Contenzioso

Legge 104: il diritto al trasferimento non è assoluto

di Valeria Zeppilli

Tra le misure a sostegno della disabilità, la legge 104/1992, al comma 5 dell'articolo 33, prevede la possibilità, per il genitore o familiare lavoratore che assiste con continuità un soggetto portatore di handicap, di scegliere la sede di lavoro più vicina al luogo in cui l'assistito ha il proprio domicilio e di non essere trasferito senza il proprio consenso.
Si tratta di una norma spesso oggetto di interpretazioni contrastanti, sulla quale la Corte di cassazione è stata chiamata a intervenire in più occasioni.

Come affermato di recente (sezione lavoro, 22885/2021), per i giudici di legittimità non ci sono dubbi nell'escludere che l'articolo 33, comma 5, della legge 104 faccia sorgere in capo al destinatario delle sue disposizioni un diritto assoluto e illimitato. Del resto, il legislatore, nell'aver avuto cura di inserire l'inciso «ove possibile» nel testo della stessa norma, ha dimostrato di voler effettuare un bilanciamento equo di tutti gli interessi di rilevanza costituzionale coinvolti nella fattispecie contemplata. Da un lato, infatti, vi è la tutela del disabile e di chi lo assiste, che rappresenta l'obiettivo principale e il fine perseguito dall'intero provvedimento legislativo; dall'altro lato, tuttavia, vi sono le esigenze economiche, produttive e organizzative del datore di lavoro e la necessità, in caso di pubblico impiego, di tutelare l'interesse della collettività, che non possono essere tralasciate.

Oltretutto, si deve considerare che, se è vero che l'articolo 33, comma 5, della legge 104/1992 agevola il familiare lavoratore nella scelta della sede di svolgimento della prestazione lavorativa per renderla il più compatibile possibile con la funzione solidaristica di assistenza del soggetto invalido, è anche vero che non si tratta dell'unico strumento a sostegno della solidarietà assistenziale.

Così, nel pubblico impiego, deve ritenersi che l'esigenza familiare sia di norma recessiva rispetto a quella di servizio, il che vuol dire che il servizio stesso va sempre garantito in termini di copertura e continuità e che occorre valutare l'impatto che un eventuale trasferimento può avere non tanto nella sede di destinazione quanto in quella di provenienza. Il tutto, ovviamente, per scongiurare un danno alla collettività. In termini pratici ciò significa che, nel lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, il diritto al trasferimento di cui all'articolo 33, comma 5, della legge 104 non può avere quale unico presupposto la vacanza del posto al quale il lavoratore vorrebbe essere assegnato.

La vacanza rappresenta invece, come rilevato dalla stessa Corte di cassazione, una «mera potenzialità», una «condizione necessaria ma non sufficiente». Alla stessa va sempre affiancata una decisione della pubblica amministrazione che, dal punto di vista organizzativo, può liberamente scegliere se coprirla o privilegiare altre soluzioni, sempre nel rispetto dei principi costituzionalmente garantiti di imparzialità e di buon andamento. È insomma ben possibile che, sulla base di un attento contemperamento, anche in presenza di un posto vacante, l'interesse alla corretta gestione della finanza pubblica risulti prevalente rispetto a quello del lavoratore che aspira al trasferimento.

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