, la diversità strutturale e funzionale tra l'erogazione INAIL ex art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 ed il risarcimento del danno secondo i criteri civilistici non consente di ritenere che le somme versate dall'istituto assicuratore possano considerarsi integralmente satisfattive del pregiudizio subito dal soggetto infortunato o ammalato, con la conseguenza che il giudice di merito, dopo aver liquidato il danno civilistico, deve procedere alla comparazione di tale danno con l'indennizzo erogato dall' INAIL secondo il criterio delle poste omogenee, tenendo presente che detto indennizzo ristora unicamente il danno biologico permanente e non gli altri pregiudizi che compongono la nozione pur unitaria di danno non patrimoniale; pertanto, occorre dapprima distinguere il danno non patrimoniale dal danno patrimoniale, comparando quest'ultimo alla quota INAIL rapportata alla retribuzione e alla capacità lavorativa specifica dell'assicurato; successivamente, con riferimento al danno non patrimoniale, dall'importo liquidato a titolo di danno civilistico vanno espunte le voci escluse dalla copertura assicurativa (danno morale e danno biologico temporaneo) per poi detrarre dall'importo così ricavato il valore capitale della sola quota della rendita INAIL destinata a ristorare il danno biologico permanente.

NOTA

Il Tribunale di Bologna accertava una responsabilità concorrente del lavoratore danneggiato e del responsabile civile, ai sensi dell'art. 2054, II comma, cod. civ. verificatasi nell'infortunio in itinere del 3 giugno 2008, durante il quale il lavoratore, mentre si trovava alla guida della propria motocicletta, entrava in collisione con l'autovettura condotta da un soggetto che si era immerso nel traffico accedendo da un parcheggio senza concedere la precedenza.L'istituto ammetteva il caso alla tutela indennitaria, e, in seguito, interveniva volontariamente nel giudizio promosso dal lavoratore al fine di esercitare l'azione di surrogazione ai sensi degli artt. 1916 cod. civ. e 142 del D.Lgs. 209/2015, chiedendo la condanna dei convenuti, in solido fra loro, al rimborso delle prestazioni assicurative erogate in favore del lavoratore quantificate in Euro 84.352,77.In sostanza il Tribunale di Bologna rigettava la domanda del lavoratore in quanto «il pregiudizio liquidabile in ambito civilistico risultava inferiore all'indennizzo percepito da INAIL e condannava i convenuti in solido al rimborso, in favore dell'ente previdenziale, della somma di euro 35.162,50, oltre rivalutazione e interessi, determinata a titolo di risarcimento del danno biologico permanente nella misura di euro 30.000,00 e per danno biologico temporaneo, per la restante parte, escludendo la sussistenza di un danno patrimoniale in ambito civilistico».Secondo il Tribunale di prime cure, per il principio di omogeneità dei titoli di danno civilistico riconosciuti al danneggiato, «costituiva posta surrogabile solo la componente del danno biologico, escludendo quella patrimoniale, ritenuta pari ad euro 43.897,91. La restante parte (determinata in euro 40.454,51) era suscettibile di surrogazione sino alla concorrenza del corrispondente danno civilistico risarcito al danneggiato e quindi, sino all'importo di euro 35.162,50».La Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza del Tribunale di Bologna, dichiarava la responsabilità del lavoratore danneggiato nella misura del 20% e del responsabile civile per la restante misura, condannandoli in solido a corrispondere la somma complessiva di Euro 39.653,63, oltre interessi, e, in parziale accoglimento dell'appello incidentale proposto dall'istituto, condannava la compagnia assicurativa al pagamento, in favore di quest'ultimo della complessiva somma di Euro 9.267,09, oltre rivalutazione ed interessi.Avverso tale decisione l'istituto ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto diversi profili; gli intimati non hanno svolto attività processuale.La Suprema Corte ritiene immune da vizi l'iter argomentativo della Corte territoriale, quantomeno con riferimento alle doglianze dell'istituto riferite alla violazione dell'art. 10 del D.P.R. 1124/1965, dell'art. 1916 cod. civ. e dell'art. 142 del D.Lgs. 209/2015, precisando preliminarmente che «poiché dopo sei mesi dall'entrata in vigore, sono state abrogate, in virtù di un emendamento introdotto alla Camera durante la discussione della legge di conversione del d.l. n. 34/2019, le disposizioni che erano intervenute a modificare gli artt. 10 (commi 6, 7 ed 8) ed 11 (commi 1 e 3) del d.P.R. 31 giugno 1965, n. 1124, nonché il comma 2 dell'art. 142 cod. ass, le tematiche dell'ambito della rivalsa, della surroga e del danno differenziale in ambito INAIL, vanno risolte sulla base dell'orientamento di legittimità precedente al 30 dicembre 2018. Rimangono, quindi intangibili i diritti del danneggiato – assicurato INAIL, al risarcimento di quei danni che non prevedono copertura da parte dell'Istituto».Quanto alla possibilità di applicare al caso in esame la disciplina come novellata anche all'ipotesi di fatto illecito precedente all'entrata in vigore della legge n. 145 del 2018, la Suprema Corte precisa che tale eventualità, «come rilevato anche dal ricorrente in memoria" è stata esclusa dalla giurisprudenza (successiva al deposito del ricorso) di legittimità secondo cui "le modifiche del citato art. 10 del d. P.R. n. 1124 del 1965, introdotte dalla I. n. 145 del 2018, sono di natura innovativa e non meramente interpretativa, con la conseguenza che non si applicano agli infortuni sul lavoro verificatisi ed alle malattie professionali denunciate prima del primo gennaio 2019". Inoltre, la Suprema Corte, in tema di liquidazione del danno differenziale, rileva che "l'importo della rendita per l'inabilità permanente corrisposta dall'INAIL per l'infortunio "in itinere" occorso al lavoratore va detratto dalle somme in concreto dovute a quest'ultimo, allo stesso titolo, dal terzo responsabile del fatto illecito … Il danneggiato, pertanto, ha "diritto ad ottenere l'importo residuo, nel caso in cui il danno liquidato sia stato soltanto in parte coperto dalla predetta prestazione assicurativa, e non somme ulteriori».Conclusivamente la Suprema Corte rigetta il primo motivo di ricorso proposto dall'istituto, dichiara inammissibile il terzo ed accoglie il secondo, cassando la sentenza della Corte di Appello di Bologna in relazione al motivo accolto e rinviando la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione.

Art. 2087 c.c. e responsabilità del committente in caso di infortunio

Cass. Sez. Lav., 18 giugno 2021, n. 17576

Pres. Raimondi; Rel. Leo; Ric. G.A. S.p.A.; Controric. K.M.

Appalto – Infortuni sul lavoro – Art. 2087 c.c. – Obblighi dell'appaltatore – Obblighi del committente – Obblighi di informazione dei lavoratori coinvolti – Predisposizione di misure necessarie – Necessità

In tema di infortuni sul lavoro, l'art. 2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l'imprenditore, e il TU 81/2008, nella parte in cui disciplina l'affidamento di lavori in appalto all'interno dell'azienda, prevedono l'obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l'ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall'impresa appaltatrice, consistenti nell'informazione adeguata dei singoli lavoratori, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l'appaltatrice per l'attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all'attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall'uso di materiali pericolosi.

NOTA

La Corte d'Appello di Brescia accoglieva il gravame presentato avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede da un lavoratore nei confronti del suo datore di lavoro e del committente di un appalto nel cui cantiere stava svolgendo la propria prestazione di lavoro, riformando pertanto la sentenza di primo grado. Committente e appaltatore sono stati condannati in solido al risarcimento nei confronti del lavoratore dei danni derivati dall'infortunio allo stesso occorso, e conseguentemente veniva condannata l'assicurazione a manlevare la società committente. I giudici di seconda istanza sottolineavano, a sostegno della decisione, che non vi era né prova alcuna della sussistenza nella condotta del lavoratore di elementi tali da determinare l'esonero della responsabilità della società convenuta (c.d. rischio elettivo o abnormità della condotta dell'infortunato), nè la prova di un'adeguata formazione, e pertanto nessun concorso di colpa del lavoratore era ipotizzabile. Per la cassazione della sentenza l'assicurazione ha proposto ricorso per avere, i giudici di secondo grado, ritenuto applicabile la previsione normativa di cui all'art. 2087 c.c. anche alla committente «in ragione del fatto che la stessa avesse nella propria disponibilità l'ambiente di lavoro e pertanto non avesse adempiuto all'obbligo di sicurezza».La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla base dei consolidati arresti giurisprudenziali di legittimità secondo i quali «la responsabilità dell'imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell'ipotesi in cui essi non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all'articolo 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico e sensibile a situazioni e di ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all'imprenditore l'obbligo di adottare nell'esercizio dell' impressa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l'integrità psicofisica dei lavoratori. Pertanto, nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nel caso di specie, la responsabilità del datore di lavoro imprenditore, pur non configurando un'ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche persistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l'omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto, della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio». Sulla base di questi principi, la Corte ha rilevato che la violazione del dovere del neminem laedere può pertanto consistere anche in un comportamento omissivo e che l'obbligo giuridico di impedire l'evento può discendere anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività, a tutela di un diritto altrui. Deve considerarsi responsabile il soggetto che, pur consapevole del pericolo a cui è esposto l'altrui diritto, ometta di intervenire per impedire l'evento dannoso. I giudici di legittimità hanno quindi rigettato il ricorso affermando che grava su committente e appaltatore l'onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitate il danno, attraverso l'adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche.

Interposizione fittizia di manodopera e retribuzione

Cass. Sez. Lav., 17 giugno 2021, n. 17422

Pres. Berrino; Rel. Leo; Ric. S.G.I. S.p.A.; Controric. M.M.; Ric. Succ. V.L, V.C., C.F.; Controric. Succ. S.G.I. S.p.A.

Somministrazione irregolare – Interposizione fittizia di manodopera – Ordine giudiziale – Mancata ripresa del rapporto – Risarcimento – Retribuzioni – Decorrenza dalla messa in mora – Sussistenza

In caso di accertamento di interposizione fittizia di manodopera, laddove il giudice ordini vanamente il ripristino del rapporto di lavoro con il soggetto interponente, quest'ultimo è tenuto a pagare le retribuzioni a partire dalla messa in mora, che corrisponde al momento in cui il lavoratore offre la propria prestazione.

NOTA

Un lavoratore adiva il Tribunale di Roma per l'accertamento di una illecita interposizione di manodopera con la società S.G.I. S.p.A. Il Giudice di prime cure dichiarava l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, tra il lavoratore M. e la società ed ordinava a quest'ultima il ripristino del rapporto di lavoro. Il lavoratore, offerta invano la propria prestazione lavorativa, chiedeva al medesimo Tribunale, in via monitoria, il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, ottenendo all'uopo idoneo decreto ingiuntivo. La società ingiunta si opponeva al decreto ingiuntivo notificatole ottenendo, da parte del Tribunale adito, la revoca dello stesso: secondo il Giudice dell'opposizione infatti, al di fuori di casi specifici, espressamente previsti dalla legge, «il diritto al pagamento della retribuzione non sorge nell'ipotesi in cui, pur essendo formalmente in essere un rapporto di lavoro, sia carente la prestazione lavorativa, in conseguenza dell'insussistenza del sinallagma funzionale del contratto». E dunque non avendo, nel caso di specie, il lavoratore reso materialmente la prestazione lavorativa dopo la sentenza, gli spettava solo il risarcimento del danno e non la retribuzione.La decisione veniva ulteriormente ribaltata in sede di gravame in quanto la Corte territoriale di Roma, conformandosi a consolidati orientamenti giurisprudenziali, riteneva la pretesa vantata dal lavoratore, di ottenere le retribuzioni anche per il periodo successivo alla pronuncia di primo grado, del tutto fondata.Avverso la decisione della Corte di appello, la società proponeva ricorso per Cassazione, affidato, per quel che qui rileva, a due diversi motivi.Con il primo motivo, la società critica la sentenza della Corte di merito, nella parte in cui ha confermato il decreto ingiuntivo e ha condannato la società a versare al lavoratore le retribuzioni relative ai mesi successivi alla pronunzia del Tribunale di Roma – che aveva accertato una somministrazione irregolare di lavoro e aveva riconosciuto il diritto del lavoratore ad essere riammesso in servizio dalla società – senza tener conto che la società non aveva mai richiamato in servizio il lavoratore, e che quindi nei mesi ai quali si riferisce il decreto ingiuntivo, egli non aveva mai svolto alcuna prestazione lavorativa.Con il secondo motivo, invece, la società censura la sentenza della Corte di merito nella parte in cui ha ritenuto che la decisione del Tribunale di Roma con cui era stata accertata la sussistenza di una illecita interposizione di manodopera fosse valido titolo per l'emissione del provvedimento monitorio, nonostante fosse stata impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione «ed il relativo giudizio ancora pendente».Con la sentenza in epigrafe, la S.C. ritiene il ricorso infondato. Per ciò che riguarda il primo motivo del ricorso, la S.C. richiama il recente ed ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità nella materia (v. Cass., SS.UU. n. 2990/2018 - relativa alla illecita interposizione di manodopera ed alla natura delle somme spettanti al lavoratore - ai cui principi ispiratori è stato riconosciuto valore di "diritto vivente" dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 29/2019; e cfr., altresì, Cass. nn. 17786/2019; 17785/2019; 17784/2019, che quei principi hanno recepito in tema di trasferimento di azienda dichiarato invalido), secondo cui «in caso di accertamento di interposizione fittizia di manodopera, laddove il giudice ordini vanamente il ripristino del rapporto di lavoro con il soggetto interponente, quest'ultimo è tenuto a pagare le retribuzioni a partire dalla messa in mora, che corrisponde al momento in cui il lavoratore offre la propria prestazione». Tale interpretazione, che, secondo la Corte, fa perno sull'esigenza di effettività della giurisdizione come valore costituzionalmente tutelato, ha trovato, peraltro autorevole conferma da parte della Corte Costituzionale con la sentenza n. 29/2019, nella quale si sottolinea: «Secondo le Sezioni Unite, una prospettiva costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua dunque a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione...».Per ciò che riguarda, infine, il secondo motivo il Collegio ritiene che anch'esso non possa essere accolto. E, infatti, secondo la Corte, la sentenza del Tribunale di Roma, con la quale era stata accertata l'interposizione fittizia di manodopera ed era stato ordinato alla società di ripristinare il rapporto di lavoro, non è stata oggetto di impugnazione nei confronti del lavoratore. Inoltre, la stessa sentenza è stata ritenuta dal Tribunale, per legge, provvisoriamente esecutiva, comportando la condanna, in dipendenza dell'ordine di ripristino dell'effettività del rapporto, alla corresponsione di somme di denaro in favore dei lavoratori subordinati (ex art. 431 c.p.c.) con la conseguenza che la stessa ben poteva costituire valido titolo per l'emissione del provvedimento monitorio.

Codatorialità e gruppo d'imprese

Cass. Sez. Lav., 24 giugno 2021, n. 18135

Pres. Arienzo; Rel. Leo; P.M. Mastroberardino; Ric. T.E. S.p.A., T.E.S. S.r.l., G.G. S.r.l., G.F.C. S.r.l., T.M.P. S.r.l.; Controric. C.R.

Gruppo di imprese – Unico centro di imputazione del rapporto di lavoro – Codatorialità – Sussistenza – Indici – Unicità della struttura organizzativa – Integrazione delle attività – Coordinamento (unico soggetto direttivo) – Utilizzo promiscuo della prestazione lavorativa

I requisiti per l'individuazione di una ipotesi di codatorialità, implicante l'esistenza di un gruppo di imprese con unicità di centro di imputazione dei rapporti giuridici ed in particolare dei rapporti lavorativi, consistono: a) nell'unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) nell'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e nel correlativo interesse comune; c) nel coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) nella utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori

NOTA

La Corte di Appello di Ancona, in riforma del provvedimento reso dal giudice di prime cure, accoglieva l'appello promosso dal lavoratore dichiarando l'illegittimità del licenziamento irrogatogli (in quanto il fatto contestato rientrava in un'ipotesi del CCNL punita con sanzione conservativa) e riconoscendo la ricorrenza di un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro intercorso tra C.R. e le varie società convenute.La Corte distrettuale motivava la sussistenza di un unico centro di imputazione del vincolo lavorativo sulla base della ricorrenza degli indici oggettivi (unicità della struttura e dello scopo, integrazione e coordinamento delle attività) e soggettivi (utilizzo promiscuo della prestazione in favore delle Società del gruppo, unico soggetto direttivo) elaborati, nel corso degli anni, dalla giurisprudenza di legittimità, e valutati come sussistenti nel caso di specie.Avverso la sentenza resa dal giudice di seconde cure hanno promosso ricorso per cassazione le cinque soccombenti lamentando, principalmente, l'erronea sussunzione della fattispecie concreta nell'alveo del gruppo di imprese, in quanto non caratterizzata dalla desunta codatorialità.La Corte Suprema di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il motivo di censura (perché involgente profili in fatto) ha ribadito come: «i requisiti per l'individuazione di una ipotesi di codatorialità, implicante l'esistenza di un gruppo di imprese con unicità di centro di imputazione dei rapporti giuridici ed in particolare dei rapporti lavorativi, consistono: a) nell'unicità della struttura organizzativa e produttiva; b) nell'integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo e nel correlativo interesse comune; c) nel coordinamento tecnico ed amministrativo-finanziario tale da individuare un unico soggetto direttivo che faccia confluire le diverse attività delle singole imprese verso uno scopo comune; d) nella utilizzazione contemporanea della prestazione lavorativa da parte delle varie società titolari delle distinte imprese, nel senso che la stessa sia svolta in modo indifferenziato e contemporaneamente in favore dei vari imprenditori».Secondo la Corte, peraltro: «una indagine completa circa la sussistenza di ciascuno degli enunciati requisiti, alla stregua delle acquisite risultanze istruttorie, sia documentali che testimoniali» da parte del giudice di merito, non è comunque censurabile in sede di legittimità.

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