Contenzioso

Rassegna di Cassazione

a cura di Toffoletto De Luca Tamajo e Soci

Nozione di trasferimento d'azienda
Illegittimità della cessione di ramo d'azienda e crediti maturati dal lavoratore
Trasferimento d'azienda illegittimo e conciliazione tra cessionario e lavoratore
Rivendicazione della natura subordinata del rapporto di lavoro
Requisiti di comunicazione del trasferimento del dipendente

Nozione di trasferimento d'azienda

Cass. Sez. Lav., 5 luglio 2021, n. 18948

Pres. Raimondi; Rel. Arienzo; P.M. Celeste; Ric. F.L. S.r.l.; Controric. Eredi P.L.; Intimati Eredi B.P., Banca X S.p.A.; Ric. successivo Banca X S.p.A.; Controric successivi Eredi P.L.; Intimati R.B., F. S.r.l.

Ramo d'azienda – Cessione – Accertamento inconfigurabilità del ramo – Interesse ad agire del lavoratore – Sussistenza – Svolgimento di attività lavorativa per il cessionario – Cessazione rapporto di lavoro con il cessionario – Irrilevanza

Il lavoratore ha interesse ad accertare in giudizio l'inconfigurabilità di un ramo d'azienda nel complesso di beni oggetto del trasferimento e quindi, in difetto del suo consenso, l'inefficacia del trasferimento stesso nei suoi confronti. Ciò in quanto non è per lui indifferente quale sia il suo datore di lavoro/debitore, che può offrire garanzie più o meno ampie di tutela dei suoi diritti. Né tale interesse viene meno per lo svolgimento, in via di mero fatto, di prestazioni lavorative per il cessionario ovvero in caso di eventuali vicende risolutive del rapporto di lavoro con il cessionario.

Ramo d'azienda – Cessione – Accertamento applicabilità della disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. – Analisi del complesso delle circostanze di fatto – Necessità

Al fine di determinare se siano soddisfatte o meno le condizioni per l'applicabilità della normativa in materia di trasferimento d'azienda, occorre prendere in considerazione il complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione di cui trattasi, fra le quali rientrano in particolare il tipo d'impresa o di stabilimento in questione, la cessione o meno degli elementi materiali, quali gli edifici ed i beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, la riassunzione o meno della maggior parte del personale da parte del nuovo imprenditore, il trasferimento o meno della clientela, nonché il grado di analogia delle attività esercitate prima e dopo la cessione e la durata di un'eventuale sospensione di tali attività. Questi elementi sono parte di una valutazione complessiva cui si deve procedere e non possono, perciò, essere valutati isolatamente. L'importanza da attribuire ai singoli criteri varia necessariamente in funzione dell'attività esercitata, o addirittura in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell'impresa o nella parte di stabilimento di cui trattasi.

Ramo d'azienda – Nozione – Entità economica organizzata in modo stabile – Autonomia funzionale – Preesistenza – Necessità

Ai fini dell'applicazione della disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ., è necessario che il trasferimento riguardi un'entità economica organizzata in modo stabile, la quale sia costituita da qualsiasi complesso organizzato di persone ed elementi, che consenta l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e sia sufficientemente strutturata e autonoma, di talché goda, già anteriormente al trasferimento, di una sufficiente autonomia funzionale. Il requisito della preesistenza sta quindi a indicare che il complesso organizzativo ceduto debba già essere concretamente ordinato, presso il cedente, all'esercizio dell'attività economica.

NOTA

La Corte d'Appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava l'inefficacia della cessione dei contratti di lavoro degli appellanti dalla Banca X S.r.l. alla società F. S.r.l. e la conseguente prosecuzione dei loro rapporti di lavoro con la Banca. In particolare, la Corte d'Appello riteneva necessaria, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2112 cod. civ., la preesistenza di un'articolazione funzionalmente autonoma dell'azienda – sia pure in presenza di possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario – al fine di verificarne l'imprescindibile requisito comunitario della sua "conservazione". Non può invece ammettersi, sempre alla luce dei principi comunitari, che il legame funzionale possa derivare soltanto da una qualificazione fatta da cedente e cessionario al momento del trasferimento, poiché ciò consentirebbe alle parti stipulanti la cessione di definire liberamente la fattispecie alla quale applicare la norma inderogabile di legge, e ciò in violazione del principio di inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di ramo d'azienda.Nel caso in esame, la Corte d'Appello riteneva insussistenti i requisiti per l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ., poiché non era stato trasferito un dipartimento nella sua iniziale consistenza, alcuni servizi non erano stati trasferiti ed alcuni settori erano stati scorporati meno di un mese prima della cessione. Inoltre, non erano stati ceduti i software necessari per l'espletamento delle attività oggetto di cessione ed erano stati stipulati due contratti di appalto per rendere possibile la funzionalità del ramo ceduto, con ciò dimostrando l'insussistenza dell'asserita autonomia funzionale del ramo.Proponevano ricorso per Cassazione avverso tale sentenza sia la Banca X S.p.A., cedente, sia la società F. S.r.l., cessionaria.La Corte di cassazione esamina dapprima il primo motivo del ricorso azionato dalla Banca X S.p.A., che eccepiva l'assenza di interesse ad agire dei lavoratori ricorrenti. Il motivo viene rigettato poiché, in relazione alla fattispecie del trasferimento d'azienda, i lavoratori hanno l'interesse ad accertare l'insussistenza di un ramo d'azienda – e, per l'effetto, l'inefficacia del trasferimento dei loro rapporti di lavoro in assenza di consenso – poiché per essi non è indifferente il mutamento del loro datore di lavoro/debitore, che può offrire garanzie di tutela più o meno ampie. Tale interesse non viene meno neppure qualora i lavoratori svolgano la propria prestazione lavorativa nei confronti del cessionario, né in caso di conciliazione intercorsa tra lavoratori e cessionario a seguito del loro eventuale licenziamento, né ancora in caso di cessazione dei rapporti di lavoro con il cessionario (in senso conforme, Cass. 13617/2014, Cass. 25144/2017, Cass. 6413/2020, Cass. 6077/2021). La Corte rigetta altresì gli altri motivi di ricorso azionati dalla Banca e dalla Società, esaminati congiuntamente anche alla luce della giurisprudenza europea sul tema.Secondo un principio consolidato, la cessione di ramo d'azienda è configurabile ove venga ceduto un complesso di beni che si presenti oggettivamente quale entità dotata di una propria autonomia organizzativa ed economica finalizzata allo svolgimento di un'attività volta alla produzione di beni o servizi (Cass. 17919/2002, Cass. 13068/2005, Cass. 22125/2006). Tale nozione è coerente con la disciplina europea sul tema, secondo cui «è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva (Direttiva 2001/23/CE – ndr) quello di un'entità economica che conserva la propria identità, intesa come un insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria». La ratio di questa norma è assicurare la continuità dei rapporti di lavoro esistenti nell'ambito di un'attività economica, indipendentemente dal cambiamento del proprietario, nonché proteggere i lavoratori qualora questo cambiamento abbia luogo (Corte di Giustizia, C–186/83; Corte di Giustizia, C–24/85).La Corte ribadisce altresì che, anche ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., come modificato dal D.Lgs 276/2003, ai fini dell'applicabilità della normativa in materia di trasferimento d'azienda, rappresenta elemento costitutivo della cessione «l'autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali e organizzativi, e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell'ambito dell'impresa cedente» (sul tema, Cass. 11247/2016; Cass. 19034/2017; Cass. 28593/2018). Il fatto che la nuova formulazione della norma abbia consentito al cedente e al cessionario di identificare l'articolazione oggetto di trasferimento non implica che questi possano qualificare come tale il ramo in assenza di una sua autonomia, né creare una struttura ad hoc in occasione del trasferimento unendo semplici reparti o uffici, ovvero articolazioni non autonome (in senso conforme, Cass. 2429/2008; Cass. 21711/2012; Cass. 8757/2014; Cass. 19141/2015).Come ribadito in più occasioni dalla Corte di Giustizia, e confermato dalla Corte di Cassazione, al fine di individuare quali siano gli elementi rilevanti da tenere in considerazione nella valutazione circa la sussistenza di un ramo d'azienda è necessario prendere in considerazione il complesso di circostanze di fatto che caratterizzano l'operazione, tra cui il tipo di impresa o di stabilimento, la cessione o meno di elementi materiali quali edifici e beni mobili, il valore degli elementi materiali al momento del trasferimento, il trasferimento della clientela, nonché il grado di analogia tra le attività esercitate prima della cessione e dopo la stessa. Tali elementi non devono però essere valutati singolarmente, ma fanno parte di una valutazione complessiva cui è tenuto il giudice di merito (Corte di Giustizia, C–160/14, C–24/85; C–29/91; C–13/95; C–340/01). L'importanza da attribuire a ciascun elemento non può che variare alla luce della tipologia di attività esercitata, nonché dei metodi di produzione o gestione utilizzati nell'impresa o nel ramo di cui si tratta (Corte di Giustizia, C–13/95; C–127/96; C–173/96; C–229/96; C–247/96; C–74/97).Quanto, infine, al requisito della preesistenza, ai sensi dell'ordinamento comunitario il trasferimento deve riguardare un'entità economica organizzata in modo stabile, la quale sia costituita da un complesso organizzato di persone ed elementi che consentano l'esercizio di un'attività economica finalizzata al perseguimento di uno specifico obiettivo e goda, anteriormente alla cessione, di una sufficiente autonomia funzionale (Corte di Giustizia, C–458/12). Pertanto, il requisito della preesistenza indica che il complesso ceduto debba essere già concretamente preordinato, presso il cedente, all'esercizio dell'attività economica. È invece escluso che il legame tra l'autonomia funzionale del ramo ceduto e la materialità dello stesso possa derivare soltanto dalla qualificazione fattane da cedente e cessionario al momento del trasferimento, perché ciò sarebbe in contrasto con la disciplina europea che prevede l'inderogabilità dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda. In altre parole, l'atto di identificazione del ramo da parte di cedente e cessionario deve avere un contenuto accertativo e non costitutivo, presupponendo l'individuazione del ramo nel contesto aziendale e non la creazione dello stesso.

Illegittimità della cessione di ramo d'azienda e crediti maturati dal lavoratore

Cass. Sez. Lav., 8 luglio 2021, n. 19526

Pres. Berrino; Rel. De Marinis; Ric. T. I. S.p.A.; Controric. E.P.

Cessione di ramo di azienda – Illegittimità – Omesso ripristino del rapporto da parte del cedente – Somme spettanti al lavoratore – Indetraibilità dell'aliunde perceptum

In caso di cessione di ramo d'azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all'art. 2112 c.c., i crediti maturati dal lavoratore nei confronti dell'impresa cedente dopo la sentenza dichiarativa dell'inefficacia, illegittimità o inopponibilità al lavoratore medesimo della cessione di ramo d'azienda hanno natura retributiva e non risarcitoria e pertanto non si applica il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità, dal risarcimento dovutogli, dell'aliunde perceptum.

NOTA

La Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale di Napoli e rigettava l'opposizione proposta dalla società al decreto ingiuntivo ottenuto dal lavoratore per il pagamento della retribuzione relativa al mese di settembre 2013 che questi riteneva dovuta dalla società per effetto della declaratoria giudiziale di nullità del trasferimento di ramo d'azienda effettuato dalla società convenuta ad una società cessionaria e della conseguente cessione a quest'ultima del contratto di lavoro del lavoratore. La Corte territoriale aveva infatti ritenuto irrilevante la collocazione in CIGS del lavoratore da parte della società cessionaria e sussistente a carico della società cedente «l'obbligazione relativa al credito azionato, da qualificarsi risarcitoria in quanto derivante dalla mora credendi del datore di lavoro conseguente al mancato ripristino del rapporto tra le parti a seguito della dichiarata nullità della cessione di ramo d'azienda», nonché «inconfigurabile l'aliunde perceptum anche con riguardo all'indennità ricevuta a titolo di CIGS, del resto ripetibile dall'Ente previdenziale». Avverso la sentenza della Corte d'appello ricorreva la società cedente avanti la Corte di Cassazione. Quest'ultima rileva che i crediti maturati dal lavoratore nei confronti dell'impresa cedente, dopo la sentenza dichiarativa dell'inefficacia, illegittimità o inopponibilità al lavoratore medesimo della cessione di ramo d'azienda, hanno natura retributiva e non risarcitoria e che per tale motivo non trova «applicazione il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità, dal risarcimento dovuto, dell'aliunde perceptum». Pertanto dalle retribuzioni dovute al lavoratore dal datore di lavoro che abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, non è detraibile quanto il lavoratore medesimo, nello stesso periodo, abbia percepito a titolo di retribuzione per l'attività prestata alle dipendenze dell'imprenditore già cessionario, ma non più tale, essendo stata dichiarata giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto. La Corte di Cassazione pertanto ha respinto il ricorso della società.

Trasferimento d'azienda illegittimo e conciliazione tra cessionario e lavoratore

Cass. Sez. Lav., 7 luglio 2021, n. 19308

Pres. Negri Della Torre; Rel. Blasutto; P.M. Celeste; Ric. L.C.; Contr. T.I. S.p.A.

Trasferimento d'azienda – Invalidità della cessione – Risoluzione del rapporto con il cessionario e conciliazione – Irrilevanza rispetto al rapporto con il cedente – Interesse a far valere l'insussistenza della cessione – Sussiste

In materia di trasferimento d'azienda, l'unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall'art. 2112 c. c.: sicché, accertatane l'invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente (sebbene quiescente per l'illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale) e, in tal senso, permane l'interesse a far valere giudizialmente l'insussistenza del trasferimento d'azienda da parte del lavoratore ceduto.

NOTA

Il Tribunale di Venezia accertava l'illegittimità̀ e l'inefficacia della cessione di ramo di azienda e del conseguente trasferimento di una lavoratrice alle dipendenze della cessionaria, condannando la cedente al ripristino del rapporto di lavoro e all'assegnazione della lavoratrice alle precedenti mansioni. Tale sentenza veniva confermata in appello e il ricorso della cedente veniva rigettato dalla Corte di Cassazione.Nelle more di tale ultimo giudizio la lavoratrice prestava servizio presso la cessionaria fino al 31 gennaio 2013, data in cui veniva licenziata, e successivamente conciliava la controversia relativa a tale licenziamento. La stessa lavoratrice otteneva quindi decreto ingiuntivo nei confronti della cedente, in forza del titolo costituito dalla inefficacia della cessione di azienda, per ottenere il pagamento delle retribuzioni relative al periodo dall'1 febbraio 2013 al 20 giugno 2015. Il Tribunale di Venezia rigettava l'opposizione della cedente con sentenza che veniva impugnata sia dalla società che, in via incidentale, dalla lavoratrice.La Corte di appello di Venezia, rigettato l'appello incidentale, riformava la sentenza di primo grado e rigettava la domanda della lavoratrice.A sostegno della sua decisione, la Corte d'Appello affermava che l'intervenuta conciliazione con il cessionario, comportante l'accettazione della risoluzione del rapporto lavorativo originato dalla cessione, determinava il venir meno dell'interesse ad agire della lavoratrice e che il fatto di avere impugnato il licenziamento intimato dalla cessionaria e di avere poi rinunciato a detta impugnazione, presupponeva una continuità̀ giuridica tra il rapporto lavorativo intercorso con la cedente e la successione in esso da parte della cessionaria.In sostanza, secondo la Corte d'Appello, la lavoratrice non poteva efficacemente rinunciare alla pretesa di prosecuzione del rapporto con la cessionaria e nello stesso tempo riservarsi di proseguirlo con la cedente.Avverso tale decisione, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione i) per avere la sentenza impugnata ritenuto che la sottoscrizione del verbale di conciliazione avesse comportato la carenza di interesse ad agire nei confronti della cedente per i crediti retributivi (o risarcitori) maturati; ii) per avere la sentenza impugnata ritenuto che la sottoscrizione del verbale di conciliazione con la pretesa cessionaria fosse idonea a risolvere il rapporto di lavoro tra la stessa e la pretesa cedente; iii) per aver ritenuto la Corte d'Appello che la manifestazione di volontà contenuta nel verbale di conciliazione sopra descritto avesse potuto conferire validità ed efficacia al trasferimento di ramo d'azienda tra le due società.La Corte di Cassazione, esaminati congiuntamente i motivi di ricorso sopra esposti, li accoglie e, richiamando precedenti arresti (Cass. 8162/2020 e Cass. 8163/2020) ribadisce che nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 2112 cod. civ.) e di non configurabilità di una cessione negoziale (per mancanza di consenso della parte ceduta), il rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente. In tale contesto – spiega la Corte – «pure a fronte di una duplicità̀ di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti dell'originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora del lavoratore; l'altro, di fatto, nei confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore), la prestazione lavorativa solo apparentemente resta unica: giacché, accanto ad una prestazione materialmente resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto, ve n'è un'altra giuridicamente resa, non meno rilevante sul piano del diritto, in favore dell'originario datore, con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato del predetto) ripristinato».In tal senso, la Suprema Corte ribadisce infine il proprio orientamento (sent. n. 13617/2014; sent. n. 17736/2016; sent. n. 25144/2017; sent. n. 2281/2018) secondo il quale sono «irrilevanti» la prestazione resa in favore del cessionario e le vicende risolutive di tale rapporto, rispetto all'interesse a far valere l'invalidità del trasferimento d'azienda in capo al lavoratore ceduto.Sulla base di tali argomentazioni, la Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione.

Rivendicazione della natura subordinata del rapporto di lavoro

Cass. Sez. Lav., ord. 5 luglio 2021, n. 18943

Pres. Berrino; Rel. Leo; Ric. Q.V.; Contr. Omissis

Lavoro autonomo – Rivendicazione della natura subordinata – Prova – Eterodirezione – Potere direttivo e di controllo – Necessità – Indici sussidiari – Nomen iuris – Ricerca della volontà delle parti – Necessità

L'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da accertare esclusivamente sulla base delle concrete modalità di svolgimento della prestazione, implicando, la subordinazione, l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale. In tale contesto, il nomen iuris – eventualmente assegnato dalle parti al contratto – non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, non potendosi prescindere dalla ricerca della comune volontà delle parti.

NOTA

La Corte d'Appello di Lecce confermava la sentenza resa dal giudice di prime cure con cui era stata rigettata la domanda, avanzata da un lavoratore autonomo, di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso per circa un ventennio con la società convenuta in giudizio. In particolare, la Corte territoriale riteneva condivisibili le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, sulla base delle quali quest'ultimo aveva ritenuto non raggiunta, da parte del lavoratore, la prova circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Avverso tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sotto svariati profili, lamentando, in particolare l'erronea valutazione dei giudici di merito circa a) le risultanze della prova testimoniale espletata; b) gli indici della subordinazione asseritamente sussistenti.La Corte di Cassazione, per quanto qui rileva, ritiene infondato il ricorso proposto dal lavoratore chiarendo, in primo luogo, che i giudici di seconda istanza hanno correttamente preso in considerazione gli elementi che connotano la subordinazione e, dopo avere vagliato le risultanze istruttorie, sono pervenuti, attraverso un percorso motivazionale del tutto coerente, ad escluderne la sussistenza con riferimento alla fattispecie in esame.In secondo luogo, la Suprema Corte, ritiene che la Corte d'Appello abbia fatto corretta applicazione del principio di diritto di cui alla massima.Precisa, altresì, la Cassazione che «in tale contesto, il nomen iuris eventualmente assegnato dalle parti al contratto non è vincolante per il giudice ed è comunque sempre superabile in presenza di effettive, univoche, diverse modalità di adempimento della prestazione, non potendosi prescindere dalla ricerca della comune volontà delle parti».A tal proposito, la Corte sottolinea e che «ai fini della individuazione della c.d. natura giuridica del rapporto, il primario parametro distintivo della subordinazione deve essere necessariamente accertato o escluso mediante il ricorso ad elementi sussidiari che il giudice deve individuare in concreto, dando prevalenza ai dati fattuali che emergono dall'effettivo svolgimento del rapporto, essendo il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione (ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, c.c.), ma anche ai fini dell'accertamento di una nuova e diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell'attuazione del rapporto e diretta a modificare singole sue clausole e talora la stessa natura del rapporto lavorativo inizialmente prevista, da autonoma a subordinata; con la conseguenza che – precisa la Cassazione – in caso di contrasto fra i dati formali iniziali di individuazione della natura del rapporto e quelli di fatto emergenti dal suo concreto svolgimento, a questi ultimi deve darsi necessariamente rilievo prevalente nell'ambito di una richiesta di tutela formulata tra le parti del contratto».Con riferimento al caso di specie, la Cassazione ritiene, dunque, che la Corte territoriale abbia esaminato tutti gli elementi qualificanti la subordinazione, quali enunciati dalla costante giurisprudenza di legittimità in merito, pervenendo attraverso la delibazione dei punti di emersione probatoria ed alla luce dei richiamati, costanti insegnamenti giurisprudenziali – con un iter motivazionale del tutto coerente – ad escluderne la sussistenza, evidenziando, altresì, la carenza e genericità del ricorso del lavoratore in punto di allegazioni, laddove nessuno specifico riferimento era stato effettuato all'eventuale sottoposizione dello stesso al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro.Conseguentemente il ricorso del lavoratore viene respinto.

Requisiti di comunicazione del trasferimento del dipendente

Cass. Sez. Lav., 6 luglio 2021, n. 19143

Pres. Negri Della Torre; Rel. Boghetich; Ric. S. S.r.l.; Controric. F.M.F.

Trasferimento del dipendente – Obbligo di indicazione dei motivi nella comunicazione – Obbligo di risposta alla richiesta del dipendente – Insussistenza – Impugnazione giudiziale del provvedimento – Onere della prova a carico del datore di lavoro – Sussiste

In materia di trasferimento del lavoratore, il datore di lavoro non è tenuto né ad osservare alcun obbligo di forma per la comunicazione del provvedimento né a fornire al lavoratore l'indicazione dei motivi, avendo il datore di lavoro l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che hanno determinato il trasferimento nonché il rispetto, soprattutto nell'ipotesi di trasferimento che abbia riguardato un numero ampio di dipendenti, dei principi di buona fede e correttezza.

NOTA

La Suprema Corte è tornata a pronunciarsi in materia di trasferimento di lavoratore dipendente ex art. 2103 c.c. Nel caso in esame, la Corte d'Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva la domanda, proposta da un lavoratore, volta alla declaratoria di illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti dall'azienda, con conseguente condanna della società alla reintegrazione dello stesso nella posizione lavorativa ricoperta al momento del provvedimento datoriale – o a mansioni equivalenti. Osservava, nello specifico, la Corte territoriale che la società datrice di lavoro non aveva dimostrato la sussistenza delle esigenze tecniche organizzative in quanto «la sussistenza del trasferimento della struttura B. e la comunicazione di tale circostanza non è da solo, elemento esaustivo a suffragare la motivazione posta alla base del trasferimento».Avverso la predetta sentenza, la società ha proposto ricorso per cassazione, dolendosi, in particolare, per quel che qui interessa: i) del fatto che, erroneamente, la Corte d'Appello di Milano ha trascurato che, in tema di trasferimento del lavoratore, non è richiesto alcun onere di forma del provvedimento né l'indicazione nello stesso dei motivi del trasferimento; ii) dell'esclusione della prova testimoniale articolata dalla società per dimostrare l'effettività del trasferimento e le ragioni dello stesso.La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ribadendo i seguenti principi: 1) il controllo giurisdizionale delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive legittimanti il trasferimento del lavoratore non può ampliarsi al merito della scelta datoriale – trovando un preciso limite nel principio di libertà di iniziativa economica privata (garantita dall'art. 41 Cost.) – e deve essere diretto ad accertare il nesso di causalità tra il provvedimento di trasferimento e le ragioni poste a fondamento della scelta imprenditoriale; 2) il datore di lavoro, in ragione dei principi di correttezza e buona fede è tenuto ad avvalersi, tra soluzioni organizzative per lui paritarie, di quella meno gravosa per il dipendente; 3) il provvedimento di trasferimento non è soggetto ad alcun onere di forma e non deve necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro ha l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, salvo contestazione della legittimità del trasferimento in sede giudiziale; 4) il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che hanno determinato il provvedimento di trasferimento.La Corte di Cassazione ha dunque ritenuto che la Corte territoriale non si fosse conformata ai suddetti principi consolidati e ha cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte d'Appello di Milano in diversa composizione.  

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